il canto del gitano

riflessi


                                      cercavo la mia immagine riflessa sul vetro, con un libro qualsiasi in mano, del quale non avrei mai ricordato neppure la copertina.sfuggivo la mia immagine riflessa e rincorrevo quella delle persone al di là di quello stesso vetro.Il brusio, una voce metallica sopra le altre che dava indicazioni; fuori, i colori delle macchine e della vita di città che scorrevano.Tu di fronte a me, in silenzio, con l’aria compiaciuta di chi aggiunge alle tasche della memoria un altro volto.I tuoi occhi fingevano di non scrutarmi, ma sentivo i tuoi pensieri che mi bisbigliavano alle spalle.Io, invece, ti osservavo, abbozzavo nella mente uno schizzo di te, sul quale aggiungere pochi particolari che ti distinguano dalle altre sagome che ho in testa. Scusa, ma io il mondo lo vedo così e quel giorno ho cercato di rubarti le linee per renderti una mia immagine.Molte altre figure hai accartocciato nel tuo ricordo quel giorno, ti guardavo mentre cercavi di non farle scappare, mentre le rincorrevi.Camminavamo per le strade alla ricerca di una meta che fosse il pretesto per non fermarsi, perché si faceva sempre più indefinita e lontana, quando, casualmente, sembravamo raggiungerla.Una piccola terrazza con una rosa gialla e l’edera intorno. Ridesti. Le dita che ci scivolavano tra le mani, quasi a voler cancellare i segni di altre dita che, in passato, si erano adagiate in quella carezza e, a loro volta, avevano preso il posto di altre ancora.Perché le mani sono curiose e si lasciano sedurre dalle nuove forme, dai colori, dal freddo e dal calore. Le mani smettono di amare prima che lo faccia il resto del corpo e si concedono ad altre mani e ad altre cose.Il sole mi si posava sul viso e si tratteneva a giocare con l’ombra fino a quando non mi voltavo e lo respingevo per qualche istante.I tuoi silenzi.Avrei voluto dirti, avrei voluto ascoltarti, avrei semplicemente voluto, ma mi distraevi. Il tuo profilo, il tuo inseguire il tempo, i tuoi pensieri, quelli che ancora sentivo intorno e che, adesso, mi avevano preso per mano. Osservavamo quello che era l’unico orizzonte che avevamo di fonte, che si muoveva e si lasciava colare sulla forme lontane davanti, negando la sua natura di linea.Quello che mi piaceva era che provavo un niente e un  tutto, in un indefinito groviglio di sensazioni che mi portava oltre la comune denominazione delle emozioni.Le tue parole.I miei silenzi. Quei silenzi che si rassegnano alla loro mancanza di suono, perché non sanno sbrogliare l’intreccio sottile tra convenzione e significato. Semplicemente un’immagine percepita su una pellicola che non la imprime su di se. Mi vedevi e anch’io ti vedevo, ma solo perché sapevamo di esserci.Il fresco Trascorrere che mi sfiorava la pelle, mentre mi illudevo che il buio dei miei occhi chiusi potesse convincerlo a rinunciare alla sera.Veloci le luci, i passi, i rumori, non mi davano il tempo di disegnarli come volevo nei ricordi. La fretta di arrivare, la paura di perdere, il sospetto di voler smettere quella corsa verso ciò che ero e che non avevo voglia di tornare ad essere.Cercavo la tua immagine riflessa sul vetro e vedevo la mia che ti guardava, che ti parlava, che ti sorrideva, che ti salutava, che ti ricordava, che…La mia immagine sul vetro e un libro in mano, perché nessuno mi chiedesse dove stessi rivolgendo lo sguardo.Ti voglio bene.