Creato da cambronne.ds il 14/06/2008
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« E Và....Un cult della TV »

Un mito di sempre: John Wayne

Post n°17 pubblicato il 23 Agosto 2008 da cambronne.ds
 

Non c'è bisogno di fargli un monumento. Se l'è costruito da sé, scolpito nella roccia del Far West e nel vento delle praterie, in cinquant'anni di lavoro sudato come pochi in quel tipo di cinema che è tutto un gran faticare, in sella ai cavalli e sulle piste polverose, tutto uno spingere mandrie, e sparare e fare a cazzotti e respirare il fumo dei saloons, l'odore di sterco e di cuoio, per il piacere di chi sta in poltrona. “Al diavolo i film che la gente non capisce, tutte quelle complicazioni europee”, diceva John Wayne alzando con una smorfia il cappello a larga tesa. “La psicologia è roba da malati di mente”. E se la prendeva, negli ultimi anni, con “gli attorucoli anarcoidi che oggi vanno di moda”. “L'antieroe è un non senso: quelli che contano sono gli eroi”.
Tutto si potrà rimproverare a John Wayne fuorché la mancanza di coerenza. Nato a Winterset, nello Jowa, nel 1907, figlio d'un droghiere, Marion Michel Morrison, battezzato col nome d'arte nel 1930 nel Grande sentiero di Walsh, ha incarnato senza incertezze il carattere e il piglio dell'uomo americano che misura i sentimenti sulla loro capacità di trasformarsi in gesto, e la storia in possesso. Da quando apparve come figurante, nel '28, in La canzone della mamma e La casa del boia, fino al Pistolero del '76, (in cui prima di morire di cancro raddrizzava ogni torto), John Wayne ha attraversato mezzo secolo di cinema americano restando sempre fedele all'antintellettualísmo delle origini, a un'idea dello spettacolo che nella cornice d'una natura nemica poggia sull'immediatezza del rapporto fra pensiero elementare e azione concreta. “Gli spettatori mi amano perché sentono che io sono semplice come loro”, diceva Wayne. È un modo di degradare il cinema e la vita, giacché la “semplicità” del pubblico è spesso mancanza di dubbio e di cultura, ma anche la chiave per comprendere come la grande popolarità di John Wayne derivasse appunto dal suo corrispondere ai gusti facili di generazioni che delegarono al condottiero spavaldo, al capitano coraggioso, la celebrazione del vitalismo virile. Tutti valori che si identificano, nel bene e nel male, con l'epica d'un'Ameríca spinta alla conquista di terre nuove dall'etica dell'avventura, e indotta a chiamare fuorilegge chi non accettasse le regole concordate per la spartizione del bottino. Ma anche valori che il western ha stereotipizzato sino a privarli di senso, sicché fra le centinaia di film interpretati da John Wayne ne andranno salvati soltanto alcuni della prima maturità e quelli della vecchiaia. I primi, cominciando ovviamente da Ombre rosse, perché nobilitano il genere, danno a John Wayne statura d'attore, e lo consacrano erede diretto del pioniere al quale la società americana consente di far giustizia da sé. I secondi perché racchiudono, nel volto d'un Wayne flaccido e incarognito, la solitudine e il rancore d'un mondo che rifiuta i nuovi tempi, e cerca nei comunisti, nei capelloni, nei drogati, negli omosessuali, in tutta quella “dannata gentaglia” come Wayne amava definirla, il capro espiatorio d'un sogno andato in frantumi proprio perché costruito sulla sabbia della prepotenza e del romanticume.
Si consiglia attenzione. John Wayne non è stato affatto quel mediocre attore che vogliono quanti, nella loro intolleranza politica, condannano l'interprete perché l'uomo era un “superfalco” la cui canzone preferita era l'inno nazionale, sceglieva per mogli donne latino-americane supponendole più succubi, sosteneva la “Lega per la salvaguardia degli ideali americani”, era amico di Reagan e Goldwater, e padre severo dei suoi sette figli (“per non farne degli sbandati”). Da quando John Ford, il suo Pigmalione, dopo aver visto Ombre rosse gli dette una gran manata e gli disse “Figlio d'un cane, sei un attore!”, Wayne recitò sempre meglio, raggiungendo ben presto una varietà di sfumature, spesso con un controcanto di affaticata tristezza, che dette qualche decoro anche ai suoi western più dozzinali. Berretti verdi, con cui tornò a provarsi anche nella regia dopo La. battaglia di Alamo, è soltanto del 1968. Alle sue spalle ci sono quarant'anni di lavoro compiuto sapendo che il miglior modo di avere successo è fare con serietà il proprio mestiere. L'esaltazione dell'eroismo dei soldati americani impegnati nella “guerra sacrosanta” del Vietnam strinse il cuore e fece rabbia, ma era il seguito spontaneo dell'ideologia cui “Il Duca” si era sempre ispirato, detta con una perizia d'attore che sino ad allora pochi dei suoi avversari gli avevano contestato. Gli studenti di Berkeley che lo coprirono di ingiurie erano gli stessi che fin quando aveva cavalcato nel Far West, cow-boy o sceriffo, avevano applaudito alla sua eccellenza professionale, apprezzato i suoi tocchi di autoironia e le pieghe amare e malinconiche che danno eleganza a certi suoi film.
Prima di morire John Wayne ha dichiarato di sentirsi in pace con la propria coscienza, giudicandosi “un uomo giusto, onesto, lavoratore, che non ha mai violato la legge di Dio né quelle degli uomini”. Sono meriti cui non è sempre facile rendere onore, quando chi li rivendica disseppellisce il concetto di patria, continua a vedere nella donna soltanto la sposa e la madre, si trincera in un ricco ranch coi suoi cavalli e considera la politica una “cosa sporca”. Ma per misurarli, e chiederci se fossero davvero usurpati, dovremmo valutare il consenso larghissimo ottenuto dal pubblico d'ogni età e condizione col Fiume rosso e Rio Bravo, Un uomo tranquillo e Sentieri selvaggi, Soldati a cavallo e L'uomo che uccise Liberty Valance, I tre della Croce del Sud e El Dorado, Rio Lobo e Il Grinta (per cui Wayne ebbe l'Oscar): un pugno di film che insieme a Ombre rosse, in cui fu Ringo Kid, l'evaso per sete di vendetta, restano nella memoria più per la sua interpretazione generosa che per le virtù convenzionali dei suoi autori. “I registi - ricordava John Wayne - sono degli operai specializzati e basta: è ridicolo che si diano tante arie da artisti”.
Sia vero o no (per il western è quasi sempre vero), Wayne ha dato più di quanto abbia ricevuto dalla macchina di Hollywood. In cambio dei miliardi di dollari che fece guadagnare ottenne un ranch in Arizona, una villa a Newport Beach, un panfilo, due elicotteri. Molto poco, rispetto alla franchezza con cui, in una vita senza scandali, difendendo i suoi principi credette di difendere il suo paese, e rispetto al cinismo di chi talvolta se ne servì. Fra quanti usano il cinema per fare propaganda alle proprie idee politiche non sono molti quelli che come John Wayne mettono a frutto un talento educato in lunghi anni di gavetta. Oggi, “Il Duca” ha perduto il suo ultimo duello, ma si è guadagnato qualcosa di più dell'onore delle armi. È entrato nel pantheon dei simboli, con tutto il peso della loro retorica e il carico di nostalgia che comporta ogni leggenda.


Da Il Corriere della Sera, 13 giugno 1979

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