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Intervista a Valeria Parrella di Silvia Bergero

Post n°120 pubblicato il 15 Maggio 2008 da atellibrai

«E come va con la monnezza?». «Mah, io abito vicino al Duomo e ci pensa la Curia a tener pulito... E comunque in centro non ci sono le montagne di rifiuti, le tolgono. Poi guardo i tg...». Basta una battuta al telefono con Valeria Parrella - la scrittrice che ogni settimana accoglie le lettrici di «Grazia» nella pagina “I romanzi” - e siamo nel cuore di Napoli, dove bene-male, sporcopulito, camorra-società civile sono contraddizioni talmente contigue da formare delle coppie inscindibili, proprio come lei stessa ha descritto nei racconti di Mosca più balena e Per grazia ricevuta (entrambi minimum fax) e nella pièce teatrale Il verdetto (Bompiani). E la città respira con e nei personaggi di Lo spazio bianco (Einaudi, 110 pagine, euro 14.80, in uscita il 23 gennaio), solo che questa volta la storia  raccontata da Valeria è segreta, personale, scavata dentro l’anima e il corpo di una donna, in ciò che di più intimo e oscuro anima e corpo di una donna possono racchiudere: la maternità, il mistero della vita. E della morte. Un’altra antinomia, la più forte di tutte e il grimaldello per penetrare la storia di Maria, insegnante quarantenne, mamma single di una bambina nata molto prima che il tempo fosse compiuto: «Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene: per quaranta giorni è stato come nominare la stessa condizione. Chiedere qualcosa ai medici era inutile, mi rispondevano: Signora, non lo può sapere nessuno». Il tono del romanzo è teso come questa frase, mentre i giorni colano lenti nel mondo a parte del reparto di terapia intensiva, in quella “scatola bianca” in cui è rinchiusa Irene, l’utero di Maria - come dice la psicologa, dove ogni respiro è scrutato con amore e paura.

Due sentimenti che percorrono tutta la narrazione, anche questi inscindibili. È così, Valeria?

«È proprio così, la mescolanza è la chiave ed è la ragione per cui ho scritto un romanzo e non un racconto, perché il personaggio è complesso, ha avuto un’infanzia complessa, in una famiglia operaia, tra un padre idealizzato e una madre appartata... C’è la paura per questo evento sconosciuto e Maria non sa che cosa augurarsi: “Fosse stato un aborto avrei aspettato il raschiamento, fosse stata una bambina l’avrei tenuta in braccio. Io non avevo altre categorie a disposizione”. Quanto all’amore, non l’ho insufflato in maniera consapevole e la protagonista stessa non ne è consapevole, però si vede, si sente».

C’è un’aderenza al calvario di Maria, un’empatia che va al di là di quella di uno scrittore con la sua creatura...

«Intanto ho un bambino che alla nascita ha avuto dei problemi e ci è toccato girare parecchio per gli ospedali. Ma, come sempre accade, è lo sguardo dello scrittore a rendere autobiografico il libro. Quello per me importante è che al fondo ci sia una verità, che Maria sia verosimile...».

...no, Maria è vera, non verosimile

«Grazie. Volevo raccontare una storia al limite, che può accadere solo nei paesi ricchi. Queste creature non sono bambini, non hanno identità anagrafica, sono tra la vita e la morte. Maria a un certo punto dice: “a volte mi sono augurata che la morte arrivasse per dare certezza”. E questo vive nello stesso spazio della speranza. È anche un libro sull’attesa: Maria ha 40 anni, ha una sua struttura che le viene scardinata e resta in attesa su qualcosa che ha fatto lei, ma che non è lei. Lei è della generazione che ha studiato, ma ciò non le serve per tenere in vita la bambina, al massimo per leggere i monitor degli apparecchi».

C’è una domanda che percorre il libro, rivolta dai medici a Maria: “Lei lo sa che...” potrebbe non sopravvivere, oppure sopravvivere con handicap gravissimi, o magari sopravvivere e basta. È un tormento.

«Sì perché c’è tutta l’impreparazione di queste donne, lei e le madri degli altri bambini nella stessa situazione di Irene, rispetto all’accettazione che la vita, la morte, l’handicap possano far parte della stessa cosa».

Infatti Maria si dà una risposta.

«Si capisce che la bambina vivrà, anche se non si sa come e Maria si risponde: “Non lo so, ma sono stata una brava alunna, imparerò”. Le cose stanno insieme, l’ambivalenza dello star bene e dello star male».

Anche nel finale c’è un motivo di speranza?

«Sì, le mamme e i bambini riusciranno a integrare i loro danni in una nuova normalità. Non quella della pubblicità dove la maternità, la famiglia è tutto perfetto. Qui non c’è neppure un padre... Maria non è religiosa, non sa dove cercare la forza e la ragione, ma arriva a una conclusione vitalistica, un po’ buddhista e un po’ animista».

Vuoi rassicurare i tuoi lettori, che la cornice del romanzo è ancora la città, i suoi personaggi?

«La cornice è la vita, sono i napoletani e i srilankesi, quell’umanità mista che si vede qua, perché a Napoli è tutto orizzontale, il Rione Sanità sta dietro al Madre (il polo artistico, ndr.), i Quartieri Spagnoli sopra a Toledo che è la via delle banche... Tutto è mescolato».

Che cosa ti aspetti dal tuo primo romanzo?

«Che lo legga un sacco di gente, e quanto a me, di non piangere troppo sulle stroncature... Sono convinta che il libro sia bello e questa convinzione è come un giubbotto antiproiettile, che mi difenderà quando pioveranno i colpi dei recensori».


Silvia Bergero è caposervizio libri e spettacoli «Grazia»

 
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