Creato da kainbornthere il 26/03/2010

caffe nero

senza zucchero

 

 

ESPERIMENTI SUL TIFO

Post n°6 pubblicato il 14 Marzo 2011 da kainbornthere

Per che cosa tifano i tifosi? Per la squadra. Cioè? Che cos’è la squadra per un tifoso?
Se fossi il presidente della Roma e della Lazio farei questo piccolo esperimento. Durante l’intervallo di Roma-Lazio venderei tutti i giocatori e lo staff della Roma alla Lazio, e tutti quelli della Lazio alla Roma, poi all’inizio del secondo tempo andrei a nascondermi dietro una bandierina del calcio d’angolo per vedere cosa succede. Verosimilmente la maggior parte degli spettatori si sentirà presa in giro e lascerà ordinatamente lo stadio senza accoltellarsi più di tanto, ma i tifosi? Cosa faranno i tifosi? Insulteranno i loro nuovi giocatori? Tiferanno per la squadra avversaria? Oppure continueranno a tifare per la loro squadra come se niente fosse? Forse. Che cos’è la squadra se non i giocatori di cui è composta? La maglia, si dice.
Il tifoso è fissato con la maglia. Puoi fargli di tutto, rubargli trenta euro ogni domenica, comprimerlo in scatole di sardine su rotaia, prenderlo a manganellate sulla capocchia di spillo, ma guai a toccargli la maglia. Chi sputa sulla maglia è un nemico, mentre chi la bacia è un amico, anche se alla fine si tratta sempre di saliva. Perché per il tifoso è così importante il modo in cui si spalma la saliva sulla maglia?
Per cercare di capirlo potrei fare così: sempre nell’intervallo di Roma-Lazio, oltre a scambiare giocatori e staff, stabilisco che d’ora in poi la maglia della Lazio sarà gialla e rossa con il simbolo di una lupa, mentre quella della Roma sarà bianca e azzurra col simbolo di un’aquila, la famosa aquila capitolina che porta i lombrichi a Romolo e Remo. In questo modo i tifosi vedranno rientrare in campo i vecchi giocatori della Roma con addosso una maglia giallo-rossa e i vecchi giocatori della Lazio con una maglia bianco-azzurra, solo che i giocatori della Roma con la maglia della Roma sono la Lazio, mentre quelli della Lazio con la maglia della Lazio sono la Roma, lo si capisce dal fatto che il calcio d’inizio del secondo tempo sarà battuto dagli stessi del primo tempo, vestiti come nel primo tempo e con lo stesso animaletto cucito addosso. Sotto quale curva andrà a sventolare la sua maglia giallo-rossa Totti, il capitano della Lazio?
Ma forse i tifosi non tifano nemmeno per la maglia, tifano per il nome della squadra. Bene, allora dopo aver scambiato giocatori e colori, scambio anche i nomi: la Lazio si chiamerà Roma e la Roma si chiamerà Lazio. Il cambiamento si noterà dal fatto che la squadra che alla fine del primo tempo stava vincendo, all’inizio del secondo starà perdendo. È una cosa che ogni tifoso dovrebbe notare. Se invece stavano pareggiando è più difficile, anche se i più attenti dovrebbero notare che sul tabellone non ci sarà più “Roma-Lazio 0-0”, ma “Lazio-Roma 0-0”. In pratica quello che rimane invariato è la storia delle due squadre: gli scudetti, le partite memorabili, eccetera. Vuoi vedere che i tifosi tifano per la storia?
Non resta che una cosa da fare: alla fine di quel famoso primo tempo annuncerò con grande rammarico ai giocatori che le loro squadre sono appena state sciolte, ma niente paura, sulle ceneri della Roma fonderò subito una nuova squadra, la Lazio, che sarà convenzionalmente chiamata “Roma”, avrà come colori sociali il giallo e il rosso e inizierà la sua nuova magica avventura nel mondo del calcio con i giocatori e tutto lo staff della vecchia Roma, mentre quest’ultima sarà rifondata sulla Lazio, si chiamerà “Lazio” e avrà i colori e i giocatori della Lazio. Lo speaker dello stadio si premurerà di spiegare tutto per bene.
Che cosa faranno i tifosi? Continueranno a tifare per la loro squadra, cioè l’altra, o inizieranno a tifare per gli avversari, che in realtà sono i loro?
Infine tutti i giocatori saranno sostituiti da ventidue piccole scimmie.


 
 
 

Lhc e i tempi lunghi della conoscenza

Post n°5 pubblicato il 15 Febbraio 2011 da kainbornthere

Secondo Suskind ("Il paesaggio cosmico" 2006), i critici della teoria delle stringhe appartengono a due ambienti:

I] "I teorici della materia condensata convinti che la teoria giusta sia "emergente". La fisica della materia condensata è lo studio delle proprietà della materia comune in forma solida, liquida e gassosa. Secondo questa scuola, lo spazio e il tempo emergono da qualche ben definito oggetto microscopico allo stesso modo in cui i reticoli cristallini e i superconduttori emergono dal comportamento collettivo di un gran numero di atomi. In molti casi il comportamento emergente è pressoché indipendente dai dettagli microscopici particolari". Dunque, i punti di partenza sono dettagli inutili. "I fisici, si sostiene, dovrebbero sforzarsi di capire le regole e i meccanismi dell'emergenza stessa; in altre parole, dovrebbero studiare la fisica della materia condensata", dove evidentemente il ruolo dello sperimentatore prevarrebbe su quello del teorico matematico!


II] "Un'altra fonte di critica viene da alcuni fisici sperimentali delle alte energie (certamente non da tutti), infastiditi dal fatto che i nuovi fenomeni implicati dalla teoria delle stringhe sono troppo lontani dalle possibilità di verifica sperimentale, come se questa fosse colpa dei teorici". E di chi dovrebbe essere la responsabilità? Non è poi così strano che gli sperimentali pretendano che i teorici si occupino soprattutto di problemi connessi alla fisica attuale o per l'immediato futuro. Ma Susskind osserva: "Ai giorni nostri gli esperimenti di fisica sono divenuti talmente grandi e complicati che ci vogliono decenni per portarli a termine. I giovani teorici brillanti sono come esploratori irrequieti: vogliono andare dove li porta la curiosità; e se questa li porta nel grande mare dell'ignoto, pace".

Ovunque vadano, l'oggettivo contrasto tra teorici e sperimentali è in questo modo svelato: da un lato cresce il numero dei tecnici che sono impegnati nella costruzione e nella gestione di enormi macchinari per sperimentazioni di lungo periodo (che sembrano non dare risposte positive a ipotesi prodotte dai teorici), i  quali temono di perdere finanziamenti e lavoro, perché, presto o tardi, governi e privati si stancheranno della mancanza di risultati. Nel versante opposto, i teorici vanno in tutte le direzioni attirati dalla possibilità di partecipare alla gara della teoria finale. Vanno in ogni direzione, nel vasto mare del tutto matematico formale e del nulla reale.

Susskind, diplomaticamente, cerca una mediazione che appare, però, sempre più una chimera: "La maggior parte degli sperimentali davvero validi non fanno molto caso a ciò che pensano i teorici: costruiscono gli apparati che sono in grado di fare. La maggior parte dei fisici teorici davvero validi non fanno molto caso a ciò che fanno gli sperimentali: costruiscono le loro teorie seguendo il loro istinto e vanno dove li porta l'intuito. Tutti sperano che prima o poi le due strade s'incrocino, ma quando e dove ciò avverrà nessuno lo può sapere con certezza".

Nella sua nonchalance, Susskind finge di dimenticare che, ad esempio, tutti gli sperimentali sono interessati alla scoperta della particella di Higs, non meno dei teorici che l'hanno prevista e calcolata. Perciò, l'eventuale fallimento (prevedibile) dei risultati dell'LHC, sul quale nessuno a tutt'oggi ha speso una sola parola seria, danneggerebbe anche i teorici ancora legati alle conferme o smentite degli sperimentali. Favorirebbe, invece, quei teorici, come lo stesso Susskind, le cui teorie vanno ben oltre la possibilità presente e futura della sperimentazione umana, con il risultato di premiare la mistificazione pura del formalismo matematico.

 
 
 

Un po'

Post n°4 pubblicato il 07 Gennaio 2011 da kainbornthere

Oggi mi prende uno strano desiderio e mi esibisco, in seconda, in una delle mie antipedagogiche e immotivate uscite di strada. Racconto una breve storia, che ho letto non mi ricordo più quando né dove: la storia dice che ci troviamo in cima a una torre molto alta di una grande città lontana e sconosciuta (diciamo pure in Cina, che funziona bene). Viste dall’alto, le persone che passano per la strada sembrano piccoli insetti, indistinti, senza identità: punti che si muovono impazziti in mille direzioni. Noi guardiamo giù e pensiamo. E mentre siamo lì arriva un angelo (o un diavolo, non importa) e ci dice: «Tu puoi far morire tutte le persone che vedi passare. Ti basta pensarlo. Non le conosci e non le conoscerai mai. Nessuno saprà mai che le hai fatte morire. Nessuno dei loro amici o parenti verrà mai in contatto con te e nessuno ti accuserà mai di niente.» Noi lo guardiamo perplessi e non capiamo cosa ci stia dicendo. Lui aggiunge: «Per ogni persona che farai morire io ti darò 10.000 euro». La storia finisce così. Io guardo i miei quattordicenni e chiedo loro a bruciapelo: «Voi cosa fareste?».

La prima voce è femminile. È Carolina che mi dice: «Io li faccio morire tutti». Gli altri tacciono. Ma dopo qualche secondo interviene il suo compagno di banco, Giovanni: «No, non tutti, non ce n’è bisogno. Ne bastano un po’…». Gli altri ridono (lui no, lui era serio); alcuni sono d’accordo. Un po’ sembra a molti la dose giusta. Carolina sente il bisogno di precisare: «Ma dipende! Dipende da quanti soldi uno ha bisogno, da quanto è povero…». Agli sguardi di molti credo che sembri una precisazione ragionevole. Un po’ è terribile, secondo me, ma forse non secondo loro. Poi dal fondo si alza una voce sottile. È quella di Greta, che dice: «Ma io non posso far morire nessuno! Nessuno può farlo!... Perché poi il rimorso lo tormenterebbe e non potrebbe mai più essere felice». È una bella risposta, ma nessuno dice niente, nessuno conferma nessuno nemmeno ribatte. Tutti tacciono. Da destra interviene una voce maschile, Diego: «Io faccio morire solo i marocchini e gli albanesi». Poi si guarda intorno abbastanza soddisfatto e fiero (è il profondo Nord, baby). E alcuni ridono. Poi, dal fondo della classe, un’altra voce maschile, quella di Damiano: «Io farrei morire solo i vecchi». Tutti alzano lo sguardo verso di me: la risposta sembra geniale, perfetta. Salva i cavoli e le capre (almeno quelle giovani e di mezza età. Le vecchie capre, pazienza). Ma io, perfidamente, chiedo: «Quanto vecchi?». E Diego: «Quelli di settant’anni». Sembra una cifra accettabile. Io dico: «Settant’anni è l’età che ha mio padre». «Allora ottanta» si affretta a correggere Damiano. Ridono di nuovo in tanti; e, ve lo confesso vergognandomi, mi scopro a ridere anch’io, ma poco, per fortuna. Poi li guardo ancora ma non succede più niente. Tutti stanno zitti, nessuno sa più cosa dire. Credo si stupiscano che non ci fosse una risposta giusta, pensavano che alla fine l’avrei rivelata io la soluzione, il numero, la quantità, la misura perfetta. È molto strano, per loro, che io non abbia la risposta. Io invece li guardo soltanto, miei piccoli quindicenni, e so perfettamente di essere, tranne che per l’ingenuità, come loro. Un po’.

fonte: Sempre un po a disagio

 
 
 

Le buche

Post n°3 pubblicato il 20 Novembre 2010 da kainbornthere

Le buche si evidenziano abitualmente come depressioni su una superficie altrimenti coerente e priva di tensioni discrete. Altresì non sono rare buche più importanti, deformazioni vistose provocate da una consistente perdita di materiale costitutivo. Il marciapiede che collega via stazione con piazza mercato presenta solchi rettangolari dove le pezze d'asfalto più scuro segnalano scavi recenti nel manto stradale, crepe abbondanti dove le radici degli alberi si sono allungate in profondità, screpolature, avvallamenti, piccoli crateri dovuti al gocciolamento o alle infiltrazioni. È un marciapiede dalla morfologia complessa, costellato dalle macchie di antiche gomme da masticare, da ciuffi d'erba e isole di muschio, da rifiuti, escrementi, tracce sbiadite di vernice. Si verifica la presenza di alcuni tombini, uno quadrato dove tutt'attorno l'asfalto ha ceduto dando forma a canali di scolo che spingono l'acqua piovana, proveniente da una vicina grondaia abusiva, a evitare il tombino, a dividersi in due rigagnoli che l'avvolgono e si riuniscono dietro di esso precipitando infine dal cordolo in una composta, elegante, anche se ridotta cascata. Altri tombini sono rotondi, più piccoli, la forma rotonda è l'unica che impedisce per ragioni geometriche al coperchio di scivolare nel buco comunque lo si posizioni.

Entro spingendo una porta a vetri leggera al punto da far pensare che sia polistirolo mascherato da legno, dipinto da un maestro del dettaglio con pennelli millimetrali. È il mio ristorante preferito, ricordo a me stesso volgendo intorno lo sguardo a riconoscere, a controllare, a verificare che tutto sia dove deve essere. Il vaso dei fiori secchi sul pianoforte con le sue spighe colorate di rosso, le roselline ingiallite dal capo chino, gli steli di foglie improbabili che hanno perso spessore fino a diventare filigrane. Il tavolaccio infinito davanti all'enorme camino, dove c'è sempre posto finché qualcuno riesce a stringersi al vicino, poi non più, e ci si passa il vino e ci si offre il pane chiacchierando di argomenti innocui, masticando i bocconi con tutta la calma necessaria a meditare una risposta accurata. I cani, il giovane che ti lecca la mano e ti appoggia la zampa sulla coscia, il vecchio che rimane sdraiato accanto al fuoco e se accetta un boccone prelibato è solo per farti un favore, lo prende con delicatezza sopportando il mal di denti, il mal di ossa, la nausea per vita che è l'insulto continuo di una morte che indugia. I quadri anch'essi saggi nella loro mancanza di vigore, senza nessuna voglia di stupire, di ammaestrare, se ne stanno appesi un po' sghembi a mostrare acquarelli di ponti su fiumi tranquilli, placide composizioni di frutta in cui la luce proviene sempre di sbieco.

C'è una buca molto vecchia dove il bitume e la pietra si odiano, alla base di un gradino da soglia che non porta a nessun ingresso, un portoncino di marciume verniciato, marchiato da spaccature vistose e tumescenti così antiche da non avere attrattiva neppure per l'insetto meno esigente. Dove in passato ci furono pareti ora c'è un giardino, ma l'accesso è sopravvissuto, risparmiato dalla pena dei muratori, dalla superstizione dei proprietari, dalla distrazione degli architetti o semplicemente da un bisogno di memoria, uno scherzo incomprensibile. La buca rivela dei segni incisi nella pietra, dove il marciapiede si scosta o viene respinto, e questi segni, corrosi quanto sono, non dicono più niente, borbottano i segnali incoerenti degli anziani che si addormentano con gli occhi aperti. Poco più avanti le bocche di lupo, le reti arruggine su grate arrugginite che proteggono da ciò che si nasconde nel buio della cantina, oppure sono lì per impedirci di entrare, di fare pazzie. Si sentono correnti d'aria che sono un respiro odoroso di polvere d'estate e di muffa d'inverno, che ti fanno guardare nel buio oltre la rete e le grate mentre allunghi il passo. Nelle buche si raccoglie la terra, il polline giallo dell'immenso cedro dall'altra parte della strada, ci finiscono oggetti smarriti che sono bottoni rotti, puntine schiacciate, frammenti di carta dai contorni frastagliati, schegge di vetro molato dall'eterno rotolio dell'abbandono, l'insonnia di una febbre che è chiedersi il perché senza trovare mai risposta.

Il mio ingresso fa suonare una campanella e rimango fermo in attesa che appaia la cuoca. Non passa mai più di una manciata di secondi prima che venga fuori sparata dalla cucina con in mano dei piatti o una caraffa, dei bicchieri, delle posate, un cesto di fette di pane. Non è ancora entrata nel salone che il suo sguardo è su di me, mi stava vedendo attraverso le pareti e non mostra stupore si limita a un cenno delicato del capo, comprensivo, un sorriso che non ha paura di mostrare qualcosa di intimo e sincero, un organizzazione dei movimenti che rivela totale disinteresse per i problemi che tormentano la gente comune, uno sguardo che ha smesso da tempo di arrendersi a qualsiasi disagio. Mi vado a sedere e prima di rivolgere l'attenzione ai presenti mi concentro sugli spari e i fischi dei ciocchi sugli alari, e mi sgonfio, e dimentico. Mi separo dalle sciocche polemiche dei militanti, dagli stretti orizzonti dei predicatori, dalle argomentazioni insidiose degli squilibrati, dall'arroganza dei sobillatori, dalle pretese degli ipocriti, dalle menzogne degli arrivisti. Penso alle mani della cuoca, arrossate dai forni e dai vapori, ammorbidite dai sughi e dagli unti, odorose di spezie e di primizie, nodose e precise, fragili e rapide. Penso ai capelli della cuoca, legati e racchiusi nel canovaccio di cotone a righine usato come foulard, al disegno delle ciocche invisibili, alla tensione che muove le forcine quando piega la testa. Penso al fuoco e anche al basso soffitto con le travi a vista, agli oggetti sulle mensole, ai mattoni del pavimento. E con gratitudine dimentico.

fonte: Titolo provvisorio

 
 
 

VINCE CHI SORRIDE!

Post n°2 pubblicato il 02 Ottobre 2010 da kainbornthere

Con queste facce serie non vincerete mai. Non l’ha detto Buster Keaton, lo ha detto un grande maestro di arti marziali ai suoi giovani focosi allievi. Io credo che questo principio valga anche in politica. Ai progressisti manca un po’ il sorriso. Molti oppositori al governo dello sfascio fanno a gara per apparire in televisione con la faccia più seria e incazzata possibile e a urlare a più non posso. Essere incavolati neri è la prova della sincerità e della forza del proprio impegno politico.Berlusconi invece fa il sorriso finto e vince.

Già sento scalpitare alcuni che mi massacreranno nei commenti a questo articolo: dici bene tu! Ma se fossi un operaio licenziato non avresti niente da sorridere! Allora vorrei raccontarti la storia di 100 milioni di donne che sono uscite dalla miseria insieme a 300 milioni di loro familiari senza dover fare la faccia scura e urlare, neanche per 10 minuti. Anzi hanno dovuto sorridere molto, perché hanno dovuto collaborare, mettersi d’accordo, darsi fiducia. E se non sai sorridere non ci riesci. Perché il sorriso è il cemento delle relazioni sociali. Non essere capaci di sorridere è una malattia relazionale grave: chi non sorride resta da solo (e perde le elezioni).

La storia di queste donne inizia in Bangladesh dove nasce la Grameen Bank di Mohammad Yunus, quello che dopo 30 anni di risultati incredibili ha preso il Nobel. Yunus è un tipo paffutello. E ovviamente ha sempre il sorriso stampato sulla faccia. Questo non gli dà un’aria volitiva e intelligente. Sembra un po’ un pirlotto. Sono andato a vederlo di persona a una conferenza. Volevo vedere com’è uno che crea le condizioni perché milioni di persone si salvino dalla fame e dalla miseria. E’ basso, con la faccia tonda, il viso gentile. Parla a centinaia di persone come se fosse al bar. Senza toni da comizio, senza sventolare bandiere. Ogni tanto si ferma, guarda la platea e sorride. Iniziò prestando 23 dollari a 46 donne di un villaggio miserabile del Banghladesh, mezzo dollaro a testa, e chiese pure il 17% di interessi! Lui non voleva fare la carità ma una banca funzionante, con i conti in attivo. E molti gli dissero che era un cane rognoso perché cercava di arricchirsi prestando denaro alle donne che morivano di fame. Lui dimostrò che queste donne erano capaci di restituire il denaro con gli interessi nel 97% dei casi, molto più di quanto riesca a ottenere una banca normale che presta denaro solo a chi dà garanzie di solvibilità. Quelle donne dovevano andare all’alba dall’usuraio e prendere in prestito mezzo dollaro, compravano il bambù, costruivano uno sgabello e alla sera ripagavano il debito contratto al mattino con interessi spaventosi (giornalieri). Così restava loro in tasca quasi niente. E vivevano nella miseria più totale. Il prestito di mezzo dollaro, restituito in 52 rate settimanali, le tolse dalla disperazione. E Yunus dimostrò che si poteva creare una banca dei poveri con i conti in attivo e quindi una capacità crescente di autofinanziarsi e di erogare quindi sempre nuovi microprestiti. Ti consiglio di leggere la sua biografia, una storia da fantascienza (Il banchiere dei poveri, Feltrinelli).


La cosa che più mi ha colpito nella storia del microcredito è il metodo che questi hanno usato. Innanzi tutto hanno fatto affidamento sulle donne. Le donne devono liberarsi, la banca offre solo un’opportunità, un’occasione, una possibilità. Le donne per ricevere il prestito devono riunirsi in gruppi di 5. Il debito è individuale ma c’è un gruppo solidale. La restituzione avviene in microscopiche rate settimanali. Le donne si incontrano, il bancario riceve i soldi e dà ogni volta un’informazione utile su un’erba da cucinare, regole di igiene o un trucco per allevare i polli. E in questo incontro le donne raccontano cosa hanno fatto, che difficoltà hanno incontrato, trovano sostegno psicologico e aiuto. E devono accettare un impegno: se hanno un figlio maschio non devono chiedere alla sposa la dote, se hanno una figlia femmina devono rifiutarsi di sottostare all’obbligo della dote. Questo perché per le famiglie povere diventa una rovina pagare la dote e questo trasforma in una disastro l’avere figlie femmine e determina quindi uno stato di asservimento della donna che fin da piccola deve andare a lavorare per iniziare a accumulare la dote… e non può andare a scuola… Yunus ha capito che l’unico modo per cancellare questo costume assurdo era vincolare i prestiti all’impegno di non seguire più la consuetudine della dote. Niente volantini, comizi, cortei, proteste, lotte parlamentari. Hanno affrontato il problema alla fonte: le madri. E hanno vinto senza combattere creando le condizioni perché il cambiamento diventasse inevitabile. Ovviamente più d’uno s’è incavolato: gli usurai, i tradizionalisti e anche alcuni preti musulmani, si andava contro tradizioni millenarie. Ed è successo che alcuni Mullah abbiano minacciato alcuni funzionari della Grameen Bank: siete dei blasfemi! Già perché la tradizione di quel paese vuole che le donne non possano neppure toccare il denaro… Figuriamoci contrarre un prestito… Di fronte alle minacce la banca dei poveri ha reagito organizzando cortei? Proteste? Presidi?No. Hanno abbandonato immediatamente i villaggi dove venivano minacciati dalle autorità religiose.E molti gli han detto: siete dei vigliacchi! E loro niente. Se ne sono andati.

Le donne che avevano preso un prestito dovevano così percorrere a piedi magari 10 km per raggiungere un villaggio dove i banchieri dei poveri non erano stati minacciati. Ed erano un po’ incavolate. E quando avevano dieci minuti andavano dal Mullah e gli dicevano: “Mullah, Mullah, ma sai che mi tocca fa, che devo andà a piedi fin là… Ma cosa c’hai contro i banchieri dei poveri, che prima morivo di fame con i miei figli, Mullah…”. Tutti i giorni, 40 donne che andavano dal Mullah a torturarlo. E a un certo punto i Mullah crollano e alcuni dicono: “Va bene, fate tornare quei dementi della banca dei poveri! Non se ne può più.” Le donne vanno dai banchieri dei poveri: “Potete tornare!” E loro rispondono: “Torniamo solo se quel Mullah, viene qua, con tutti gli abitanti di quel villaggio e ci dice, di fronte al Mullah di questo villaggio e alla gente di questo villaggio che noi siamo i benvenuti e che lancerà una Fatwa contro chiunque ci tocchi.” Che esagerati! Le donne riferiscono la richiesta al loro Mullha. E quello dice: “Andate al diavolo!” E allora le donne ricominciano a rompergli i santissimi. “Mullah, Mullah, ma sai che mi tocca andà a piedi fin là… Ma cosa c’hai contro quelli là? Mullah Mullah! Che prima morivo di fame, Mullah… Mullah, Mullah, me fan male i pe! Disgrazià!” E alla fine i Mullah hanno ceduto. Crollo psichico depressivo.

E dopo anni che la banca funzionava ed era stata clonata in decine di altri paesi e prestava denaro a decine di milioni di donne, la Banca Mondiale decise di farle un prestito enorme. E allora quelli della Grameen Bank decidono di lanciare la proposta di un mutuo di 500 dollari (che là sono una cifra vertiginosa) per la costruzione di una casa. Arrivano domande a migliaia. Ma c’è una condizione: per avere il mutuo la donna deve possedere il terreno dove sarebbe sorta la casa. E questo era semplicemente impossibile. Nessuna donna poteva possedere la terra, era un tabù preislamico. Allora tutti dicono a Yunus: “Adesso che hai avuto i soldi della Banca Mondiale non li presti più senza garanzie… Allora facevi solo finta! Traditore.” E loro invece giù duri: “Se la terra è tua ti diamo i soldi. Sennò continua a morire con i tuoi figli in baracche fatiscenti.” Sticavoli! Ma passano 6 mesi e 500 mila donne scassano talmente i santissimi a mariti, padri, vicini di casa, amanti, che alla fine hanno la loro terra e ci hanno costruito sopra una casa. Quanto c’avrebbero impiegato con il sistema delle proteste, dei cortei, degli scontri di piazza, delle petizioni? Yunus ha creato le condizioni. Ha cambiato direttamente la realtà quotidiana, senza chiedere leggi nuove a nessuno.

Ma continuavano a criticarlo. Soprattutto perché prestava denaro solo alle donne che potevano lavorare. Vecchie e invalide erano escluse. Poi un bel giorno Yunus rifà per la terza volta tutti i conti e dice: “Ce la possiamo fare.” E creano una compagnia di telefonia cellulare di proprietà della Banca dei Poveri. Danno così lavoro a 36 mila donne vecchieinvalide che diventano un posto telefonico pubblico, con un cellulare e un pannello solare per ricaricarlo. Vendono telefonate a basso prezzo, riuscendo così anche a portare il telefono nei villaggi più sperduti. Un salto di qualità enorme, perché se sei il più povero, poter fare una telefonata invece di camminare per 20 chilometri fa la differenza. Se cammini non lavori e se non lavori non mangi e il giorno dopo sei talmente stanco e affamato che non riesci a lavorare.

Nel suo ultimo libro, “Un mondo senza povertà” (Feltrinelli) Yunus spiega la nuova fase nella quale sono entrati e promette, semplicemente, la fine della povertà.
Yunus è quello che oggi può dire di aver inventato un metodo che ha tirato fuori dalla miseria 100 milioni di donne in tutto il mondo grazie a piccoli prestiti finalizzati all’auto impresa e a una faccia sorridente. Non c’è nessuno che sia riuscito a realizzare niente di simile.
Ora, nel suo nuovo libro, Yunus ci spalanca una nuova prospettiva (vera) di lotta alla povertà.
Come suo solito lo fa andando controcorrente e mettendo in pratica strategie che scandalizzano la buona parte del mondo del Movimento solidale, almeno di quello italiano.
Nel 2006 è nata una società tra la banca dei poveri di Yunus (Grameen Bank) e la multinazionale Danone leader mondiale nel settore alimentare (in Usa si chiama Dannon).
Quel che ha fatto Yunus è qualche cosa di veramente geniale.
Parte da un problema concreto: i bambini del Bangladesh si ammalano e muoiono perché dopo l’allattamento mangiano solo riso. Serve un alimento ricco di vitamine e proteine adatto allo svezzamento. Studiano il problema e scoprono che la cosa migliore sarebbe uno yogurt arricchito.
Domanda:
Come facciamo a far sì che milioni di bambini possano mangiare questo yogurt nei prossimi decenni?

Soluzioni:

1) Facciamo una raccolta di fondi e regaliamo
 yogurt? No, perché servirebbe una quantità di denaro impensabile, ogni anno, per sempre.

2) Creiamo una società, un’impresa capitalista, di nuovo tipo. I finanziatori (la Danone) mettono i soldi ma rinunciano a guadagnarci. Potranno soltanto riavere i loro soldi rivalutati rispetto all’inflazione dopo 10 anni. Ma attenzione, lo scopo della società è fare utili per potersi sviluppare. L’obiettivo di questa Spa non è quella di guadagnare il più possibile, non è quello di regalare, vuole essere un’impresa sana, con i conti in attivo, il suo obiettivo è vendere yogurt per lo svezzamento al prezzo più basso possibile, senza perderci.

La soluzione del problema nasce da una concezione diversa della logistica.
Innanzi tutto tagliano un costo principale che è quello di conservare e trasportare al freddo lo yogurt. Invece di costruire una grande fabbrica ne costruiscono tante piccole che servono una zona limitata dove il prodotto viene realizzato e consumato in giornata. Questo semplice accorgimento permette di tagliare enormemente i costi offrendo al contempo un prodotto migliore.
Semplice e geniale. E funziona.

E attenzione: l’azienda finanziatrice rinuncia alla rendita finanziaria dell’investimento ma non ci rimette in quanto il denaro verrà rivalutato.
Ma l’azienda ottiene un guadagno collaterale enorme in termini di pubblicità. In questo articolo sto parlando bene della Danone e sto cercando di convincerti che sono capitalisti di tipo nuovo che hanno dato vita a una delle più grandi rivoluzioni di questo secolo. E questo lo faccio per convinzione senza che la Danone mi abbia dato un solo euro.
E la Danone ottiene anche un clamoroso successo verso i suoi dipendenti che possono avere la soddisfazione di vedere che il frutto del loro lavoro non finisce solo in donne e champagne per gli azionisti ma viene utilizzato per salvare la vita di migliaia di bambini. E si sa che i dipendenti motivati lavorano meglio e hanno meno voglia di sabotare l’azienda per dispetto. E anche questi sono soldi!
Ecco che Yunus e la Danone hanno inventato un nuovo modello di impresa capitalista che riesce a dare utili notevolissimi a costi irrisori. Quel che ci rimette la Danone sono i soldi che potrebbe guadagnare investendo il capitale immobilizzato. Ma il capitale continua a essere suo.
Quando le aziende spendono denaro in pubblicità non lo vedono più. In questo caso la Danone si paga la pubblicità rinunciando a utili (ipotetici).
Ma c’è un altro elemento interessante dal punto di vista economico che Yunus ci fa capire.
Sono i dirigenti della Danone che contattano Yunus. Sono loro a dirgli: abbiamo un sacco di soldi, vorremmo combinare qualche cosa di buono, avrebbe mica un’idea nella quale potremmo spendere una vagonata di milioni di euro?
La Danone è l’azienda che ha gestito in modo più geniale la propria attività umanitaria ma non è la sola. Yunus scopre che le grandi multinazionali potenzialmente possono essere interessate a investire in buone azioni.

Bill Gates ha scelto di donare 25 miliardi di dollari (che una volta erano circa 50 mila miliardi di lire) e molti altri lo hanno imitato con cifre superiori al miliardo di euro (duemila miliardi di lire).
Ora ammetterete che donazioni di questo calibro ci costringono a rivedere l’immagine del capitalista pronto a sterminare i bambini per un dollaro in più.
Esiste pure quello e prima o poi finirà in galera. I petrolieri e i venditori di armi hanno fatto l’impossibile per ottenere una bella guerra in Iraq, con un numero di morti civili che viene valutato dai 350 mila al milione.
Ma esiste anche un capitalismo che ha identificato la solidarietà come un lusso irrinunciabile. Preferiscono cercare di vivere in un mondo migliore piuttosto che comprarsi altre 100 Ferrari, altre 10 barche a vela e altri 10 aerei da gran turismo.

Chi l’avrebbe detto che la ricchezza estrema avrebbe generato qualche cosa di buono?
E vorrei anche osservare che Yunus ha organizzato questa Spa umanitaria dedita allo sviluppo ma non alla massificazione dei profitti, in modo molto particolare.
Ad esempio, i manager del progetto sono dirigenti Danone, pagati a suon di milioni di dollari.
Yunus non ha chiesto che venisse ridotto il loro stipendio. E questo va contro una delle leggi della morale solidaristica. Sono anni che attacchiamo i funzionari Onu che si occupano di fame del mondo con stipendi da favola.
Ma a Yunus non interessa. Ha bisogno dei migliori del mondo per progettare le linee di ricerca, produzione e distribuzione di uno yogurt che oggi esiste e costa pochissimo.
E reputa conveniente pagare i migliori tecnici ai prezzi di mercato.

Attenzione, Yunus non dice che questo sia l’unico sistema giusto.
Lui dice: va benissimo l’organizzazione che aiuta elargendo aiuti senza chiedere niente e si regge sulle donazioni, come Emergency; va benissimo l’organizzazione commerciale solidale come la banca dei poveri o il commercio equo, che sono un’impresa, devono avere i conti in attivo ma utilizzano anche volontari non pagati e danno stipendi con un “tetto morale” medio basso; va bene anche la società per azioni che si limita a devolvere in imprese umanitarie una quota degli utili; tutto questo va bene ma ci serve anche qualche cosa d’altro.
La povertà è legata soprattutto alla mancanza di opportunità per i poveri. La banca dei poveri, le reti cellulari per collegare i paesi più sperduti alle linee telefoniche e a internet, la creazione di scuole di impresa studiate per i micro imprenditori individuali, vanno in questo senso: offrono accesso a possibilità.
Ma per affrontare i problemi della povertà ci serve anche che arrivino sul mercato in quantità massiccia prodotti a basso costo e alta qualità. Prodotti studiati apposta per i più poveri, fatti su misura per le loro esigenze: dallo yogurt arricchito alla tanica a forma di ruota con un buco al centro, che rotola e diminuisce del 70% la fatica di trasportare acqua, le pompe solari e il computer a basso costo. Ideare e progettare questi nuovi prodotti è difficilissimo proprio perché sono rivolti a clienti molto particolari. Questi nuovi prodotti richiedono investimenti colossali e tempi lunghi di ritorno che le imprese del no-profit classico non possono affrontare.
Inoltre non è pensabile inventare da zero una struttura industriale capace di creare decine di prodotti diversi, è molto più semplice, ed economico, associarsi con aziende che hanno uomini, mezzi e conoscenze (anche se i loro manager sono super pagati).
Ecco da dove nasce l’idea della joint venture tra imprese solidali e multinazionali per la creazione di questo business sociale (come lo battezza Yunus).
Ma la genialità di questo approccio sta anche in un altro aspetto. I micro laboratori che producono yogurt sono imitabili proprio perché sono studiati per fare utili. Questo ha portato molti piccoli imprenditori a copiare la formula della distribuzione senza refrigeratori e a creare aziende che fanno concorrenza alla banca dei poveri. E questo ha permesso di raggiungere livelli di produzione e di diffusione molto superiori alle capacità del trust Danone-micro credito mobilitando forze molto superiori che hanno aiutato a vincere questa battaglia e a ridurre in modo enorme la mortalità infantile. Le ultime notizie che ci giungono dalla banca dei poveri parlano di centinaia di migliaia di impianti fotovoltaici e a biogas (gas per cucinare dalla cacca: una trincea, un sacco di plastica lungo 50 metri per 1 metro di larghezza e uno di profondità, qualche bottiglia di plastica, qualche tubo, colla, costo 146 dollari, dà gas per 6 famiglie con 50 litri di letame e acqua al giorno evitando ore di lavoro per tagliare alberi e la desertificazione). Ci sono pescatori collegati a internet che hanno finalmente previsioni del tempo e indicazioni su dove sono i pesci, via satellite. E allevatori mongoli che essendo disperati per una moria di cavalli si rivolgono a una specie di Emergency dei veterinari. Ma nessuno trova una cura. Allora diffondono un appello che raggiunge i villaggi più sperduti del mondo. Risponde una tribù sperduta di nativi americani del Canada che hanno affrontato lo stesso tipo di epidemia vent’anni prima: basta aggiungere magnesio alla dieta dei cavalli. E i cavalli mongoli iniziano a guarire. Io credo che questa esperienza sia piena di insegnamenti per chi si sta impegnando per un’Italia migliore. E molti in Italia l’hanno capito e lo stanno facendo con risultati enormi.
Questo nuovo modo di concepire l’azione politica ci dice molto dal punto di vista delle azioni strategiche e dell’atteggiamento che rifugge lo scontro e le questioni di principio per trovare l’efficienza. Militanti politici di nuovo tipo che hanno sostituito l’aggressività con il sorriso, le urla con l’azione quotidiana. Il mondo si cambia così: dando qualche possibilità a una donna per volta.

 
 
 
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si, siamo veramente apposto :))
Inviato da: kainbornthere
il 18/12/2011 alle 13:16
 
fantastico !
Inviato da: prego0
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ahahaha, confermo tutto
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vuoi dire che non sei tu che scrivi tutto quello che si...
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