Colonnello Kurtz

Guerre semifredde


Anche stanotte ho dormito poco e male. Zanzare e maalox alle quattro di mattina. Ho mangiato pesante, ieri sera, ma non è soltanto per quello. E’ per lo stress e le arrabbiature che mi stanno logorando da dentro. Sono coinvolto, mio malgrado, in una delle tante guerre semifredde che si combattono ogni giorno nella maggior parte dei luoghi di lavoro. Mi trovo, da solo, a combattere contro un piccolo esercito di vestali della cartellina. Sono immediatamente riconoscibili per l’abitudine di girare a passi veloci e frettolosi per stanze e corridoi con una cartellina portadocumenti perennemente sotto il braccio, inclinata di circa trenta gradi rispetto all’asse verticale. E’ una categoria indifferente al sesso, sono donnette e ragazzetti rampanti, spesso freschi freschi di laurea, che pur non sapendo fare praticamente un cazzo ostentano piglio da manager e finta dedizione da madre superiora; sono perennemente ossessionati dalla necessità di farsi vedere sempre disponibili e preparati dai capi, e ostentano la cartellina come se fosse un simbolo del potere temporale. Parlano a raffica, intercalando continuamente con il nome del capo da cui tutto il loro carisma discende come se fosse lo spirito santo. E giocano sporco, trattenendo per sé stessi informazioni vitali per mandare avanti il lavoro, creando situazioni strane per metterti in difficoltà, cercando di delegare sistematicamente i lavori pesanti e cercando di far passare per propri meriti di altri. Approfittano sfacciatamente del fatto che il capo sia impegnatissimo e non abbia tempo né modo per approfondire come vanno davvero le cose per farsi i cazzi propri. Il core business di questa categoria di “lavoratori” sono le chiacchiere da corridoio, che disseminano con consumata arte per ottenere qualche vantaggio ma soprattutto per mettere in ombra qualche persona. Fortunatamente, ogni tanto qualcuno finisce per prenderci troppo gusto, la sicumera li tradisce e li spinge a parlare più del dovuto e dell’accettabile, o peggio a farsi beccare con le mani nella marmellata, e si brucia le penne del culo, fino a diventare le vittime designate di sé stessi e della propria arroganza. E nel frattempo, il gruppo con cui lavoro, capace in passato di risultati di assoluta eccellenza, mi sembra sempre più irriconoscibile. Nessuno sa più se si può fidare del proprio vicino di postazione, ci si sente osservati, soppesati. Si lavora tutti male, c’è un diffuso senso di disagio nell’aria. La qualità del lavoro va a puttane, ci si stanca di più, diventano sempre più frequenti le gastriti, le cefalee martellanti, l’insonnia e qualcuno finisce per dare evidenti segni di depressione. Si produce meno e peggio, non ci si parla più, ci si guarda con sospetto persino se si va a pranzo con qualcuno che è stato sfiorato da qualche pettegolezzo infame. Il capo, troppo preso dai suoi impegni, fa finta di non vedere e non sapere. Nessuno parla perché a nessuno piace diventare la prossima vittima. E soprattutto perché, in questo patologico gioco di maschere, c’è sempre il rischio di dare l’impressione di essere coinvolti nel medesimo meccanismo che si intendeva stigmatizzare. Il lavoro termina di essere un momento di crescita e di autorealizzazione, e assume le forme di malattia sociale e insieme di condanna biblica. Chissà se pensava a qualcosa del genere il tale che diceva che il lavoro rende liberi. Ma detto così non rende, in italiano è una frase generica, poco espressiva. Bisogna dirlo in lingua originale: Arbeit Macht Frei.Nella foto: frammenti di un’alba insonne