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Ambrosoli, l'eroe borghese trent'anni dopo

Post n°213 pubblicato il 11 Luglio 2009 da Ganim
 
Tag: memoria

    

di Lorenzo Frigerio - 10 luglio 2009
La lezione dell’avvocato che si scontrò contro mafia e corruzione
“Mi scusi, signor Ambrosoli”
: sono queste le parole – decisamente inusuali visto il contesto – utilizzate dal killer italoamericano William Aricò, un attimo prima di scaricare la sua 357 magnum all’indirizzo di Giorgio Ambrosoli.

 


È l’11 luglio del 1979, è da poco passata la mezzanotte e l’avvocato Ambrosoli si trova improvvisamente e inaspettatamente solo davanti alla morte, dopo avere passato le ultime ore della sua vita in compagnia di alcuni amici, per assistere ad un match di pugilato in televisione.

Sono passati trent’anni da quel giorno e ancora oggi conserva intatta tutta la sua freschezza e validità la lezione di vita offerta da quest’uomo che non esitò, in nome e per conto di uno Stato titubante per non dire colluso, a scontrarsi con il sistema mafioso e di corruttela costruito da Michele Sindona.

Giorgio Ambrosoli nasce il 17 ottobre del 1933 a Milano da una famiglia agiata, di estrazione borghese; il padre, pur essendo avvocato, lavora in banca e l’educazione che offre ai figli – Giorgio è il primogenito di tre – è fondata su rigidi principi e una robusta fede cattolica. Durante il periodo degli studi, Ambrosoli manifesta simpatia per la monarchia e quel riferimento si consoliderà anni dopo in una cultura profondamente liberale. Una cultura che, insieme alle radici cattoliche e borghesi, lo renderanno sempre particolarmente diffidente nei confronti della politica, come ben ci ricorda lo scrittore Corrado Stajano nel suo indimenticabile “Un eroe borghese” (Einaudi, Torino 1991): “La politica, per lui, è ancora peggio dell’arte del possibile, è solo l’arte dell’intrigo, dell’imbroglio, della sopraffazione. La politica è la maledetta politica, i partiti sono i responsabili della degradazione nazionale, nemici dell’interesse collettivo, sempre dalla parte dell’interesse particolare, anche se inverecondo, anche se contrario a ogni codice naturale, morale, penale. Uomo dello Stato proverà su di sé che cosa significa avere nemiche le istituzioni e alleati solo uomini anomali e senza potere”.

Laureatosi in legge all’Università Statale, contrariamente all’idea del padre che sogna per lui un futuro sicuro in banca, decide di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura e alla famiglia, che costruisce con Annalori, conosciuta proprio ai tempi dell’Unione Monarchica e dalla quale avrà tre figli di cui andrà sempre estremamente fiero. Anche dal punto di vista professionale, i motivi di soddisfazione non mancano; specializzatosi in diritto fallimentare, trova un primo serio impegno nella gestione del fallimento della Società Finanziaria Italiana, in capo alla quale si registra un crack di settanta miliardi.

È questo il banco di prova per l’avvocato milanese che, il 24 settembre 1974, viene chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona: appare fin da subito chiaro che il finanziere siciliano si è mosso certo dell’impunità e andando avanti Ambrosoli si convincerà sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa dal sistema. Grazie alle carte che riesce a collazionare e alle irregolarità e falsità che scopre di giorno in giorno, Ambrosoli risale ai legami che Sindona ha con la politica (Andreotti, Piccoli, Fanfani), la Chiesa (Marcinkus e lo Ior), la massoneria (Gelli e la P2), la finanza (Cuccia), per finire con la magistratura e la mafia siciliana.

Del resto la complessità diabolica di un intreccio tra politica, finanza, massoneria e criminalità mafiosa appare evidente ad Ambrosoli fin da subito, come ben si coglie dalla lettera indirizzata alla moglie, scritta a pochi mesi dall’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana e trovata per caso dalla donna, all’insaputa del marito: “E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese (…) A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito”. Quella lettera, un testamento nei fatti, ha i toni accorati di un forte impegno civile, è una pagina di etica della professione che andrebbe imparata a memoria nelle scuole. Nelle parole di Ambrosoli1 si coglie una profondità di riferimenti valoriali che oggi più che mai mancano al nostro Paese, si percepisce l’orgoglio di chi si sente servitore dello Stato, ma non per questo affatto sminuito, anzi pronto piuttosto a sacrificarsi per il bene comune senza ambire a risultati

A nulla valgono le pressioni e finanche i tentativi di avvicinarlo e di corromperlo che Sindona mette in atto, per evitare strascichi in ambito civile e penale. I cinque anni che vedono Ambrosoli alla guida della Banca Privata Italiana sono costellati di difficoltà e ostacoli frapposti alla sua azione anche da ambienti istituzionali e politici. Sono gli anni in cui Sindona viene celebrato come il “salvatore della lira” da Giulio Andreotti e in un contesto di isolamento, l’avvocato milanese può contare solo sull’apporto generoso del maresciallo Silvio Novembre, un finanziere tutto d’un pezzo. Un isolamento che si ampia a dismisura, quando anche i vertici della Banca d’Italia, nelle persone di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, vengono colpiti da un’inchiesta giudiziaria dai contorni poco chiari ancora oggi, in realtà tolti di mezzo per privare Ambrosoli di ogni appoggio.

Le pressioni si fanno più pesanti fino a sfociare in minacce vere e proprie alla sua incolumità e a quella dei suoi cari, ma nonostante tutto Ambrosoli, ben cosciente dei rischi che corre, chiude il procedimento di liquidazione, dopo cinque anni di duro lavoro. L’avvocato impedisce così il salvataggio dell’istituto richiesto da più parti a nome di Sindona, ma soprattutto getta le basi perché venga riconosciuta la piena responsabilità di Sindona in sede penale e civile. Negli stessi mesi l’intransigente commissario liquidatore collabora con la magistratura statunitense e con l’FBI per il crack negli Stati Uniti di un’altra banca controllata da Sindona, la Franklin National Bank e, proprio il giorno prima del suo assassinio, depone come testimone nell’ambito di una rogatoria internazionale, eseguita presso il Palazzo di Giustizia di Milano alla presenza delle autorità americane. Una deposizione che avrebbe dovuto sottoscrivere il 12 luglio, ma che non arriverà mai a firmare, bloccato dalle pallottole del killer mafioso.

Per l’omicidio Ambrosoli vengono condannati all’ergastolo Michele Sindona e Robert Venetucci, un mafioso italoamericano coinvolto nel traffico di stupefacenti. Sindona muore in carcere a Voghera, dopo aver ingerito un caffè contenente cianuro. Ancora oggi non è chiaro se sia stato messo a tacere oppure se la morte sia stata l’epilogo di un tentativo di suicidio, che lo avrebbe dovuto portare fuori dal carcere.

Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio.

Oggi le vicende di quegli anni sono raccolte in un bel libro scritto dal figlio di Giorgio Ambrosoli, Umberto. Il titolo è tratto proprio da quella lettera testamento lasciata dal padre “Qualunque cosa succeda” (Sironi Editore, Milano 2009). Una testimonianza di prima mano, con particolari inediti: “Toccare con mano la disinvoltura con la quale lo Ior ha operato insieme a Sindona genera in papà una sorta di imbarazzo, quasi una crisi della dimensione spirituale. Ma per noi tre continua a volere una formazione religiosa”.

L’esempio di Ambrosoli è ancora vivo dopo trent’anni, soprattutto perché la situazione del nostro Paese non sembra essere cambiata. La corruzione, dopo gli anni di Mani Pulite, non ha mai allentato la presa sulla società e sull’economia e la certezza della pena per quanti si macchiano di crimini in ambito economico e finanziario resta una petizione di principio. Ricordare Ambrosoli significa consegnare il ricordo di un uomo dello Stato a quanti non l’hanno conosciuto, nella speranza che il suo impegno possa trovare altre gambe su cui camminare.


[1] Anna carissima,

è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana n.d. r.) atto che ovviamente non soddisfarà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese.

Ricordi i giorni dell'Umi (Unione Monarchica Italiana n.d.r.) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.

I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi (…)

Giorgio

 
 
 

"Io non tacero' mai, sig. Presidente"

Post n°212 pubblicato il 10 Luglio 2009 da Ganim

   
    

di Luigi de Magistris - 6 luglio 2009
Quando lo Stato di Diritto viene mortificato, quando la Democrazia viene attaccata, non ci vuole il silenzio, non è pensabile la narcotizzazione delle coscienze, non sono accettabili dosi di bromuro istituzionale.




Serve invece adrenalina, ci vogliono il coraggio delle idee, la forza dell'onestà, la volontà di contrastare un sistema marcio. E' ancor più grave che si chieda il silenzio perché i grandi della Terra si riuniscono in tutta la loro potenza, mentre i “piccoli” della Terra soffrono nel silenzio generale. Quando un governo violenta la Costituzione chiedere il silenzio è contribuire a mortificare la Carta Costituzionale, mentre bisognerebbe difendere i principi fondanti di ogni civiltà: la solidarietà, l'uguaglianza, la fratellanza, le libertà. Ma, amici di “Facebook”, a chi detiene il potere, ai ricchi della Terra, quanto interessano veramente questi valori fondanti per i quali tanti nostri predecessori hanno dato la vita? Quello che interessa, evidentemente, è che non si disturbi il manovratore, che i summit si svolgano senza che il mondo sappia che in Italia stanno instaurando un regime senza l'olio di ricino (almeno per il momento). Ancor più grave è ascoltare - in modo da garantire la passerella sui luoghi di un immenso dolore che serve solo all'immagine opaca dell'utilizzatore finale - il capo della Protezione Civile che riferisce alla Nazione che lo sciame sismico di questi giorni è monitorato e che tutto è sotto controllo e che nulla accadrà che potrà mettere in pericolo l'incolumità dei potenti: peccato che lo stesso encomiabile zelo istituzionale non sia stato utilizzato quando vi è stato lo sciame sismico che ha preceduto il terremoto devastante che ha distrutto L'Aquila e parte della sua provincia. Ma, suvvia, sappiamo ormai che l'art. 3 della Costituzione non vale per tutti. E' bello, invece, sentire una parte del mondo cattolico (non la suprema gerarchia ovviamente) che invita al dissenso pacifico radicale nei confronti di una legge che criminalizza gli immigrati in violazione dei più elementari principi di convivenza civile, mentre, nello stesso tempo, c'è chi invita al silenzio, ad abbassare i toni: magari mentre abbassiamo il volume, avranno fatto scempio delle libertà, avranno anche realizzato compiutamente il regime. Quando si tace e soprattutto quando chi ha il dovere di non essere silente di fatto lo è, accade che chi si oppone alle ingiustizie rimane isolato e talvolta muore. Quando ci sono le ingiustizie non si tace, ma ci si ribella, in modo pacifico, ma in maniera decisa. Bisogna indignarsi e qualche volta anche gridare la rabbia del dolore, che ha radici nelle più profonde ingiustizie come mi insegna il mio amico Salvatore Borsellino. Quando la criminalità organizzata ormai è penetrata ai massimi livelli politico-istituzionali e nel circuito economico-finanziario del Paese tanto da condizionare il PIL, sarebbe auspicabile che chi ha incarichi istituzionali stia dalla parte di chi contrasta le mafie, stia in prima linea. Ma questo è utopistico allo stato, almeno con questi governanti, troppo spesso infatti non è così ed anzi le principali convergenze esterne provengono proprio da ambienti istituzionali.
Io non tacerò mai, sig. Presidente, di fronte alle ingiustizie, nemmeno se lo chiede la massima carica dello Stato. Sono stato eletto per dar voce a chi ha sete di giustizia, non per tenere nascoste le verità sgradite al potere, non mi piace chi contribuisce a narcotizzare le coscienze. La Costituzione va difesa ed applicata da tutti e sempre (non a giorni alterni): a cominciare dal Presidente della Repubblica per finire all'ultimo immigrato sbarcato a Lampedusa per sfuggire alla sete ed alla fame.

Tratto da Antimafia duemila

 
 
 

sembra elementare...

Post n°211 pubblicato il 02 Luglio 2009 da Ganim

l'equivalenza mancata condanna = innocenza... è spesso un equivoco utilizzato non solo nel periodo in cui queste parole furono pronunciate ma anche per molti illlustri uomini pubblici dei nostri giorni

 
 
 

Il Disegno di legge sulle intercettazioni - analisi del prof Abruzzo

Post n°210 pubblicato il 25 Giugno 2009 da Ganim

Tornano in auge le norme fasciste del 1930!
Cronaca giudiziaria imbrigliata. Niente carcere per i giornalisti, ma sospensione cautelare dalla professione fino a tre mesi.
Gli editori, che rischiano sanzioni da 25mila euro a232mila euro, potrebbero decidere di intervenire (con la scusa delle sanzioni) nella fattura dei giornali, minando così l’autonomia dei giornalisti.

Analisi del disegno di legge all’esame del Senato.

L’applicazione del dlgs 231/2001 alle imprese multimediali in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) potrebbe determinare una ingerenza (giustificata dai rischi delle sanzioni pecuniarie) degli editori nella vita e nella fattura dei giornali con conseguente compromissione dell’autonomia della professione di giornalista. Probabilmente questo è il vero obiettivo (per ora  “incartato”) del disegno di legge del Governo Berlusconi. Le imprese multimediali italiane, così,  diventerebbero simili a quelle americane, inglesi, tedesche e francesi nelle quali l’editore gioca un ruolo determinante nelle scelte quotidiane delle notizie da pubblicare. La nuova normativa è soltanto apparentemente contro gli editori, ma in realtà mira a dare agli stessi il “potere” di fare i giornali, riducendo il ruolo dei direttori e dei redattori a quello di impiegati di redazione. I giornalisti devono difendere con  determinazione la legge 69/1963, che, forte della deontologia elevata a norma, delinea, con l’aiuto dell’articolo 21 (II comma) della  Costituzione, una professione indipendente, libera da  “censure” e da  “autorizzazioni”.

1. Premessa. Si torna alla legislazione del 1930. Aziende multimediali sotto tiro, ma, con l’alibi delle sanzioni, in grado di “impossessarsi” delle scelte redazionali.  I 14 articoli del disegno di legge (varato dal Governo il 9 settembre 2005 ed all’esame del Senato)  sulle “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità negli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”, una volta diventati legge, decreteranno la fine della cronaca giudiziaria. Si torna alla legislazione del 1930: viene, infatti introdotto il divieto di pubblicazione “anche parziale o per riassunto o nel contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare….. E' in ogni caso vietata la pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione". Con queste clausole in  vigore,  i quotidiani non avrebbero potuto pubblicare le conversazioni telefoniche (intercettate dalla polizia giudiziaria) tra il Governatore di  Bankitalia Fazio e il banchiere Fiorani.
 Sergio Beltrami, magistrato, ha scritto (D&G, n. 35 del 1° ottobre 2005): “Con l’estensione del divieto di pubblicazione degli atti, anche se non più coperti da segreto, al loro contenuto, ed anche solo per riassunto, a guisa di informazione, si ritornerebbe indietro di 75 anni, reimponendo inaccettabili bavagli alla stampa: non sarebbe, ad esempio, consentito dar notizia neanche di un arresto, ovvero della esecuzione di una ordinanza applicativa di una misura  coercitiva, atti non soggetti a segreto, e questo appare  francamente aberrante”.
 I cronisti e i direttori “riottosi e ribelli” rischiano la sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi, pubblicando “arbitrariamente atti di un procedimento penale” oppure non pubblicando le lettere di rettifica o di smentita dei cittadini/lettori. La norma, però, come vedremo, non è applicabile.
 Il disegno di legge introduce, nel  contesto del Dlgs n. 231/32001,  la responsabilità delle imprese editoriali “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”  (il reato è quello previsto dall’articolo 684 Cp,  che punisce “la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”). Gli editori  potranno arrivare a pagare  da 25.800 a 232.500 euro di sanzione pecuniaria, a seconda della tiratura e della diffusione della testata.
 L’applicazione del dlgs 231/2001 alle imprese multimediali in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) potrebbe determinare una ingerenza (giustificata dai rischi delle sanzioni pecuniarie) degli editori nella vita e nella fattura dei giornali con conseguente compromissione dell’autonomia della professione di  giornalista. Probabilmente questo è il vero obiettivo (per  ora “incartato” e sotto traccia) del disegno di legge del Governo Berlusconi. Le imprese multimediali italiane, così,  diventerebbero simili a quelle americane, inglesi, tedesche e francesi nelle quali l’editore gioca un ruolo determinante nelle scelte quotidiane delle notizie da pubblicare. La nuova normativa è soltanto apparentemente contro gli editori, ma in realtà mira a dare agli stessi il “potere” di fare i giornali, riducendo il ruolo dei direttori e dei redattori a quello di impiegati di redazione. I giornalisti devono difendere con  determinazione la legge 69/1963, che, forte della deontologia elevata a norma, delinea, con l’aiuto dell’articolo 21 (II comma) della  Costituzione, una professione indipendente, libera da “censure” e da “autorizzazioni”.
 Il disegno di legge (ddl)  interviene su numerosi articoli della legge n. 47/1948 sulla stampa, del Codice penale, del Codice di procedura penale. Ecco le principali novità  che riguardano la professione di giornalista:

1.1. Vietata la pubblicazione degli atti giudiziari (e delle intercettazioni) fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Il ddl modifica il comma 2 dell’articolo 114 del Cpp: "2. E' vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o nel contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare".
 L'articolo 114, comma 7, del  Cpp è sostituito dal seguente: "7. E' in ogni caso vietata la pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 268, 269, e 271".


1.2. Giornalisti a rischio di sospensione cautelare fino a tre mesi, ma la norma è inapplicabile. Il ddl apporta sostanziali modifiche al comma 2 dell’articolo 115 del Cpp:  "2. Di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone indicate al comma 1, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l'organo titolare del potere disciplinare (il Consiglio territoriale dell’Ordine dei Giornalisti, ndr), che, nei successivi trenta giorni, ove sia stata verificata la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità e sentito il presunto autore del fatto, può disporre la sospensione cautelare dal servizio o dall'esercizio della professione fino a tre mesi". Il comma 1 dell’articolo 115 Cpp specifica che “salve le sanzioni previste dalla legge penale [684 Cp], la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli articoli 114 e 329 (comma 3 lettera b) del Cpp costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”. I giornalisti professionisti sono tali, infatti, in quanto hanno superato l’esame di Stato previsto dall’articolo 33 (V comma) della Costituzione e dall’articolo 32 della legge n. 69/1963. Conseguentemente la norma esclude sanzioni disciplinari per i pubblicisti (coloro che, accanto a professioni diverse o ad altri impieghi, svolgono attività giornalistica “non occasionale”) e per i praticanti giornalisti.
 La natura della sospensione è cautelare: cautelare significa che dovrebbe essere adottata mentre il procedimento penale è in atto. L’articolo 58 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista impedisce al Consiglio dell’Ordine l’adozione di qualsiasi provvedimento prima della conclusione del processo. La norma, pertanto, è inapplicabile, perché non è coordinata con l’articolo 58 citato. Il direttore dell’Ufficio VII del Ministero della Giustizia ha scritto (Prot n. 7/52/5140 del 3 novembre 1993) sul tema, rispondendo a un quesito posto dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia in merito all’interpretazione dell’articolo 58: “Con riguardo poi alla previsione contenuta nel II comma dell’articolo 58 l. 69/63 ("Nel caso che per  il  fatto  sia stato promosso procedimento penale, il termine suddetto decorre dal giorno in cui è divenuta irrevocabile  la  sentenza  di  condanna e di proscioglimento"), si osserva che in base alle sostanziali modifiche intervenute nel campo processuale e alla distinzione introdotta nell'ambito del  processo  penale  tra   la  fase  procedimentale  di  natura investigativa e la fase processuale di natura giurisdizionale, il termine procedimento penale deve intendersi quale processo penale.  Con  la  conseguenza  che  solo  qualora  le  attività investigative  del  Pubblico  Ministero  siano  sfociate  in  una richiesta di rinvio a giudizio, il termine di prescrizione di cui all'art.  58 è sospeso sino alla definizione del giudizio penale,  stante  l’opportunità  di  subordinare  in  tal  caso l’esercizio  dell'azione  disciplinare  all'accertamento  della esistenza dei fatti  compiuti in sede penale”.
 Il Consiglio dell’Ordine non  ha gli strumenti (polizia giudiziaria a disposizione)  per “verificare la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità”: dovrebbe compiere un atto di fede, accettando supinamente la versione fornita dall’Ufficio del Pm. Chi fornirà la prova che quanto pubblicato è nel fascicolo processuale se la prova è secretata? Come si concilia l’accusa al giornalista con il “dovere” che grava sul giornalista stesso di pubblicate i fatti raccontati secondo i principi deontologici del rispetto della dignità della persona e del rispetto della verità sostanziale dei fatti medesimi?

1.3. Profonde modifiche all’articolo 8 (rettifica) della legge n. 47/1948 sulla stampa. La mancata pubblicazione della rettifica, può determinare la sospensione dalla professione  (fino a 3 mesi) del direttore responsabile della pubblicazione.
 L’articolo 8 del ddl  modifica il seconda comma dell’articolo 8 della legge 47/1948, imponendo la pubblicazione della rettifica "senza commento". Le altre novità:
 a) "Per le trasmissioni radiofoniche o televisive, le dichiarazioni o le rettifiche sono effettuate ai sensi dell'articolo 32 del decreto legislativo 31 luglio 2005 n. 177 (il testo è pubblicato in coda, ndr). Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono";
 b) "Per la stampa non periodica, l'autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all'articolo 57 bis (direttori responsabili, ndr) del Codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a propria cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto di rilievo penale. La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata entro sette giorni dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l'ha determinata";
 c) "Della stessa procedura (stabilita per la rettifica nei punti precedenti, ndr) può avvalersi l'autore dell'offesa, qualora il direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva o delle trasmissioni informatiche o telematiche non pubblichino la smentita o la rettifica richiesta. Dell'avvenuta violazione dell'obbligo di pubblicazione l'offeso dà notizia al titolare del potere disciplinare (Consigli territoriali dell’Ordine dei Giornalisti, ndr) che, verificata la violazione e sentito il responsabile, ne ordina la sospensione dall'attività fino a tre mesi".


2. Niente carcere per giornalisti ma un’ammenda fino a 750 euro di sanzione con la coda della sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi (ma fortunatamente, come riferito, la norma è inapplicabile). I giornalisti, - dice il terzo comma dell’articolo 12 del ddl -, che pubblicano “in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d'informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione  sono puniti con l'ammenda da euro 250,00 a euro 750,00”. I giornalisti  non  rischiano il carcere come previsto in una prima bozza, ma solo ammende più salate (il testo in vigore dell’articolo 684 Cp prevede l’arresto fino a 30 giorni come misura alternativa all’ammenda dai 51 ai 258 euro). Di ogni violazione, però, la Procura informa il Consiglio dell'Ordine dei giornalisti che nei successivi 30 giorni "può disporre la sospensione cautelare dal servizio o dall'esercizio della professione fino a tre mesi". La norma, come già riferito, è fortunatamente non applicabile.

3. Pene più severe per i pubblici ufficiali “gole profonde”. Il segreto professionale dei giornalisti tutelato soprattutto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dalle sentenze della Corte di Strasburgo. L’articolo 326 Cp non riguarda i giornalisti, ma soltanto i pubblici ufficiali (magistrati, cancellieri, ufficiali di pg).
 I pubblici ufficiali che rivelano il contenuto delle intercettazioni rischiano il carcere da 1 a 4 anni anziché da sei mesi a tre anni: questa la modifica apportata dal comma 1 dell’articolo 12 del ddl all’articolo 326 Cp.
 La  Convenzione  europea dei diritti dell’Uomo (recepita nella legge italiana 848/1955) e le sentenze Goodwin e Roemen di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. Le vicende Goodwin e Roemen sono episodi  che assumono valore strategico. Quelle sentenze possono essere “usate”, quando i  giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale,  invocando, con le norme nazionali (legge n. 69/1963 e dlgs n.  196/2003), la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nonché le sentenze Goodwin  e Roemen della Corte di Strasburgo. Questa linea è l’unica possibile anche per evitare, come scrive il Tribunale penale di Treviso, di finire sulla graticola dell’incriminazione per violazione del segreto d’ufficio in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, - magistrati, cancellieri  o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato” le notizie ai cronisti. In effetti l’eventuale responsabilità, collegata alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico ufficiale che diffonde la notizia coperta da vincoli di segretezza e non sul giornalista che la riceve e che, nell’ambito dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga.
 Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall’articolo 326 del Cp.  E’ palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L’articolo 326, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve l’informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo 326 del Cp evita l’incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale…..loquace) e le perquisizioni,  arma ormai spuntata dopo la sentenza “Roemen” della Corte di Strasburgo.
 Il Codice di procedura penale, in base alla relativa legge-delega, ”deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”.  Il Parlamento in sostanza deve calare nel Codice le sentenze Goodwin e Roemen nonché l’articolo 10 della Convenzione, abolendo il potere del Gip di interrogare il giornalista. Finirà la storia dei giornalisti arrestati e condannati perché difendono il segreto professionale anche  come cittadini  europei? L’articolo 200 del Cpp afferma il diritto del giornalista professionista al segreto sulle sue fonti fiduciarie, ma nel contempo autorizza il giudice a interrogarlo sulle sue fonti fiduciarie. Potere, questo,  che fa a pugni con la giurisprudenza   della Corte di Strasburgo. Il Parlamento deve sancire una volta per tutte la regola in base alla quale il giornalista ha diritto al segreto professionale come gli altri professionisti. Punto e basta. Non una parola in più. Strasburgo ha spiegato perché è necessaria ed urgente questa svolta. Il segreto professionale dei giornalisti difende il diritto dei cittadini a essere informati su quel che accade (anche nei  Palazzi del potere e nei Tribunali).


4.  Sanzioni amministrative (da 25mila a 232mila euro) anche per l’impresa multimediale. La salvezza (per le aziende) è la formazione continua dei giornalisti.  L’articolo 14 del ddl  introduce, nel contesto del Dlgs n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti (in questo caso “imprese multimediali”) in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale). Si applica all'ente la sanzione pecuniaria da cento a centocinquanta quote. L'importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila (258 €) ad un massimo di lire tre milioni (1.550 €).  Le aziende potrebbero essere costretto a versare da  un minimo di 25.800 euro fino a un massimo di  232.500 euro (460 milioni circa delle vecchie lire). L’entità della sanzione sarà collegata sicuramente ai dati della tiratura e della diffusione della testata. “Non è ammesso il pagamento in misura ridotta” ( articolo 10 del dlgs 231/2001)..
 Il  Dlgs 231/2001 “disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.
 Se il reato è stato commesso da persone che rivestono funzioni di  direzione dell'ente (come i direttori responsabili considerati dalla giurisprudenza dirigenti dell’azienda, ndr)  o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale (è il caso delle redazioni giornalistiche rispetto al resto dell’impresa multimediale), l'ente non risponde se prova che l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione devono rispondere alle seguenti esigenze:
 a) individuare le attività nel cui àmbito possono essere commessi reati;
 b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire.
 Bisogna sottolineare che il dlgs 231/2001 già si applica alle società (e, quindi, alle  aziende multimediali), ma per una serie di reati (soprattutto societari, abusi di mercato)  ben più pesanti di quello previsto e punito dall’articolo 684 del  Cp. L’estensione della punibilità all’articolo 684 obbligherà le imprese multimediali ad assumere giornalisti professionisti qualificati (che abbiano alle spalle percorsi universitari) e a curare la formazione  dei dipendenti giornalisti  anche attraverso la costituzione (ex art. 118 della legge 388/2000) del “Fondo nazionale paritetico interprofessionale per la Formazione continua dei giornalisti professionisti; dei giornalisti pubblicisti  contrattualizzati e dei praticanti giornalisti”. L'articolo 118 della legge 388/2000 oggi destina lo 0,30 della legge 21 dicembre 1978 n. 845 alla formazione e non più a incrementare l’aliquota sulla disoccupazione (che gli editori versano all’Inpgi). Quell’aliquota torna alla percentuale dell’1,31 (dall’1,61).  C'è stato un cambio di destinazione,  che è ineludibile. L'Inpgi (esposto anch’esso ai rischi della legge 231/2001) dal gennaio 2001 ha perso il diritto di utilizzare lo 0,30 (pari a circa 2,4  milioni di euro annui) per la disoccupazione, ma deve spenderlo per la formazione. I giornalisti  contrattualizzati e disoccupati hanno bisogno di formazione per stare sul mercato oppure per tornare nel circuito del lavoro dipendente. L’Inpgi soprattutto dal gennaio 2001 non ha più titolo giuridico che lo autorizzi a trattenere lo  0,30. 
 L’applicazione del dlgs 231/2001 alle imprese multimediali in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) potrebbe, però, determinare, come già osservato, una ingerenza (giustificata dai rischi delle sanzioni pecuniarie) degli editori nella vita e nella fattura dei giornali con conseguente compromissione dell’autonomia della professione di giornalista. Probabilmente questo è il vero obiettivo (per ora  “incartato”) del disegno di legge del Governo Berlusconi. Le imprese multimediali italiane, così,  diventerebbero simili a quelle americane, inglesi, tedesche e francesi nelle quali l’editore gioca un ruolo determinante nelle scelte quotidiane delle notizie da pubblicare. La nuova normativa è soltanto apparentemente contro gli editori, ma in realtà mira a dare agli stessi il “potere” di fare i giornali, riducendo il ruolo dei direttori e dei redattori a quello di impiegati di redazione. I giornalisti devono difendere con  determinazione la legge 69/1963, che, forte della deontologia elevata a norma, delinea, con l’aiuto dell’articolo 21 (II comma) della  Costituzione, una professione indipendente, libera da  “censure” e da  “autorizzazioni”.

 
 
 

Nel Dna civile di noi italiani è iscritta la Signoria...

Post n°209 pubblicato il 30 Aprile 2009 da Ganim

di Beppe Severgnini

Torno dagli Stati Uniti e volevo raccontarvi di case invendute sotto il sole d'aprile, della crisi dell'auto, degli amici americani che hanno smesso di fare gli spiritosi quando parlano della nostra Fiat. Descrivere la Forgotten Coast, la "costa dimenticata" a nord-ovest della Florida, dove i rednecks della Georgia e dell'Alabama scendono al mare. Parli di "influenza suina" e ti guardano storto: hot dogs con la febbre?

Volevo raccontarvi di queste cose, ma lo farò la prossima volta. Mi sembra, rientrando in Italia, che le urgenze siano altre. Ad esempio: perché quella signorina lo chiama "papi"?

Siamo ormai un Paese psichedelico, guidato da un leader escatologico, con tratti bulimici. I fini ultimo del nostro primo ministro sono misteriosi, ma le sue trovate sono tali e tante da sconfiggere la presunta perfidia dalla stampa estera. "Divertimento dell'imperatore"? Signora Veronica, questa è pop art! Se un corrispondente straniero scrivesse che l'organizzatore del G8 cambia l'agenda per volare a Napoli e partecipare alla festa di una diciottenne in discoteca, in redazione non gli crederebbero.

Neanch'io volevo crederci, mentre scendevo sopra il Piemonte allagato, arrivando dalla notte atlantica. Confesso che non potevo immaginare la nomina di Mara Carfagna, ma poi è successo. Ero incredulo alla notizia che le gemelle De Vivo, fugaci apparizioni all'Isola dei Famosi, fossero ricevute per un'ora a Palazzo Grazioli (prima di un ricevimento a Villa Taverna dall'ambasciatore americano): ma è accaduto. Fatico ad ammettere che letteronze e troniste vengano candidate al Parlamento europeo: ma avverrà (e io non voto).

"Ciarpame senza pudore"? E perché, signora Veronica? Suo marito è l'autobiografia onirica della nazione: fa le cose che tanti sognano. Le proteste a sinistra sono sospette perché preconcette: da quelle parti contestano Berlusconi anche se si gratta il naso. Altre reazioni non ci sono. Nel Dna civile di noi italiani è iscritta la Signoria, come in quello dei russi c'è lo zar: il capo non si critica, al massimo s'invidia. "Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie": la psicologia del potere non è cambiata dai tempi dell'Ariosto. In poche ore si passa dal ricevimento per Lukashenko, l'ultimo dittatore d'Europa, al ciondolo d'oro con diamanti per la ragazzina partenopea. Indignarsi? Sentimento antico, stancante e velleitario. Vediamo di suggerire, invece, qualcosa capace di stupire ancora.

Che so, un Consiglio dei Ministri organizzato come il Grande Fratello, con tanto di televoto: sarà il pubblico a decidere quale ministro dovrà uscire dalla casa. Oppure un altro trasferimento del G8. Non a Roma, non in Sardegna, non in Abruzzo. In discoteca! I colloqui tra i leader avverranno sulla pista da ballo, mentre ministri e diplomatici si divincolano sui cubi, battendo le mani ("Rock the World, Baby!").

Sì, questa è una buona idea. Il mondo, visto quello che sta passando, ha bisogno d'allegria. Di questa materia prima, siamo i più grandi produttori mondiali. Vendiamola cara, al prezzo del petrolio.

(Dal Corriere della Sera, 30 aprile 2009)

 
 
 

JOVANOTTI "A TE"

 

LE NUVOLE...


difficile capire perchè mi piace tanto questa poesia...

 

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