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Toni, missionario dei ponti impossibili


Ruttimann viaggia nei luoghi più poveri per costruire opere che nessuno mai realizzerebbeFEDERICO TADDIA 07/03/2011 - PERSONAGGIOLa sua vita è racchiusa in due valigie: in una tiene pochi vestiti e qualche oggetto personale, nell’altra quello che gli occorre per il suo lavoro. Altro non gli serve, se non centinaia e centinaia di metri di cavi d’acciaio. Grazie ai quali ogni giorno un milione e trecentomila persone nel mondo possono passare da una sponda all’altra di un fiume, per andare verso ospedali, scuole e campi da coltivare. Occhi curiosi, voce sveglia e serena, idee chiare e contagiose: ecco l’identikit di Toni Ruttimann, nato 44 anni fa a Pontresina, nel Canton Grigioni. E ribattezzato «Toni el Suizo», lo svizzero, dagli abitanti di decine di villaggi dall’Ecuador all’Indonesia, del Costa Rica, del Laos, dell’Argentina e di qualsiasi altro angolo della terra dove è passato per lasciare il suo particolare segno: costruire un ponte. Un eroe invisibile, solitario e silenzioso, senza patria e senza stipendio, che in meno di 25 anni ha fatto nascere più di 500 ponti lunghi fino a 200 metri utilizzando i cavi dismessi dalle funivie elvetiche. «Nel 1987, ai tempi dell’esame di maturità, stavo guardando in televisione le immagini del terremoto in Ecuador, ed ho sentito una spinta irrefrenabile per partire a dare una mano», spiega Ruttimann. «Là ho toccato con mano la sofferenza, e ho preso consapevolezza di quanto i ponti siano generatori di vita, speranza e opportunità. Un ponte può ridare un futuro alle persone: e quindi ho deciso che quella sarebbe diventata la missione della mia vita». Da un ingegnere olandese acquisisce le prime tecniche per la costruzioni di ponti «a tiranti», copiando metodologie utilizzate dagli impianti petroliferi. E proprio da loro va a bussare per chiedere materiale di scarto, come vecchi cavi e tubi in acciaio, e coinvolgendo poi la popolazione locale nel recupero di terra, legno e pietre. Un perfetto gioco di squadra finalizzato ad un sogno: collegare due sponde. Dopo quella prima esperienza, Ruttimann decide di rientrare in Svizzera per iscriversi a Ingegneria, ma il richiamo umanitario è troppo forte: eccolo quindi di nuovo in Centro America. Undici anni tra Ecuador, Colombia, Nicaragua, Honduras, Costa Rica e il Messico: là dove smottamenti, terremoti e inondazioni dividono in due un paese o un villaggio lui si presenta, con le sue due valigie e un bagaglio di saperi e conoscenze, da mettere a disposizione degli abitanti. «Non ho una casa, non ho una famiglia a cui render conto e non mi servono soldi», racconta Ruttimann. «La mia famiglia è il villaggio che mi ospita, i miei parenti diventano i campesinos che mi offrono un letto e dividono il loro pasto con me. Non ho bisogno di altro: i materiali mi vengono donati dagli impianti di risalita svizzeri e da alcune ditte specializzate in condutture per il petrolio, ed io sfrutto questi tubi come strutture portanti. Nella mia vita sono sospeso come i ponti che costruiamo: fin dal primo istante del mio arrivo coinvolgo tutti i membri del villaggio, perché senza il loro lavoro e la loro manodopera nulla sarebbe possibile. Ma una volta terminato il ponte, mediamente dopo cinque, sei settimane, mi rimetto in viaggio alla ricerca di altri fiumi da attraversare». Due anni di malattia a causa della Sindrome di Guillain Barrè, contratta in Cambogia nel 2002, non fermano l’attività di Ruttimann: il sistema nervoso intaccato gli impedisce di muoversi e lavorare, ma grazie al computer continua la sua attività. Decide così di ottimizzare l’esperienza acquisita sul campo per sviluppare un software in grado, dopo l’immissione dei dati, di offrire indicazioni precise sul dimensionamento delle strutture, le lunghezze dei cavi e sulle tipologie di saldature ed agganci. Ristabilitosi nel fisico, l’«uomo del ponte» si rimette in pellegrinaggio. Un incontro casuale con un profugo cambogiano lo spinge a muoversi verso l’Asia. In Cambogia trova situazioni di sofferenza, afflizione e povertà, e ancora una volta la risposta che Toni offre per cambiare la vita, per ristabilire scambi e avvicinare la persona è la stessa: unire quello che un fiume divide. E proprio in questi giorni Ruttimann, dopo aver fatto nascere ben 76 ponti, ha annunciato di voler lasciare la Cambogia, che in questi dieci anni è stata la porta che gli ha permesso di spostarsi anche in Indonesia, Vietnam e Laos. E ora sta concentrando i suoi sforzi in Myanmar, l’ex Birmania, dove i generali al governo hanno concesso il nulla osta ad entrare
nel Paese a questo strano svizzero, indipendente da tutto e da tutti, senza fondi e senza nessuna organizzazione alle spalle, e che affida alla resistenza dei cavi la sua personale resistenza a fame, povertà e ingiustizia. «Quando qualcuno mi chiede chi me lo fare, rispondo che non lo so, citando ciò che un khamir di nascosto ha lasciato scritto nel cemento armato di un ponte cambogiano: “Nessuno capisce il mio cuore e i miei sentimenti; questo Ponte è il luogo che amo”. Poche parole, ma che danno senso a tutto». Toni Ruttimann , 44 anni, in un quarto di secolo ha costruito attraversamenti in quasi ogni angolo del mondo utilizzando la tecnica dei "tiranti sospesi"