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Il vicolo cieco dell'antagonismo

Post n°226 pubblicato il 13 Ottobre 2009 da Ganim

Anche se spesso scopiazzo qua e là mi piace riportare il pensiero di quelle menti che mostrano pacatezza, acume, visione di insieme...insomma dei FARIi in questo mare agitato di scontro aprioristico, di contrapposizione, di agitazione dell'io contro tutti. Buona lettura

Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera del 13 ottobre

Avendo da sempre a cuore una cultura di terzietà, da sempre ho rischiato di essere marginalizza­to e svillaneggiato da chi con ar­dore esercita la prassi dell’antagonismo. «Tu non c’entri, lascia che ci regoliamo i conti fra noi», questa frase richiama ricor­di adolescenziali e giovanili, di quando l’intenzione di fare il pacie­re finiva male, talvolta an­che con qualche escoriazio­ne; ma continuo a ritenere l’antagonismo non solo emotivamente spiacevole, ma anche infecondo e inu­tile.

Gli antagonisti sono una forza della natura: sono pervicacemente convinti di avere ragione, esprimono un’intenzionalità fuori mi­sura, chiamano allo schie­ramento senza se e senza ma, coltivano il gusto del­l’inimicizia, qualche volta aspirano alla distruzione dell’odiato nemico. Si mon­tano psicologicamente e producono spettacolo per tutti, e sottilmente diventa­no anche gli spettatori di se stessi. E avviene che spesso la lotta all’alter ego produca il decli­no non solo dell’alter ma anche dell’ego.

E’ difficile comunque resistere alla ten­tazione antagonista, anche quando si ri­schia di scivolare nel fondamentalismo del primato religioso o nel feticismo del primato della scienza; figurarsi se si tratta della lotta politica, terreno altamente favo­revole allo scontro, anche dopo la morte dichiarata delle contrapposizioni ideologi­che del Novecento; e terreno in cui l'anta­gonismo ha portato frutti perfidi e regres­sivi.

Non basta però di fronte al calor bianco di queste settimane, con tutti contro tutti, nella contrapposizione di due eserciti, uno contro e l’altro a favo­re di Berlusconi, fare richia­mi morali al dialogo, al ri­spetto dell’avversario; l’aria che tira è tale che, se ci fos­se un arbitro a decretare un break , i duellanti ne ap­profitterebbero per piazza­re un colpo sotto la cintu­ra. Il problema va posto più utilmente nei suoi ter­mini culturali, nell’incapa­cità dell’antagonismo a «scavare al di sotto dell’an­titesi », che è l’unico modo per rispettare la dinamica del reale. Le cose hanno sempre un andamento (una verità, si potrebbe di­re) «trasversale» e non van­no quindi viste e trattate in una logica di causalità lon­gitudinale, dove sarebbero condannate a cozzare l’una con l’altra.

La vita è correlazione, è «chiasma», co­me dicono i fenomenologi per segnalare che fra gli opposti (il bene e il male, lo spi­rito e il corpo, lo sviluppo e la crisi, ecc.) c’è reciprocità e non vittoria assoluta di uno di essi. La vittoria assoluta di una sola componente della vita (è ciò che i militanti dell’antagonismo ardentemente desiderano) oscurerebbe l’orizzonte, solo un pluralismo dei punti di vista permette di crescere collettivamente e di far maturare un’articolata appartenenza al medesimo mondo.

Certo è difficile, nell’attuale contrapporsi di accesi antagonisti, richiamare questa culturale esigenza di capire le correlazioni fra gli opposti e lavorarci in termini trasversali, di interpretazione, di connessione, di mediazione (sottraiamo questa parola alla damnatio memoriae di pavida furbizia democristiana). Fare oggi politica utile a tutti è mestiere da tessitore, di chi lavora sul rovescio della stoffa, tirandone via via i fili e capendone via via il senso. Ed è un mestiere di silenzi, non di proclami guerreschi. Non è quindi bene perdersi in richiami morali, basta un più sommesso richiamo a pensare; e a pensare in modo corretto, questa è la vera tregua. Capire cioè quale sia la trama di lungo periodo della nostra evoluzione sociopolitica e quanto tempo e silenzio siano necessari, senza troppi alterchi di scena.

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