Il mondo di Calle

Le palizzate


Tratto da Ansie Letterarie Diavolo, una canicola oggi. Dal marciapiedi sale del vapore; un ondeggiare, un brillare qui e là. Ed è come dopo un lampo, quando ti si imbiancano tutti gli occhi. Penso a una linea maginot, a un limes, a una grande muraglia… Fatto è che non si riesce quasi a vedere l’edicola. E nel proseguire, mi sento come un ostrogoto che penetra in una fortezza romana. Stoico. Perché bisogna ammetterlo, fra tutte le strategie, quella di erigere palizzate a protezione di un campo è la più inconsistente. Non credo esistano fortini inespugnabili. E magari non dico proprio una sciocchezza. Quando poi, di fatto, con le palizzate dichiari al nemico che ti sei rammollito, attesti, come dire, la tua sedentarietà. Le palizzate attorno ai campi romani si videro solo alla fine dell’Impero, quando cioè al posto delle tende si costruirono delle vere e proprie strutture abitative. Con tali comodità, non è difficile immaginare un certo lassismo tra i soldati. Signori cari, i fortini custodiscono, proteggono, racchiudono uno spazio; ma i fortini tarpano le ali. I fortini creano distacco, fanno solitudine. Più ti proteggi all’interno, più ti isoli all’esterno. Non so se mi spiego.Ma chissà perché oggi mi vengono in mente questi pensieri da triangolo isoscele. Sarà questo caldo assassino, quando sotto la barra della radice quadrata ci saranno almeno 40 gradi. Michele sta maneggiando i libri alle vetrine: e sembra più pensieroso di me. –‘Giorno, signor Michele. Che abbiamo.– Uh… giusto lei! Abbiamo che devo prendere una decisione. – Importante?– Come la ricotta salata sulla pasta col pomodoro. – Quindi una questione di panza? – Ma no, che panza e panza. – È allora?– Problema. Fare o non fare la richiesta per inserire nelle vendite le schede per il parcheggio…? – Vuole accontentare finalmente quella brava gente? – Ora però non pensi che mi sono arreso, eh.– Non lo penso mica. Solo mi chiedo cosa non ha funzionato l’altra volta con tutti quei cartelli esposti attorno all’edicola. – Quali cartelli? – Quelli in cui c’era scritto che qui non si vendono le schede per il parcheggio. – Beh cosa non ha funzionato. Scoprirlo è come vincere al gratta e vinci. – E si vince?– Si gratta. – Eppure, del perché molti avventori non hanno digerito quei cartelli, un motivo ci sarà. – A me pareva di avergli fatto un favore. – Beh non è proprio così, signor Michele. Mi scusi se glielo dico. – Ah... E com’è, allora. Sentiamo la sua versione in prosa.– Il favore, volendo considerare la cosa, lei lo faceva a se stesso. Non era forse una seccatura per lei dover rispondere ogni volta alla stessa richiesta?Michele mi lancia un’occhiata che si stacca bassa. Poi mi molla lì e rientra nel suo buco. Quando riappare alla finestrella il suo volto sembra una fuga dalle carni. Michele diviso due: questa ora la scena. Mi chiedo che fine hanno fatto le linee morbide del suo viso, il suo aspetto gentile, il fondo bianchissimo dei suoi occhi… Guardo Michele e penso che un volto in serio incazzamento imbruttisca. La bellezza in qualche modo deve avere a che fare con la spensieratezza. Si deve essere lieti, nella vita; meno pensieri hai in testa, più bello sei. Forse per questo motivo i belli ci stanno generalmente sui francobolli. – Anche lei! – fa Michele con la voce squillante. – Dunque anche lei sta dalla loro parte. Non ho più speranza allora.– Cerco solo di capire il punto di vista di quei simpaticoni – faccio io.– Ma che punto di vista del manicomio – fa lui. – Quelli sono dei rompicoglioni. Punto.– Magari cercano la battuta. – Battuta. Che battuta?– Vede, abbiamo a che fare con dei catanesi. E i catanesi, si sa, hanno innato in sé una certa teatralità che li rende unici. Quando discorrono non si limitano a parlare, cercano la recita, fanno la parte, vanno per metafore. Penso sia un atteggiamento atavico. – Mi spieghi allora che diavolo hanno immaginato ‘sti catanesi leggendo i miei cartelli. In effetti è quello che andavo pensando io prima. Perché tutto quel teatro per una semplice frase? Poi mi viene in mente che sono catanese anch’io. Diavolo, perché non ci ho pensato prima?– Sto sempre aspettando che lei mi illumini con la sua saggezza – mi fa Michele.Io la butto lì. – Signor Michele, è una questione di palizzate.– Palizzate. Che palizzate mi va raccontando, ora?– Vede, in quelle frasi i clienti vedevano delle palizzate attorno all’edicola: leggevano qualcosa tipo: Sciò, via di qui!… – Ma davvero? E a me sembrava di averci scritto un’altra storia.– No, il punto è che dichiarando ciò che non si vende, oltre a declassare il prodotto che non si vende, al contempo si decanta ciò che si vende, cioè i libri nel suo caso. Implicitamente è come se quelle scritte dicessero agli avventori: Signori cari, non rompete i coglioni con le schede per il parcheggio perché queste interessano ai poveracci illetterati. I libri sono molto più preziosi e destinati agli uomini colti.– Embé, non è così, forse?– Un palo luce è così: bello, liscio e dritto ma duro di comprendonio. Il catanese non ama mica lo snobismo e nemmeno le dichiarazioni implicite. È inoltre convinto di avere lui solo il monopolio del ricamarci sopra alle cose. Comprì?– Comprì un mazzo di cavolo al mercato! Mi sta cioè dicendo che quei cartelli nascondevano il colpo del giò giò? È per questo che si indispettivano i clienti? – Più o meno, o all’incirca meno quasi: scelga lei l’avverbio più sciccoso. – Diavolo che discorsi da turco che fa! Mi tolga una curiosità: ma come ci è arrivato a queste sue considerazioni? – Semplicemente pensando in catanese. – Perché normalmente lei pensa in austro-ungarico? – Ammetto che a volte non mi capisco nemmeno io. Ma in quanto catanese, ho innato anch’io una certa teatralità. Spesso mi convinco che le cose che penso io sono particolarmente originali. – E non lo sono?– Non più di quelle di altri catanesi, suppongo. Vede, il catanese, per capire fino in fondo un catanese, e quindi anche il catanese che è dentro di sé, deve solo ricordarsi di pensare in catanese.– Sarà, ma io che sono catanese calzato e vestito quanto e come lei, non ci ho capito un emerito niente sulla faccenda cartelli.Un cliente. Ha la fronte sporgente; dietro alle lenti cerchiati si intravedono due occhi da miope, il naso è un triangolo scaleno che finisce a punta; un viso complessivamente oblungo. Un tipo da laboratorio, si direbbe. Ha l’aria incerta. Gira un’occhiata para para all’edicola. E fissa me, e fissa Michele. E fissa di nuovo me, e di nuovo Michele. Una muta interrogazione, la sua, come quella che mi faceva la mia vecchia prof al liceo: lei guardava me e io guardavo lei: nessuno dei due parlava. Ma l’interrogazione del signore dalla fronte sporgente è una carica elettrica che aleggia nell’aria. La domanda è tipo, voglio dirvi sicuramente qualcosa di importante ma non mi spuntano le parole in bocca. – Le interessano le schede per il parcheggio, suppongo – gli fa scattoso Michele.– No, per carità. Ma so bene che qui si vendono le schede per il parcheggio. Il problema è un altro.– Non la seguo. Che problema?– Le spiego. Sono il fioraio di via Monf. Sa, la bottega dietro l’angolo, poco più sotto di qui. Molti clienti mi assillano con le richieste delle schede per il parcheggio. Sono anni ormai che non faccio altro che dirottarli sistematicamente da lei. La prima traversa a sinistra: l’edicola dirimpetto, gli dico sempre. Sennò mica me li tolgo dai coglioni eh. Ora pensavo di inserirle anch’io le schede. Così non mi assillano più, e magari ci guadagno qualcosa. Lei che ne pensa. C’è da guadagnare con le schede?Michele sparisce nel suo buco. Il signore dalla fronte sporgente fissa me, basito. Io fisso lui, fresco come un gelsomino. Michele rispunta alla finestrella: tira dalla custodia il violino. Lo imbraccia come sa, tasta le corde, come sempre. Con la postura da violinista calcato, gli occhi in basso concentrati sullo strumento, risponde con un tono di voce serioso che non gli appartiene.– Caro signore, saprei risponderle qualcosa in proposito, se avessi mai venduto le schede per il parcheggio. – Non vende schede per il parcheggio? Davvero strano. È cosa vende allora, mi scusi tanto.Ma Michele La Spina è partito con l’assolo: arpeggio saltellante in ottava. Il tipo da laboratorio lascerà certamente la sua muta domanda impressa nell’aria. Più tardi, col sereno, confido che io e Michele riusciremo a captare ciò che quel tipo non ha saputo dirci a parole. Ma questa è un’altra storia.