Catcher in the rye
Short stories for waiting rooms - Racconti brevi per sale d'attesaTHE BLACK VEIL
Il corpo di Lou Gonda fu ritrovato tre giorni dopo la sua scomparsa nei pressi del fiume Potomac.
Il Reverendo Hooper fu uno dei primi ad arrivare insieme alla madre di Lou, Wanda e fu proprio lui ad identificare il cadavere ed a impedire a Wanda di vedere il bambino sino a quando il corpo non fu ricomposto nella camera mortuaria. Lou, l’unico figlio di Wanda, aveva il cranio fracassato e sulle cause della sua morte la polizia brancolo’ sempre nel buio più completo, non riuscendo a trovare una sola traccia nè a costruire una pista credibile.
Quando il Reverendo Hooper venne a casa mia per annunciare a me ad a mia madre la morte di Lou, io stavo giusto pensando dove potesse essere andato per tre giorni e perchè si fosse nascosto per bene cosi’ a lungo e l’unica cosa che mi venne in mente fu che ne doveva aver combinata una grossa ed aveva paura di tornare a casa.
La notizia della morte di Lou non mi colpi’ subito a dire il vero; come succede per ogni bambino di nove anni, dovette passare del tempo prima che io riuscissi a realizzare esattamente che non sarebbe più tornato indietro e spesso anzi pensavo fosse tutta una macchinazione dei grandi solo per tenerci un po’ separati.
Lou ed io eravamo amici inseparabili sapete, quelle amicizie da bambini tipo fratelli di sangue e cose del genere e gran parte del nostro tempo libero lo passavamo in casa del Reverendo Hooper, lui ci leggeva la Bibbia, ci insegnava a disegnare, ci aiutava per i compiti ed in pratica ci teneva lontani dalla strada.
La mia frequentazione con il Reverendo Hooper non fu più cosi’assidua poi, certo continuavo ad andare a trovarlo, ma mia madre non voleva che andassi da lui tutti i giorni, come ero solito fare con Lou, soprattutto dopo che il Reverendo inizio’ a portare un velo nero di crespo che gli copriva il volto.
Dovete immaginare lo stupore che provoco’quel gesto del Reverendo, la Chiesa stessa mando’ qualcuno per cercare di dissuaderlo ma non ci fu nulla da fare. Nessuno mai oso’ chiedergli perchè lo avesse fatto ma le voci che circolavano tra la gente erano diverse: c’è chi diceva che stava andando fuori di testa, chi dava una ragione più escatologica e pensava che il suo era un desiderio di espiazione delle colpe degli altri e chi infine sosteneva che lo facesse perchè si sentiva in qualche modo responsabile della scomparsa di Lou, dato che le ultime persone ad averlo visto vivo eravamo proprio io e lui.
A me quel velo nero di crespo piaceva, lo trovavo affascinante e allo stesso tempo inquietante ed avevo chiesto se potevo portarlo pure io, ma lo sguardo fulminante di mia madre mi indusse ad abbandonare l’idea seduta stante.
Nonostante le sue stranezze il Reverendo Hooper rimase a capo della nostra congregazione per molti anni e anche se i nostri contatti con l’andare del tempo si diradarono, ogni volta che tornavo in città ho sempre trovato il modo di fargli visita.
Sempre sino al marzo di due anni fa. Mi trovavo dalle sue parti e decisi di vedere se era in casa; come al solito ad aprire la porta fu Nancy la sorella del Reverendo, colei che si prendeva cura di lui.
Il Reverendo Hooper mi ricevette nel suo studio con il suo velo nero di crespo calato a ricoprirgli il volto e mi accolse recitando un verso del Deuteronomio “poichè in quel giorno nascondero’ doppiamente il mio volto”, non capii subito cosa volesse intendere.
Poi vidi il bianco dei suoi denti, mi stava sorridendo e quel candore stridente mi lascio’ esterrefatto. Mi porto’ a vedere la sua biblioteca, era un fine conoscitore e studioso della Bibbia ed aveva libri antichi che mi commento’ con dovizia di particolari. Mi parlo’ della sua malattia e di come fosse debilitante e frustrante dovere vivere in quel modo, quindi Nancy ci servi’ un tè e seduti sulle sue poltrone di pelle rossa mi disse: Mark sento che il mio tempo terreno stà volgendo al termine e che l’Onnipotente mi chiamerà presto a sè. Al mio tentativo imbarazzato di replicare qualcosa il Reverendo alzo’ la mano destra come per interrompermi e richiamare la mia attenzione, Mark, disse, te lo ricordi Lou, Lou Gonda ?
Certo, dissi io, come potrei averlo dimenticato.
Mark, tu sei sempre venuto da me a confessarti tutti questi anni ma ora sono io che ti devo confessare qualcosa. Quel pomeriggio sono stato io a togliere la vita a Lou.
Detto cio’ alzo’ quel velo nero di crespo dal volto come per guardarmi meglio o forse per farsi guardare negli occhi. Ero sconvolto, doppiamente. Mark, disse ancora, non posso aggiungere nient’altro, cercare di spiegare perchè lo feci. L’unica cosa di cui sentivo il bisogno era di confessare a qualcuno in terra perchè so che in Cielo saro’ giudicato e come ti ho detto prima quel giorno nascondero’ doppiamente il mio volto. Ho pensato che tu eri stato mandato dall’Onnipotente oggi qui a casa mia per una ragione sola, questa.
Dopo di che si alzo’ e mi benedisse come faceva sempre, segnandomi la fronte con il segno della Croce e si allontano’ verso la sua stanza senza più voltarsi indietro. Mi lascio’ solo nel suo studio insieme ai ricordi di Lou che iniziarono a sgorgare a fiotti dal mio cervello. Presi la mia giacca appoggiata alla scrivania del Reverendo e mi avviai verso l’uscita quasi di corsa, l’aria fresca della sera mi schiaffeggio’ facendomi barcollare.
Il Reverendo Hooper mori’ una settimana dopo portando con sè il suo velo nero di crespo.
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ANTHEM FOR LOST SOULS
Notte. Le dita dei piedi intirizzite. Piovono rane proprio come in quel film di Anderson, non ho poi capito che fine abbia fatto.
Il cellulare squilla da ore ma non ho nessuna intenzione di rispondere, la gente mi guarda e fa il gesto del telefono con la mano, io tiro avanti.
Sono stato allo Sweetie-O tutto il tempo a bere Singapore Sling mentre un tenente della Marina mi parlava della sua Corvette rossa e quelle filippine sul palco cercavano un marito, preferibilmente bianco.
Una donna in tacchi e spacco guarda e sorride, mi avvicino e le dico che vengo dall’Illinois, mi credeva italiano. Inizio a parlare di baseball sino a sfinirla. Mi chiede se voglio andare in camera sua, le dico che l’indomani mattina devo andare al funerale di un mio caro amico, si alza e punta un altro.
Vado a ballare, siamo stretti nella pista, una cinese alta cinque piedi mi sussurra qualcosa, io annuisco e le pago da bere. Dice di essere stata a Parigi, le bollicine dello champagne fanno flop flop, mi abbraccia e ride fino a quando le dico che ho lo scorbuto allora mi manda a quel paese.
Rimango solo, Joe Romano al bar litiga con uno, sostiene che gli abbia toccato il culo.Ci vorrebbe qualcuno che componesse un inno per queste anime perse.
Esco fuori, continua a piovere a più non posso, dalla una pensilina di fronte una ragazza mi fa l’occhiolino e vuole sapere se ho compagnia per la notte.
Si’, le rispondo, la tua. Mi segue buona buona fino al parcheggio, la faccio salire in macchina.
I tergicristallo non funzionano, domani devo ricordarmi di ripararli.
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IL MAESTRO HORISHO
Qui ad Osaka dicono che il Maestro Horisho abbia tatuato più di cinquemila persone e lo abbia fatto senza preoccuparsi del motivo per cui lo facevano e senza chiedere loro chi fossero. Si dice anche che molti yakuza siano venuti da lui, ma questo è il suo lavoro.
Io ho deciso di farmi tatuare per vedere se riuscivo a tollerare lo sguardo degli altri una volta tatuato. È stata una sfida, più che altro con me stesso.
Il Maestro Horisho la prima volta che mi ha visto, mi ha detto che non tutti quelli che sono andati da lui erano pronti a farsi tatuare e ne ha dovuto mandare via parecchi, ma io non sono stato tra questi.
Ogni seduta dal Maestro dura anche due ore ed è molto dolorosa, talvolta il dolore è cosi’ intenso che sembra di svenire. Il sangue rosso macchia i teli bianchi che il Maestro posa per terra nel piccolo laboratorio. Tutto intorno è silenzio. Ma una volta che resisti al dolore diventi più forte.
Ne ho incontrato uno di yakuza qualche tempo fa. Viene dal Maestro da quattro anni ormai e mi ha rivolto la parola solo per dirmi che quando ti tatui non senti più il bisogno di violenza fine a sè stessa e che la gente ama la violenza ma non ha idea di cosa sia.
Un’altra persona che vedo è Makito, lui era funzionario in una grande azienda ma un giorno ha deciso di mollare tutto e di impiegare gran parte dei suoi risparmi per farsi tatuare e ora si sente libero, un uomo libero.
La moglie del Maestro è tatuata. Il Maestro ha impiegato dieci anni per finire il tatuaggio a sua moglie. La moglie del Maestro mi ha detto che il suo primo matrimonio era naufragato miseramente ma che quando ha incontrato il Maestro e poi lo ha sposato ha sentito che sarebbe stato per sempre e che doveva fare qualcosa di definitivo, un’estrema prova d’amore, per sancirlo. Fu cosi’ che decise di farsi tatuare.
Una volta me lo ha fatto vedere il suo tatuaggio, tutto il corpo ne è ricoperto, dalle spalle ai talloni. È talmente bello che toglie il respiro. Dovreste vederlo tutti quel tatuaggio e poi capireste.
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ARTERMATH
Sono le piccole cose, dicevi tu, che fanno la differenza. Quei piccoli dettagli che, magari, nessuno considera ma che alla lunga lasciano degli strascichi, hanno delle conseguenze, e dicendo questo sottointendevi negative, naturalmente.
Fatto stà che alla fine te ne sei andata pensando di trovarti in pace con te stessa, di avere un tuo modo di vivere che non avrebbe accettato compromessi, mai. Sei sempre stata rigorosa, questo te lo devo. Ricordo i pomeriggi che sforavano nella sera passati a parlare, io che vedevo le cose sempre in modo diverso, tu che volevi un uomo diverso, io che dopo un po’ mi stancavo di arrovellarmi, tu che invece continuavi imperterrita e alla fine parlavi senza che io dicessi più una sola parola e poi ci lasciavamo cosi’, un bacio sulla bocca e di corsa alla metropolitana.
Ancora sulle piccole cose: non sopportavi quelle che tu chiamavi “le manifestazioni d’affetto in pubblico”, non ne ho mai compreso il motivo ma ti dava fastidio quando ti abbracciavo o ti baciavo davanti ad altre persone, chiunque esse fossero amici o semplici sconosciuti per strada.
E poi quella telefonata. Mi hai detto “se hai bisogno, chiama” , si’ proprio cosi’, se hai bisogno, chiama, come quel racconto di Carver, strana coincidenza vero ? Io al momento l’unica cosa che feci fu di interrompere la comunicazione, un click ed un tuuuuut seguirono in rapida successione, sono rimasto attaccato alla cornetta per due o tre minuti.
Strano come il tempo porti a galla cose che sembravano sepolte per sempre nelle pieghe della memoria, strano che ora anche io pensi che le piccole cose contano, dopo tutto.
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NOODLES
Io i vecchi proprio non li capisco. Prendete Noodles per esempio, a quasi ottant’anni si ostina a vivere da solo e lontano dai suoi figli.
Il vero nome di Noodles non lo sa nessuno con certezza qui nel palazzo, sappiamo solo che è originario della Malesia, che è un cinese-malese, lui ci tiene sempre a sottolinearlo, e che con la sua famiglia si sono trasferiti negli States più di quaranta anni fa’. La moglie di Noodles è morta da diverso tempo ed i suoi tre figli maschi invece abitano nello stato di Washington dove hanno aperto un paio di ristoranti “Malay Satay Hut” uno a Seattle e l’altro a Redmond.
Dovete sapere che l’attività preferita da Noodles, come del resto per la maggior parte degli orientali e dei malesi in particolare, è mangiare ovvero “makan” come si dice nella loro lingua. La prima cosa che ti chiede Noodles quando lo incontri in ascensore o lo vai a trovare a casa sua è “Dah makan ?” cioè “già mangiato ?” e questo a qualunque ora della giornata, dall’alba a notte fonda e se per caso ti dimentichi di chi hai di fronte e gli rispondi no, beh allora te la sei proprio cercata e di sicuro non te la dimenticherai mai più. Noodles ha sempre pronto cibo a volontà che ti farà mangiare con gli immancabili chopsticks (mi ha obbligato ad imparare ed ora me la cavo anche abbastanza bene), senza sentire ragione alcuna, riempiendoti piatti e scodelle ed esortandoti quando ti vede un attimo in affanno con il suo “makan lah” “mangia dai”. La cucina della Malesia è ricca, ha grandi tradizioni alle spalle ed in sostanza è un misto tra le radici malesi, cinesi ed indiane che sono le etnie che compongono la sua popolazione, è per questo che la varietà è uno dei suoi punti forti.
Tutto questo me l’ha detto e ripetuto non so più quante volte Noodles che a sua volta ha lavorato in un ristorante prima di aprirne uno suo nel ’70, “Kampong Malay Satay” dove con satay si intende una sorta di spiedino fatto con carne di pollo o manzo marinata oppure anche pesce arricchito da intingoli e salse varie tra le quali spicca la mia favorita una peanuts sauce che è la fine del mondo. Il ristorante è andato bene per molto tempo, tutta la famiglia ovviamente era coinvolta e vi lavorava a tempo pieno, ma con la fine degli anni ’80 i figli di Noodles decisero di volere affrontare una nuova avventura per cui lasciarono il ristorante paterno ed andarono a cercare fortuna nel West. Noodles ancora oggi non si da’ pace per la scelta dei figli, il legame familiare è molto forte nella cultura asiatica ed essere stato abbandonato cosi’ deve essergli sembrato un affronto insopportabile visto che a fatica vuole parlarne. E che dire dei suoi attuali rapporti con i figli, li sentirà si e no un paio di volte al mese per telefono, urlando nella cornetta in quella loro lingua, telefonate sempre piuttosto brevi, spesso burrascose almeno a giudicare dal tono della voce, ma alla fine se gli si chiede come è andata e come stanno figli, nuore e nipoti lui risponde “tutto bene, si’ si’, tutto bene”.
Mi ricordo solo di una volta quando tutti i figli con relative famiglie sono ritornati a New York a trovare il padre. Sarà successo quattro o cinque anni fa, erano andati tutti in albergo Downtown ed avevano preso una camera anche per Noodles, il quale pero’ si era fermamente rifiutato di muoversi da casa. Una sera erano venuti tutti a mangiare a casa sua, beh giusto per farvi capire i vicini ancora ne parlano, penso che nella storia del palazzo mai, e dico mai, si fosse assistito a tanto baccano, voci, pianti isterici di ragazzini, e poi odori di cibo e fumi vari che invadevano le scale, ma nessuno ebbe il coraggio di lamentarsi; in fondo eravamo tutti contenti per il vecchio Noodles. So che i figli hanno più volte chiesto al padre di andare a trovarli a Seattle ma lui è sempre stato irremovibile, testardo come un mulo, attaccato alla sua casa ed ai suoi fornelli, come se muoversi di li’ significasse strapparlo per sempre dalle sue radici.
L’altra grande passione di Noodles è la tv, sempre accesa a volume esagerato (non ci sente poi tanto bene); chiedete qualsiasi cosa a Noodles relativa alle ultime notizie e lui ve la dirà, infarcendola di particolari e di spiegazioni minuziose. Seduto sulla sua poltrona in teak e pelle nera o all’opera nel cuore pulsante della casa, la cucina, Noodles è sempre davanti alla tv che vive e splende incontrastata, unica sua vera compagna ormai. Anche quando lo vado a trovare nemmeno per un secondo si sognerebbe di spegnerla ed anzi capita che venga brutalmente zittito quando in tv appare un qualcosa che cattura l’attenzione di Noodles più della mia presenza. Anche di notte, si’ anche di notte, la tv sbraita. I primi tempi in cui abitavo li’, proprio sotto il suo appartamento, non riuscivo a dormire e quindi andavo a suonargli alla porta per fargli abbassare il volume ed è cosi’ che siamo diventati amici, lui mi faceva entrare, mi parlava della sua vita, mi faceva assaggiare i suoi piatti e poi io tornavo nel mio appartamento e la tv cinque minuti dopo era sempre allo stesso volume insopportabile. È da allora che uso i tappi per dormire, come si dice, a mali estremi, estremi rimedi, no ?
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REGGIE
Dicono che al giorno d’oggi la buona creanza sia sparita e che non esiste più quel senso di appartenenza, quel senso di comunità che ti faceva scambiare quattro chiacchere in metropolitana con il tuo vicino quando il tragitto da coprire era abbastanza lungo da permettertelo.
Beh a me è successo proprio il contrario giusto l’altro giorno, mentre stavo andando da una parte di Brooklin all’altra, con una piccola deviazione a Manhattan. Ero seduto al mio posto in metropolitana quando ho iniziato a parlare del più e del meno con questo tizio di nome Reggie. Abbiamo cominciato a conversare di treni ed orari, per poi andare più sul personale, ovvero da dove veniamo, e lui era molto sorpreso del fatto che conoscessi la sua citta’ giù in North Carolina, dove avevo peraltro vissuto per qualche tempo e a dimostrazione del fatto che lui fosse di quelle parti mi ha pure fatto vedere la sua patente di guida. A mia volta invece sono rimasto stupito che conoscesse cosi’ bene Raleigh dove sono nato. E insomma quando abbiamo appurato che, in fondo, c’era un qualcosa in comune, se cosi’ vogliamo dire e che le nostre strade si erano in un certo qual modo intrecciate, la conversazione si è fatta più interessante.
Reggie era piccolo di statura e di corporatura esile, con una faccia ossuta e spigolosa, potevo vedergli la forma del cranio sotto la sua pelle bianca e gli occhi erano grandi, scuri, vividi e gentili. Nel bel mezzo del frastuono del treno che sferragliava tra una stazione e l’altra, Reggie mi ha raccontato di questo terribile incidente d’auto che aveva avuto nel ’95.
A seguito dell’incidente perse la memoria per otto mesi. Ancora si ricordava di come in ospedale ogni mattina gli chiedevano “Come ti chiami ? Che giorno è oggi ? Come si chiama il Presidente ?” e che lui rispondeva “Voi tutti lo sapete, io non lo so, non mi ricordo”. In quel periodo all’ospedale aveva perso anche la memoria di breve termine, tanto è vero che non riusciva nemmero a ricordare quanto gli fosse successo il giorno prima o addirittura cosa aveva mangiato a colazione la mattina. Gli chiesi se perdere la memoria fosse stata una esperienza triste o spaventosa ma Reggie mi rispose di no, anche se i suoi amici e soprattutto la sua famiglia ne erano stati profondamente turbati. Sua madre tento’ per un po’ di fargli ritornare la memoria mostrandogli album su album fotografici della famiglia e anche portandolo nei posti dove era cresciuto ma per lui era tutto, come dire, non familiare e nessun ricordo sembrava affiorare. Alla fine visto che i membri della sua famiglia erano come perfetti sconosciuti per lui e che questo non lo faceva affatto sentire a suo agio, Reggie decise di tornare a New York a vivere nel suo appartamento, da solo.
La sua memoria alla fine torno’ una sera, mentre si stava preparando la cena e torno’ tutta in una volta sola, fu come se un masso di seicento libbre lo avesse colpito lasciandolo a terra con la testa che scoppiava. Per due giorni rimase chiuso in casa con una emicrania lancinante e con una serie di ”nuovi” ricordi a cui doversi abituare.
I dettagli dell’incidente invece riaffiorarono in maniera differente, poco alla volta, in sogno. Era sulla New Jersey Turnpike quando un’auto lo urto’ facendolo a sua volta andare a sbattere contro una terza macchina.
Quando la mia fermata stava per arrivare, per un istante ho considerato l’ipotesi di rimanere sul treno per sentire finire il suo racconto ma invece iniziai a fare dei cenni a Reggie che dovevo scendere alla fermata successiva senza interromperlo.
Abbiamo passato gli ultimi trenta secondi in formalità quali scambiarci i nomi, stringerci la mano e dirci qualcosa del tipo quanto sarebbe stato interessante incontrarci nuovamente.
Lo stavamo pensando sinceramente tutti e due, ma non succederà, di sicuro.Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso |
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POINT BLANK
Seduto sulla poltrona ormai deformata dagli anni fissava la luce al neon del soffitto emanare quel bagliore del tutto innaturale, bianco e tagliente come una lama. Ogni minima imperfezione, una ruga, una stempiatura era amplificata, ingigantita da quella luce sino ad avere effetti grotteschi oppure devastanti, da film dell’orrore: quante volte si era ritrovato a guardare Emily cambiare faccia a seconda del punto dove si trovava o quella voglia sul collo di Raymond passare dal rosso al viola in un solo secondo.
Il turno di notte era il suo preferito, in corsia non c’era poi così tanto da fare se non la solita routine e sull’ospedale calava una quiete che non aveva pari e lui vi si immergeva, in apnea, scivolava lento tra i corridoi vuoti senza fare rumore oppure rimaneva ore immobile, a respirare la vita.
Il ronzio dell’aria condizionata, uno zzZZ costante, gli teneva compagnia, davanti agli occhi aveva quel filmino girato con Sue il week end appena passato, loro due che facevano l’amore, il suo triste culo bianco che si muoveva avanti e indietro e Sue che ogni tanto sbirciava la videocamera digitale. Nessuna traccia di erotismo, di passione, solo qualche minuto di meccanico movimento, due corpi avvinghiati con in sottofondo i rumori domestici, la porta del vicino che sbatte, un televisore ad alto volume ed infine lui che viene con un piccolo gemito trattenuto. Il loro porno casalingo era rozzo e bestiale, lontano anni luce da quello che erano abituati a vedere, inquadrature patinate, zoomate sui particolari anatomici, corpi atletici.
Avrebbe dovuto provarci di nuovo ma non con Sue, lei non era adatta. Ancora si ricordava di quando era riuscito a rimediare quell’invito per andare ad un incontro di scambisti, c’era stato dietro tre mesi a quel tizio per farsi dare l’indirizzo e tutto quanto e poi, una volta arrivati, Sue era scappata via in lacrime mentre lui ce l’aveva già duro per quel poco che aveva visto.
Raggiunta la macchina Sue gli aveva fatto promettere che non sarebbero mai più andati in un posto del genere, lui le disse di sì tanto per tranquillizzarla, aveva gli occhi fuori dalle orbite e il trucco si era completamente sciolto sul suo viso, macchie nere e blu che si mescolavano con le sbavature porpora del rossetto come in un quadro di Pollock. Ritornati a casa Sue era andata subito a letto così lui andò a masturbarsi sotto la doccia pensando a quella mulatta che se ne stava nella penombra là dagli scambisti.
Entro breve Ed sarebbe tornato e dopo toccava a lui, una ronda per il reparto sperando che tutti quei vecchi dormissero sonni beati. Si alzò per andare a prendere un caffè, se ne versò una tazza intera, caffè nero come quella notte senza stelle, lo buttò giù bollente e senza zucchero, sentì lo stomaco bruciare e con una smorfia di dolore sferrò un pugno sul tavolo facendo saltare le tazze; arrivavano dei passi ritmati, buttò fuori la testa nel corridoio, era Ed.
“Tutto liscio, nella B13 ce n’è uno sveglio” fece Ed; la B13 era una della camere singole, sarebbe passato a controllare. Si incamminò lentamente, il sapore amaro ancora in bocca, nei bagni non c’era anima viva e dalle camerate gli unici suoni che provenivano erano respiri profondi e frusciare di lenzuola.
La B13 era proprio in fondo, poteva vedere la luce accesa, bussò due volte ed entrò, il vecchio si girò trasecolando, poi vide che era lui e gli offrì un sorriso, orribile, sdentato che non ricambiò. “Ciao carino” disse il vecchio, gli avevano detto che non aveva tutte le rotelle al posto giusto, “E’ tutto ok signore ? Vuole che le dia qualcosa per dormire?” gli chiese. “Cosa ne dici se ci divertiamo un po’ insieme eh ? Quanto vuoi per giocare con questo ?” il vecchio abbassò il lenzuolo, sotto era completamente nudo, il corpo molle e cadente e il pene moscio e avvizzito, quindi gli prese la mano cercando di avvicinarsela con quel sorriso ancora stampato in faccia. Lui diede un violento strattone che fece sbattere il vecchio contro la spalliera del letto. Il suo sorriso era sparito per far posto ad una espressione cattiva, dura che quella luce al neon rendeva una insopportabile miscela di odio e malvagità. Prima che potesse dire una sola parola lui prese il cuscino e lo premette con tutta la sua forza sulla faccia del vecchio il quale cercò di lottare per liberarsi, le gambe nude che si agitavano cercando di scalciarlo e le braccia di divincolarsi da quella stretta soffocante. La lotta del vecchio durò poco ma lui non mollò la presa se non dopo alcuni minuti, diede un ultimo colpo sul cuscino, come per assicurarsi che il vecchio fosse veramente soffocato, fu come un tonfo sordo, un rumore primordiale e primitivo che per un attimo lo riportò negli abissi del tempo, non aveva mai sentito nulla del genere prima, lo fece sentire invincibile, in grado di decidere di punto in bianco della vita e della morte.
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AMERICAN BEAUTY
“I had always heard that your entire life flashes before your eyes the second before you die. Only that one second, isn't a second at all, it seems to stretch out forever like an ocean of time. For me it was lying on my back at boy scout camp, watching falling stars. And the maple trees that line our street. Or my grandmother's hands, and how her skin seemed like paper. And the first time I saw my cousin Tony's brand new Firebird. And Janey. And my last thought was of Carolyn. I guess I could be pretty pissed off about what happened to me, but it's hard to be angry when there's so much beauty in the world. Sometimes, I feel like I'm seeing it all at once, and I can't take it. My heart swells up like a balloon that's about to burst. But then I remember to relax, and stop trying to hold onto it. And then, it flows through me like rain and I feel nothing but gratitude for every single moment of my stupid little life. You have no idea what I'm talking about, I'm sure. But don't worry. You will someday.”
(Lester Burnham, American Beauty.)
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BLACK LEMON
Memories are thin, watery and fragile, like gas rising off the pavement on the hottest days. But there are times I can see clearly.
Martin David e Vince camminavano in fila indiana, a passo svelto e senza dire una parola costeggiando i binari della ferrovia. Un passaggio obbligato per raggiungere il loro rifugio in mezzo ai boschi, quella capanna che si erano costruiti in una settimana di lavoro e dove passavano buona parte delle giornate estive. Un posto segreto, il Grande Segreto che conoscevano solo loro, dove nessuno avrebbe potuto trovarli e che avevano chiamato Black Lemon, di modo che potevano anche parlarne di fronte ad altra gente tanto chi li avrebbe capiti.
Il sole di luglio si faceva sentire e Vince il più piccolo dei tre, era al sesto anno della Lexington Middle School, iniziava a sbuffare ed ansimare, per fortuna erano arrivati a The Rock, lo spuntone di roccia che a loro serviva come segno per poter tagliare nel bosco.
Il bosco ombreggiato e ventilato diede un po’ di tregua ai ragazzi che poterono rallentare il passo; ancora una decina di minuti e sarebbero arrivati a Black Lemon.
Quel posto glielo aveva fatto scoprire Perry, loro zio, poco più di un anno prima: aveva organizzato un pic-nic e preannunciato che li avrebbe portati in un luogo magico, incantato ed in effetti così sembrava, pur non essendo lontano dalla civiltà era rimasto stranamente nascosto ed incontaminato.
Si ricordavano tutti e tre benissimo la meraviglia provata appena arrivati là, i giochi di ombre e luci creati dagli alberi ed il torrente che scorreva lento con le sue acque dorate.
Dissero a Perry che gli erano grati di aver voluto dividere con loro questa scoperta e fu allora, solo allora che lui fece la sua tremenda ed inaspettata rivelazione ai tre ragazzi: quel tumore che aveva nella testa che stava crescendo a ritmi vertiginosi ed aveva raggiunto quasi la dimensione di un limone, un limone nero disse. I tre cugini rimasero lì a guardarsi negli occhi senza sapere bene cosa dire, ancora troppo giovani per trovare parole di circostanza, mentre lo zio continuava a mangiare fried chicken e scherzare come se nulla fosse.
Perry morì quattro mesi dopo, in una notte di fine settembre, con il cielo che veniva squartato da lampi e saette maestose ed i tuoni erano così fragorosi da far tremare le mura delle case. Fu quella la prima notte insonne della loro vita. Al funerale in chiesa erano seduti sulla stessa panca, ammutoliti, senza più lacrime ed al cimitero, vedendo la bara che veniva calata nella fossa e poi pian piano ricoperta di terra, si resero conto che non lo avrebbero visto più per davvero. Black Lemon nacque in quel modo, in perenne memoria dello zio Perry strappato malvagiamente dalla terra all’età di vent’anni come un fiore appena sbocciato.
Ritrovare esattamente quel luogo non era stato difficile, Martin aveva una memoria ed un senso dell’orientamento fenomenale e aveva guidato i due cugini sino là in una domenica di aprile. Seduti in riva al torrente strinsero il patto di non parlare mai ed in nessun caso di Black Lemon con qualcun altro al di fuori di loro tre, altrimenti sarebbero stati gli altri due a decidere della sorte del traditore.
Finalmente arrivati Martin e David tirarono fuori le canne da pesca mentre Vince si tolse le scarpe ed iniziò a lamentarsi perché i piedi gli erano gonfiati e gli facevano male. I due più grandi erano già nel torrente a pescare quando Vince entrò con i piedi nell’acqua e si mise a piagnucolare perché era fredda, il tempo stava cambiando. “Vince sei peggio di una ragazzina” fece Martin, “Sì, una ra-gaz-zina una ra-gaz-zina” disse David cantilendando per prenderlo in giro. I due scoppiarono a ridere. “Non chiamatemi così, non vi permettete” Vince era già rosso in viso per la rabbia.
“Altrimenti che fai eh ? Che fai ?” disse David, “Altrimenti dico tutto” sbottò Vince.
Sul viso di Martin calò un’espressione serissima, “Tutto cosa” chiese, “ Tutto di Balck Lemon” urlò Vince, “Non lo faresti mai” Martin era in piedi proprio di fronte a Vince e lo sovrastava di una quindicina di centimetri . “E tu che ne sai che non l’ho mai fatto eh ?” c’era un tono di sfida nella voce di Vince; “Non lo faresti per non offendere la memoria dello zio Perry” mormorò Martin, “Lo zio Perry è morto, da quasi un anno ormai, morto e sepolto ok ?”
Martin, fuori di sé, l’aveva preso per il bavero della polo e lo stava strattonando mentre David guardava la scena paralizzato, “A chi l’hai detto eh ? A chi ?” “ A mia mamma e papà” fece Vince.
Il vento soffiava incessantemente, increspando le acque del torrente e le prime gocce di pioggia stavano cadendo da un cielo diventato pece. Martin prima lasciò andare Vince, il quale si accasciò piangendo su di una piccola roccia, poi gli sferrò un calcio sulla testa che lo fece sbattere violentemente sul masso. Il corpo di Vince era immobile riverso a pancia in sù e il suo sangue cominciava a sgorgare nel torrente, prontamente lavato dalla pioggia ormai battente. Martin si voltò e vide David tremare come una foglia, lo prese per mano ed insieme andarono a ripararsi sotto la capanna, già fradici. “Dirai che è scivolato da solo, è questo che dirai è vero ?”.
David, in preda ad una crisi di pianto, annuì senza nemmeno guardarlo negli occhi, aveva paura. “Adesso aspettiamo che smetta di piovere poi ce ne torniamo a casa” fece Martin.
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A MERRY FUCK YOU
“So you better watch out, you better not cry, you better not pout, I’m telling you why, Santa Claus is coming to town”
Slam. La porta d’ingresso del Rain sbattè violentemente alle sue spalle. Aveva bisogno di una boccata d’aria e di fare due passi dopo quell’immersione durata qualche ora tra alcool, fumi, musica a volume sconsiderato, parole urlate direttamente nei padiglioni auricolari.
Quella settimana a Las Vegas era stata devastante, tutte le sere a trovare qualcosa di nuovo per far divertire quei venditori affamati di culi e tette in viaggio premio per il raggiungimento del loro stramaledetto budget. E lui dietro ad organizzare, pagare, placare gli animi quando erano troppo agitati, fare brindisi augurali ed esaltare persone mediocri. Ma questa era la politica aziendale: avevi fatto un buon risultato, allora ti meritavi una settimana all inclusive, no matter what e Vegas era una delle mete più gettonate insieme alle Cayman.
I due energumeni della security che presiedevano all’entrata del locale lo stavano fissando, lui respiro’ a pieni polmoni l’aria pungente della notte e sorridendo di rimando inizio’ a camminare a passo lento, senza meta alcuna.
Il parcheggio del locale, che poi era quello del Palms Casino Resort, era enorme ma nonostante questo stracolmo di macchine, sembrava che quegli ultimi giorni prima di Natale tutti avessero deciso di spassarsela alla grande e a giudicare dalla gente là dentro il Drenched Thursday al Rain era uno spasso al 100%.
Si ritrovo’ a passeggiare ai margini del parcheggio quando un suono rauco catturo’ la sua attenzione, si giro’ e giusto tre o quattro macchine più in là vide questo ciccione vestito da Babbo Natale, barba finta e tutto quanto, con i pantaloni abbassati ed in ginocchio su di una stola di finta pellicia, una bionda in minigonna che gli stava facendo un pompino. Il ciccione stava mugolando “si baby, si baby”, aveva le mani sulla testa della ragazza e dimenava il suo enorme culone bianco, ad un certo punto si accorse di lui e guardandolo storto urlo’ “non hai niente di meglio da fare amico ?” al che lui alzo’ la mano in segno di scusa e si allontano’ velocemente mentre alle sue spalle sentiva l’uomo che diceva “dai piccola non fermarti”.
Era rimasto impietrito, nella sua vita aveva visto una o due cose, ma mai gli era capitato di assistere ad una scena del genere.
Rientro’ al Rain, di sicuro i suoi ragazzi lo stavano cercando, in fondo l’indomani sera sarebbero tornati tutti a casa e quella poteva essere l’ultima occasione per fare un po’ di baldoria insieme. Pero’ lui aveva voglia di starsene ancora un po’ da solo cosi’ passo’ dal bar dove si sedette su di uno sgabello ed ordino’ un whiskey. Se lo stava sorseggiando con calma quando vide il ciccione vestito da Babbo Natale che con una andatura caracollante si dirigeva proprio verso lo sgabello libero accanto al suo, lo riconobbe e lui gli fece un cenno con la testa che pero’ il ciccione non ricambio’.
Babbo Natale si sedette pesantemente, strabordando in maniera più che abbondante fuori dal piccolo sedile. Il barista gli si avvicino’ dicendo “Hey Frank che ti succede ? Ti vedo stanco stasera.”, “Donne” biascico’ in risposta Babbo Frank. “Bene dai, tra poco la tua stagione è finita Frank non ti lamentare” fece il barista ridendo a crepapelle per la sua battuta e poi gli chiese, “A che ora è il tuo spettacolo ?” mentre gli prerarava quello che sembrava essere un gin tonic, “ Tra cinque minuti e speriamo che la slitta funzioni stanotte altrimenti giuro che mollo li’ tutto e me ne vado” disse Frank mettendosi a posto la barba finta e il cappello. Quindi si giro’ leggermente per guardare verso il palco da dove una voce amplificata stava annunciando la prossima elezione di Miss Drenched Thursday. Una alla volta salirono sul palco una dozzina di ragazze ed ultima la bionda del parcheggio in un costume che lasciava poco all’immaginazione.
Frank ingurgito’ il suo drink e rivolto al barista fece “ ok è fatta, devo andare”, si lascio’ cadere dallo sgabello e si diresse verso una porta che dava dietro le quinte.
Sulle note di “Santa Claus is coming to town” una slitta a due posti guidata da Babbo Natale e trainata da alci a motore entro’ sul palco tra l’ilarità generale del pubblico. Le ragazze sul palco corsero incontro a Frank cercando di abbracciarlo e baciarlo, toccava a lui scegliere la Miss. Ci fu una breve sfilata, con la voce fuori scena che scandiva i nomi delle aspiranti Miss, poi Frank prese la corona posata sul sedile della slitta e nomino’ vincitrice la bionda del parcheggio, che inizio’ a saltellare di gioia e ando’ vicino a Babbo Natale che la incorono’ e la fece salire sulla slitta. Mentre il pubblico applaudiva ed urlava la slitta spari’ cosi’ come era apparsa, con loro due a bordo che salutavano nemmeno fossero il re e la regina e la musica inizio’ a martellare di nuovo.
Lui era sempre seduto sullo sgabello annichilito da quello spettacolo pietoso, pensando che anche a Vegas questo era troppo. Poco dopo Frank rientro’ dalla stessa porta dalla quale era uscito, incollato alla ragazza bionda, sbaciucchiandola.
Gli passarono accanto e Babbo Natale fece “ Hey Jen, te lo ricordi il nostro amico del parcheggio?” scoppiando a ridere fragorosamente. La ragazza distolse lo sguardo visibilmente imbarazzata. Da vicino era molto più giovane di quanto avesse creduto. Poi il ciccione facendogli l’occhiolino gli disse “ti sei divertito amico ?”. Lui scese dallo sgabello e con un filo di voce rispose “un allegro vaffanculo a te, Babbo Natale” gli volto’ le spalle e se ne ando’.
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OPEN ALL NIGHT
Scese in cantina dove teneva il fucile nascosto dentro ad un baule chiuso con due lucchetti; a Mary aveva detto che era tutta roba di quando era militare in Irak nel ’91 e non sapeva nemmeno dove fossero le chiavi e lei gli aveva risposto che andava bene cosi’, con Mary non c’era mai bisogno di dilungarsi in spiegazioni o parole inutili.
Apri’ il baule e lo tiro’ fuori, un fucile da caccia .410 a canne mozze, lo puli’ per bene e lo lucido’ come al solito. Aveva comprato il seghetto per mozzare le canne giusto poche settimane prima, il lavoro gli era riuscito perfettamente; le pallottole erano quelle che aveva rubato con Frank, suo zio, quando erano andati nel Wyoming a caccia.
Prese la sacca nera, arrotolo’ il fucile dentro la vecchia coperta insieme alla scatola di pallottole e butto’ il tutto dentro la sua Ford.
Usci’ pianissimo in retromarcia dal garage, si fermo’ al Dunkin’ Donuts dove ordino’ un caffè cinnamon spice da portare via con un poppyseed bagel, il ragazzo che c’era a servire era uno nuovo e sembrava mezzo addormentato.
Ritornato in macchina si diresse verso la Interstate, la notte era stellata e ventosa ma non fredda anche se era ottobre inoltrato. Lui di notte dormiva pochissimo, Mary sapeva che soffriva di insonnia ed incubi da quando era tornato dall’Irak e congedato dall’esercito e si era abituata a dormire quasi sempre da sola.
In uno degli incubi più ricorrenti era ancora sotto le armi e controllava gli effetti personali di alcuni soldati morti in azione, gli toglieva la divisa intrisa di sangue e questi appena li toccava urlavano e le loro urla riecheggiavano per tutto quel maledetto deserto. Agghiacciante. Avrebbe preferito non chiudere più occhio per tutta la vita piuttosto che avere ancora una sola volta quell’incubo.
Si ricordo’ di quando andarono a fare un’esercitazione di tiro nel deserto, il caldo torrido, la sabbia che inceppava le armi e penetrava dappertutto, ma anche quella volta aveva fatto meglio di tutti. Era sempre stato un tiratore eccezionale sin da ragazzino, suo padre gli aveva messo in mano il primo fucile a dodici anni ed era stato come ritrovarsi con un vecchio amico, ce l’aveva nel sangue, come diceva il suo vecchio.
Usci’ dalla Interstate e imbocco’ la strada sterrata che portava in cima ad una collina, tra i boschi, proprio di fronte alla stazione di servizio della Texaco sull’autostrada. Spense i fari ed accosto’ la vecchia Ford ai bordi della sterrata quindi prese la sacca nera dal portabagagli e prosegui’ a piedi per circa mezzo miglio sul sentiero per raggiungere l’estremita’.
Giunto in cima si sedette a guardare giù, la stazione di servizio era aperta tutta la notte ma in quel momento non c’era anima viva. Apri’ la zip della sacca nera ed inizio’ a prepararsi, infilo’ le pallottole nel caricatore del fucile e si distese per terra con calma.
Una Pontiac Vibe arrivo’ alla stazione, scese un uomo sui trent’anni a fare benzina, mentre la donna all’interno dell’auto tiro’ giù l’aletta parasole per guardarsi nello specchietto e ravviarsi i capelli. L’uomo chiese qualcosa alla donna che scosse il capo e poi ando’ a pagare per il rifornimento, uscito sbadiglio’, cerco’ di fare un po’ di streching poi sali’ sulla Vibe.
La macchina si mise in moto e rientro’ in autostrada, lui era pronto, studio’ la direzione del vento, prese la mira accuratamente e premette il grilletto, il proiettile attraverso’ il parabrezza ed uccise sul colpo l’uomo al volante. La donna non ebbe neanche il tempo di reagire che fu raggiunta da un secondo proiettile in mezzo alla fronte. La Pontiac ando’ ancora dritta per un paio di secondi quindi ando’ a sbattere violentemente contro il guard rail e si fermo’ in mezzo alla strada.
Si rialzo’ e mise via tutta la sua roba in fretta. Il fucile lo avrebbe pulito a casa, una volta in macchina avvio’ il motore e prese dal sacchetto sul sedile di fianco il caffè cinnamon spice, era ancora caldo.
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MONTY GOT A RAW DEAL
“Been on a barbed wire highway 40 days and nights
I ain’t complain’n that’s my job and it suits me right”
Montgomery Mc Coy percorreva le centocinquanta miglia che separano Garden City da Hutchinson sulla Route 50 tutti i santi giorni.
Tutti i santi giorni perchè quel Chevy Kodiak C7500 gli era costato la bellezza di 51.000 dollari e poi perchè c’era ancora buona parte del mutuo da pagare e Nancy che stava a casa ad accudire il piccolino.
Un periodo di duro lavoro, ma Montgomery non era certo il tipo da lamentarsi di questo; in fondo c’erano poche alternative. La sua giornata iniziava alle sei, riempiva il suo Kodiak di ogni tipo di merce che gli veniva affidata la trasportava a Hutchinson, scaricava e ricaricava altra merce da portare indietro a Garden City. Tutto qua e tutto da solo visto che nella sua piccola impresa di trasporti ci lavorava solo lui.
Aveva previsto altri due anni di quella vita, per tirarsi un po’ su e onorare i suoi debiti poi, se tutto andava bene, avrebbe potuto tirare il fiato e magari concedersi qualche soddisfazione: assumere qualcuno con cui dividere il carico di lavoro, portare Nancy alle Niagara Falls, passare la domenica a casa, almeno la domenica. Per fortuna aveva Nancy, una donna con la testa sulle spalle, semplice e pura, una che sapeva lavorare sodo e non lo faceva pesare, senza tutti quei grilli per la testa come le altre, un vero fiore del Kansas e adesso che erano quasi sotto Natale avrebbe voluto farle una bella sorpresa, anche se non sapeva bene cosa.
Sulla Kissin’ Country, la sua radio preferita, stavano passando “Remember when” di Alan Jackson e fuori pioveva come Dio la mandava e di sicuro in momenti come quello rimpiangeva di non avere un bel lavoro dalle nove alle cinque e con le gambe sotto una scrivania, ma quanto avrebbe potuto reggere ?
Mancavano 80 miglia per arrivare a casa, la strada era dritta come un fuso nel bel mezzo dei campi di grano del Kansas, Montgomery sperava solo che la pioggia non si tramutasse in neve nottetempo o l’indomani sarebbero stati guai. Telefono’ per fare sapere a Nancy che tutto andava bene e che non sarebbe tornato prima di un paio d’ore. Nancy gli racconto’ la sua giornata con il piccolo Matt, che erano andati al Wal – Mart a fare la spesa con sua madre e gli stava preparando lo sformato di patate.
Mise la freccia per superare un vecchio autocarro che stava per uscire ad uno svincolo e si porto’ sulla carreggiata di sinistra non accorgendosi che stava sopraggiungendo un’altra macchina che inizio’ a suonare il clacson ed a lampeggiare furiosamente. Montgomery completo’ il sorpasso e la macchina, una Camaro nera con la targa dello Iowa lo affianco’. Nonostante i finestrini chiusi e la pioggia battente poteva sentire una musica assordante, al volante c’era un ragazzo che lo guardo’ con aria di sfida sporgendosi dal posto di guida quindi si porto’ con l’auto davanti al Kodiak e freno’ di colpo per poi ripartire a tutto gas. Montgomery dovette inchiodare e sterzare bruscamente sulla sinistra per evitare di andare addosso alla Camaro. Con il cuore ancora in gola si fermo’ sul ciglio della strada dove rimase alcuni minuti prima di andare a vedere se nel retro del camion la merce avesse subito dei danni.
Si rimise in marcia, era buio pesto ormai, aveva i vestiti fradici ed iniziava ad avere freddo. stava anche nevicando ed una coltre bianca ricopriva già l’autostrada deserta.
Dopo qualche miglio vide qualcosa in lontananza: sembrava fosse successo qualcosa, un incidente. Un’auto aveva sbandato ed era andata a finire contro il guard rail ed infine si era ribaltata. Avvicinandosi lentamente Montgomery riconobbe la Camaro nera e vide il ragazzo, era riuscito ad uscire dall’auto e barcollava mentre si dirigeva verso il suo camion balbettando “aiutatemi”, con la faccia ricoperta di sangue e tremando come una foglia sotto la neve.
Montgomery, immobile dentro il camion, lo fisso' negli occhi per alcuni secondi che dovettero sembrare un’eternità al ragazzo là fuori, poi disse scandendo bene cosi’ che lui potesse capire “fottiti bastardo”, diede gas al Kodiak e prosegui’ per la sua strada.
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CAMPBELL’S SOUP
Jon Landau non lavorava. O meglio in quel periodo non lavorava. Percepiva un sussidio di disoccupazione temporaneo mentre la moglie faceva il part time al Tumble Inn Diner, turno di sera, usciva alle sei e tornava per le undici. Alla cena ci pensavano le bambine, Vera e Susan; erano ormai grandi abbastanza per poter preparare qualcosa da mangiare a loro ed al padre, niente di elaborato ma zuppe in scatole, hamburgers, insalate. Dopo la scuola, visto che era quasi estate, passavano tutti i giorni dal Lincoln Park, prima di tornare a casa, dove si ritrovavano con gli amici a giocare e chiaccherare. Anche se gli amici pensavano che Jon fosse un tipo strano, così taciturno e solitario, loro gli volevano bene e lo difendevano sempre dalle altrui risatine ed insinuazioni.
Jon se ne stava in casa per la maggior parte del tempo, guardava la televisione, si beveva qualche birra ma soprattutto dormiva. Da quando aveva lasciato il suo ultimo lavoro da Chuck, la stazione di servizio sulla turnpike, si sentiva questa stanchezza addosso, questo peso nella testa che lo lasciava spossato. Con Patty, sua moglie, non ne aveva ancora parlato ma lo avrebbe dovuto fare prima o poi.
Era la sera del 12 giugno quando Jon si svegliò di soprassalto, stava sognando di cadere, di scivolare in un precipizio e cercava di urlare per farsi sentire da qualcuno ma dalla bocca non gli usciva altro che un sordo rantolio. Si alzò dal letto, aprì la porta di camera poi tirò su le tapparelle, rigorosamente abbassate per non far entrare un solo raggio di sole. Jon d’altro canto l’estate non la poteva sopportare, il caldo, il rumore, la luce sino a tardi, erano tutte cose a cui avrebbe fatto volentieri a meno. Stranamente non sentì alcun rumore provenire dalla cucina dove le bambine avrebbero dovuto essere; in casa non c’era nessuno, nessun messaggio da Patty, nessun biglietto sul frigo. Trovò un paio di pantaloni da mettersi e quella vecchia T-shirt degli Allman Brothers Band ormai ridotta male.
La station wagon era parcheggiata giusto di fronte e Patty doveva avere fatto qualche gallone di benzina. Avviò la macchina ed arrivato al Lincoln Park, proprio dietro l’angolo, vide in lontananza un gruppo di ragazzini tra i quali c’erano anche Vera e Susan. Si mise a guardarli da lontano, all’apparenza si divertivano un mondo, ridendo e rincorrendosi in quel modo. Le sue bambine stavano crescendo, adesso c’erano quei ragazzini, sui tredici anni, che gli stavano girando intorno e loro sembravano tutte eccitate. A quell’età lui ci aveva già provato con sua cugina, se l’era portata nei campi dietro casa e gli aveva messo la mano nelle mutande e dopo, dopo, non voleva pensare a quello che era successo e che qualcosa del genere potesse capitare anche alle sue figlie.
Scese dalla macchina ed iniziò a correre, gridando come un ossesso i nomi delle bambine. Tutto il gruppo di ragazzi si fermò come paralizzato, Vera e Susan fecero qualche passo avanti verso il padre, il quale sbraitando le trascinò verso la station wagon e partì sgommando. Per tutta la strada sino alla vecchia cava Jon non smise un attimo di inveire e di battere i pugni sul volante mentre le bambine sul sedile di dietro piangevano.
Alla cava a quell’ora non c’era più nessuno, ormai era diventata una discarica di rifiuti. Jon fece scendere Vera e Susan continuando a ripetere quanto là fuori fosse pericoloso e che non poteva essere adatto a loro e che lui voleva solo proteggerle da tutto questo; le portò verso il dirupo, aveva ancora chiaro in mente il sogno di poco prima, c’era un bel salto almeno un centinaio di metri, le spinse giù tutte e due.
Tornò alla station wagon ancora in moto ed ingranò la prima. Si sentiva svuotato, era fame, pensò, non aveva mangiato niente tutto il giorno, una volta a casa voleva farsi una zuppa della Campbell.Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso |
YELLOW
Yellow era il loro cane. L’avevano preso poco dopo essersi sposati e quel basset hound era stato per lungo tempo il loro beniamino, vezzeggiato e coccolato, persino iscritto al Basset Hound Club of America e con quelli del club erano anche andati in Missouri al National Specialty 2000 ma il buon Yellow non ce l’aveva fatta a qualificarsi per la gara di field trial.
Ora, dopo circa cinque anni, se il cane godeva ancora di ottima salute altrettanto non si poteva certo dire del loro matrimonio. Jean se ne era infatti andata da casa da diversi mesi ormai, lasciando inizialmente a Larry l’incombenza di custodire Yellow dato che era andata a vivere in un monolocale, ma adesso che si era sistemata con Ted nella sua casa dalle parti di Fairview voleva riprendersi Yellow e per questo telefonava a Larry tutti i giorni.
E Jean era insistente solo come lei sapeva esserlo, diceva che il cane era suo perchè l’aveva voluto lei, che Yellow le era di sicuro più affezionato, insomma era diventata una vera e propria ripicca post separazione.
Larry non l’aveva presa poi tanto bene, in fondo Yellow era l’unico che gli teneva compagnia in quel periodo visto che i suoi si erano trasferiti in Florida e non avevano nessuna intenzione di tornare e sua sorella, beh sua sorella da quando aveva sposato Peter faceva parte di una comunità Amish e la vedeva si e no un paio di volte l’anno.
Quella poi era stata una giornata davvero pesante: arrivato in ufficio si era ritrovato sulla scrivania una lettera di richiamo “a causa dei ripetuti ritardi accumulati nel corso degli ultimi due mesi senza avvisare tempestivamente il suo superiore gerarchico nè fornendo alcuna giustificazione al riguardo, quindi in contrasto con i più elementari principi di correttezza” e quando era andato su da quelli delle Human Resources cercando di spiegare la sua situazione, che stava passando quello che stava passando a causa della separazione e che talvolta dormiva solo un’ora a notte, loro lo avevano guardato come se si trattasse di un marziano; Dio cosa avevano al posto del cuore quella gente ?
Era tornato a casa alle 7,30 passate, per cercare di recuperare un po’ col lavoro e Yellow lo stava aspettando, come al solito, dietro la porta d’ingresso abbaiando e sbattacchiando la coda contro tutti i mobili. Sulla segreteria telefonica c’erano tre messaggi sempre più isterici di Jean che diceva di richiamarla perchè gli doveva parlare, ma di sicuro era l’ultima cosa che avrebbe fatto, voleva solo prepararsi qualcosa da mangiare e vedersi il Monday Night Football Match in tv. Riempi’ la ciotola di Yellow di Kibble’n Bits e la mise vicino al divano cosi’ potevano mangiare vicini. Il telefono prese a squillare, corse a rispondere, era Jean: Finalmente mi rispondi, esordì
Guarda sono appena tornato dall’ufficio
Cos’è per la prima volta in vita tua ti metti a fare degli straordinari ? Allora come la mettiamo con il cane, quando vengo a prenderlo ?
Jean, ancora con questa storia, non la puoi finire una volta per tutte
Ti ho già detto che il cane è mio e lo rivoglio
È nostro, era nostro e adesso è con me
Larry te lo dico per l’ultima volta, non voglio andare dall’avvocato anche per questa faccenda, ma se mi costringi vedrai che troverò il modo di farti cambiare idea, lo sai, lo sai benissimo, posso diventare cattiva e non voglio vederti finire sul lastrico, quindi vedi di darci un taglio e dammi il mio cane, allora quando vengo a prenderlo ?
Ok, fece Larry, hai ragione diamoci un bel taglio allora, domani, domani inizierai ad avere il tuo cane.
Appese la cornetta, ando’ nello scantinato e tirò fuori dalla cassetta degli attrezzi l’accetta, tornato di sopra chiamò Yellow in cucina. Il cane arrivo’ scodinzolando, lui lo fece distendere sul pavimento sopra alcuni stracci e con l’accetta gli mozzo’ un orecchio. Il cane prese a guaire, terrorizzato.
Larry mise l’orecchio di Yellow in una busta della Fed Ex, la richiuse, scrisse l’indirizzo di Jean e chiamò il Customer Center chiedendo una spedizione urgente a sue spese per la mattina seguente.
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GOOD DOG BAD DOG
Il ring, se cosi’ vogliamo chiamarlo, era un quadrato ricavato all’interno di quel capannone dismesso su nella 105 W, nel bel mezzo del distretto industriale. La gente si ritrovava li’ il venerdi’ sera, si sedeva sulle panche di legno e ferro ed assisteva ai combattimenti, scommetteva, beveva, insomma se la spassava.
Lui era entrato nel giro dei combattimenti clandestini da quando aveva lasciato la boxe professionistica un paio d’anni prima, sui trentotto, dopo una carriera di oltre quindici anni ed un quasi titolo nazionale, se non fosse stato per quell’uppercut che lo aveva steso proprio alla dodicesima, quando ormai sembrava finita e il match era nelle sue mani se fossero andati ai punti. Quante volte se lo era sognato quell’incontro ad Atlantic City e quell’uppercut che non aveva visto arrivare.
Era conosciuto come Bad Dog, che era il tatuaggio sul suo braccio destro, anche se su quello sinistro c’era tatuato Good Dog, ma buono o cattivo che fosse il suo destino era sempre stato quello: su di un ring, non avrebbe saputo fare altro.
Ad ogni modo in quei due anni era riuscito a boxare bene, era ancora forte abbastanza da buttare giù gente più giovane di lui anche di molti anni e per tutti quelli che stendeva veniva pagato subito ed in contanti, “some good cold cash” come diceva lui. E con quei soldi viveva, ci manteneva la sua Mustang GT Coupe del ’67, si concedeva qualche lusso ogni tanto, come quando con Mary J. erano andati al Bellagio di Las Vegas e si erano bruciati dei bei bigliettoni al Casino.
Ma quella era Las Vegas non Atlantic City. Lui a Las Vegas aveva disputato tre incontri e li aveva vinti tutti quanti, l’ultimo era stato nel ’92 quando la sua stella brillava ancora, dopo si era dovuto accontentare di piazze minori, di posti più piccoli: Lafayette, Albuquerque, cose del genere e di borse sempre più esigue.
C’è chi dice che gli incontri di boxe sono tutti truccati, ma come fai a vivere se non entri nel giro giusto. E lui si era dovuto adeguare ed aveva accettato, qualche volta, di finire al tappeto, ma poi si era riempito le tasche con i loro soldi e non si era mai guardato indietro.
Quella sera era arrivato presto su al capannone e si era fermato a parlare con Sam Shepherd, uno degli organizzatori; c’era già un bel po’di gente e qualcuno lo aveva riconosciuto e lo aveva salutato, pacche sulle spalle e tutto il resto, come ai bei tempi, quindi era andato negli spogliatoi per prepararsi. Sam gli aveva detto che il suo avversario era un duro, più o meno della sua età, ma non gli aveva detto il nome. Di là già stavano combattendo, sentiva le urla di incitamento e la musica tra un round e l’altro, aprì la borsa e si vesti'.
Bussarono alla porta toccava a lui. Si sistemò i pantaloncini ed entrò nella sala. Sul ring c’era il suo avversario ad aspettarlo, lui salì ed iniziò a studiarlo, i tagli, le cicatrici e tutto il dolore che il tempo non può cancellare, si piegò velocemente sulla sinistra e lo colpì al volto.Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso |
DIECI ANNI NON SI CANCELLANO IN UN GIORNO
Seduto sul bordo della vasca da bagno, cerco di respirare a pieni polmoni. Sento gocciole di sudore rigarmi la schiena, le braccia, tutto il corpo, mi guardo allo specchio. Mi ricordo di quella volta da bambino quando mia madre mi infilo’ una saponetta in bocca perchè non ne volevo sapere di farmi lavare. Ero seduto nella vasca, stavo frignando a più non posso e a un tratto mi ritrovai questa saponetta verde in mezzo ai denti, fu cosi’ strano che la smisi immediatamente. Mia madre era cosi’, risoluta, direi. Ma era anche la mamma che tutte le mattine entrava in camera mia per svegliarmi, tirava su le tapparelle e mi diceva “Rise and shine sweetheart”, Dio proprio cosi’, rise and shine sweetheart, da quanto tempo non sento più queste parole ?
E io invece questa mattina sono andato in quella che era casa mia per prendere i bambini e farci il nostro solito giro domenicale e Scissors che ha scodinzolato e guaito, pazzo di gioia. La vita di famiglia, l’atmosfera calda e stravagante della casa, certe volte mi mancano.
Mi manca l’andare in vacanza tutti insieme, caricare la jeep di bagagli, bici, tende, canne da pesca e tutto il resto. Solo vacanze in camping noi oppure affittare un bungalow spartano in mezzo ai boschi, andare a pescare con i bambini e poi alla sera grigliata.
Vita sana a contatto con la natura, mi è stato concesso lo stesso sin da piccolo quando si partiva in sei: i miei e noi quattro fratelli.
Beh comunque stamattina è stata abbastanza dura, anche perchè fra un paio di settimane ci dobbiamo vedere in tribunale per l’udienza di separazione. Un matrimonio che va in frantumi non è mai una bella esperienza, poi dicono si puo’ rimanere amici, si’, si’ ma è un’altra cosa.
Eppure devo dire la verità non c’è niente che andrei a cambiare di quello che ho fatto. Semplicemente non è andata, non abbiamo retto, come coppia.
Mi spiace per i bambini. Certe volte ancora mi chiedono “ma allora non torni più a casa ?” ed io che ci rimango li’ e cerco di biascicare una risposta.
Dieci anni non si cancellano in un giorno. Io e mia moglie, anzi mi devo abituare a dire la mia ex moglie, ci siamo sposati abbastanza giovani, in maggio, dopo la chiesa siamo andati a casa sua a fare il rinfresco, una cosa semplice, le due famiglie, amici e nugoli di piccoletti che scorrazzavano per il giardino e mia madre piangeva ed io le dicevo di non preoccuparsi, che non l’avrei mai lasciata sola, le stesse parole che lei mi ripetè sul suo letto di morte.
Ma perchè mi vengono in mente queste cose adesso ? Domani devo andare a lavorare, è meglio che me ne torni a letto, anche se fa un caldo infernale, in questo hotel l’aria condizionata non funziona ancora, ma domani mattina glielo dico, cosa stanno aspettando per accenderla che finisca l’estate ?
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THE LONG GOODBYE
“Love leaves nothin’ but shadows and vapor
we go on, as in our sad nature”
Una cosa non riusciva a capire: perchè a distanza di un anno e mezzo da quando si erano lasciati la foto di lei era ancora incorniciata ed in bella mostra sul suo cassettone ?
Quella cornice di plastica gialla ora l’urtava e la foto di quella volta in campagna non la guardava mai, levava lo sguardo giusto un attimo prima di incrociarla, era diventata una vera e propria croce e nonostante tutto era ancora li’.
In fondo la loro relazione era andata avanti tra pochi alti e tanti bassi: quando si erano messi insieme per sei mesi non avevano potuto fare l’amore per “sospetto vaginismo” e meno male che era solo sospetto; negli ultimi tempi invece l’attrazione sessuale era scemata a tal punto sino a diventare una sorta di obbligo a timbrare il cartellino solo durante il fine settimana e pensare che lui odiava i fine settimana. Insomma una relazione destinata a morire, se non altro di noia, con lei che gli propinava serate con i suoi amici (c’era questa coppia, Chiara ed Andrea, lui aveva trenta e passa anni, fervente cattolico, aspettava il giorno del matrimonio per fare sesso per la prima volta e lei che era più giovane di otto anni, sembrava una frigida convinta) e lui che faceva dei musi e poi giù a litigare; oppure il massimo era fermarsi a cena dai genitori di lei con il padre che, con la sua bronchite cronica, gli tossiva nel piatto, fumava e gli parlava dell’Inter di Herrera.
E la prospettiva di tutto questo qual era ? Una convivenza in un mini appartamento a Milano, un cane da portare fuori a fare i bisogni a turno, una testa cosi’ con le traversie delle sorelle di cui una divorziata, logorroica e con una bambina di cinque anni e l’altra che aveva fatto finta di laurearsi in filosofia alla Statale e che si barcamenava tra un lavoretto e l’altro. Per poi non parlare dell’altra grande tragedia familiare: la mamma succube di quel mostro del marito che la tormentava. A proposito di questo era poi venuto a sapere che lei aveva convinto la madre a chiedere il divorzio e che il padre rimasto solo si era ammazzato con una pistola rimediata chissà dove. Avrebbe voluto chiederle come si sentiva ora che il padre si era suicidato e la madre era andata fuori di testa, se era sempre cosi’ sicura di sè, convinta di quello che diceva e che faceva. Si ricordava ancora di quelle telefonate, qualche tempo dopo che lo aveva lasciato, per chiedergli se tutto andava bene, per ribadirgli la fermezza della sua decisione e per dirgli di come con il nuovo compagno andasse tutto per il meglio e lui che non aspettava altro di sentire la sua voce. Poi un giorno le telefonate erano finite nello stesso modo in cui erano iniziate: senza una ragione.
Ci era voluto del tempo, troppo tempo, per chiudere. Un lungo addio. Alzo’ lo sguardo sino a fermarsi alla foto incorniciata, si soffermo' ad analizzarla fino nei particolari, non gli fece alcun effetto, come guardare la foto di un perfetto sconosciuto.
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SOMETHING IN THE NIGHT
Si sveglio’ che era notte fonda. La testa che scoppiava. In bocca il sapore dell’alcool. Poco a poco tento’ di mettere a fuoco i vaghi ricordi che cominciavano ad affacciarsi, le immagini in flash back, qualche parola. Aveva guidato sino al White Shark dove aveva bevuto un paio di pinte con Tim e Dick, loro erano tornati a casa dalle mogli, mentre lui si era fermato a parlare con il barista e il proprietario dello Shark sino all’ora di chiusura, dopo si mise di nuovo al volante. Ben presto si ritrovo’ dalle parti della Jonosboro Rd, era in cerca, rallento’ quando vide una ragazza che poteva interessarlo.
Abbasso’ il finestrino: Quanto vuoi ?
Cento in macchina, duecento in camera. Questa la risposta. Ok per la camera, fece lui.
La ragazza sali’ in macchina, era alta, giovane, venti, ventidue anni, nera, per niente contenta che un bianco l’avesse scelta.
Dove andiamo ? In camera mia, disse la ragazza, ti indico io la strada.
Arrivarono in poco più di cinque minuti di silenzio imbarazzato da parte sua. La casa era piccola ed abbastanza isolata dal resto del quartiere perchè dietro ad un cantiere di abitazioni in costruzione.
Parcheggio’ poco distante, in casa non c’era nessuno, ma di sicuro la ragazza non poteva permettersi di pagare l’affitto da sola. Si diressero verso la camera da letto, era spoglia, solo il letto, un tavolino con sopra la lampada ed un piccolo armadio a due ante.
La ragazza, senza dire una sola parola, inizio’ a spogliarsi, lentamente, in maniera svogliata, prima i jeans attillatissimi, poi il top rosso. Nuda si distese sul letto e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Ok, fece lui avvicinandosi al letto, togliendosi il giubbotto e poi le scarpe. Inizio’ a toccarla, il corpo era sodo, i seni prosperosi, il sedere duro come il marmo, ma la sua assoluta mancanza di partecipazione cominciava ad irritarlo. Baciami, gli disse, ma lei giro’ la bocca dall’altra parte. Dopo un paio di minuti non era minimamente eccitato, inizio’ allora a schiaffeggiarle le natiche, sempre più forte. Che cazzo fai, stronzo. La ragazza lo allontano’ spingendolo e si alzo’ dal letto. Se non ti tira, dammi i miei duecento e sparisci hai capito? Impotente del cazzo.
Fu come se ci fosse stata un’esplosione nel bel mezzo del cervello ed una pioggia di sangue gli avesse oscurato la vista, perse il controllo, la trascino’ ancora sul letto e gli si sedette sopra impedendole di muoversi, tempestandola di pugni. La ragazza urlava, lui continuava a pestarla a mani nude infine prese la lampada dal tavolino e gliela sfascio’ sul cranio, uccidendola sul colpo.
Vide ancora la scena davanti ai suoi occhi una, cento, mille volte, ogni singolo dettaglio era al suo maledetto posto, ora il puzzle era ricostruito, il quadro completo.
Si tiro’ su, era ancora vestito, si stropiccio’ la faccia come per svegliarsi da un incubo, si guardo’ le mani, erano ricoperte di croste di sangue e doloranti, inizio’ a singhiozzare.Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso |
MEETING ACROSS THE RIVER
Circola voce che questa è la nostra ultima occasione e non ci possiamo permettere di fallire. Anche perchè non verranno a cercare solo me, stavolta.
Eddie stava parlando concitatamente al cellulare, sbirciando la strada sottostante dietro le tende di casa, camminando senza sosta per il piccolo appartamento.
L’appuntamento è al di là del fiume stanotte, con un pezzo grosso, gente importante di New York.
Siamo noi due, soli, in prima linea. Mi hanno detto: nessun errore è possibile, nessuno sbaglio è ammesso; dobbiamo solo tenere a mente quel che dobbiamo fare e tutto andrà per il verso giusto.
Eddie ora stava giocherellando con i tasti del telecomando, senza guardare la televisione, pigiandoli nervosamente, a caso. Seduto sul letto sfatto si guardo’ intorno.
Sai, Sue se ne vuole andare, gli ho preso il suo anello, si’, ma sapeva benissimo che in quel momento avevo bisogno di soldi. Ma lei non capisce che adesso praticamente un bel po’ di bigliettoni sono già nelle nostre tasche. E stanotte quando entrero’ da quella porta, buttero’ tutti i soldi sul letto, cosi’ vedrà che questa volta non stavo solo parlando, che non sono un perdente io.
Finita la telefonata poso’ il cellulare sul tavolo, doveva pensare a come rendersi presentabile. L’ultima camicia pulita che gli era rimasta era quella nera, voleva farsi una doccia, ma più tardi, prima doveva mangiare qualcosa cosi’ decise di andare al take away cinese.
Arrivato in strada comincio’ a piovere, era una pioggerellina fredda e sottile, scendeva giù dal cielo dritta e penetrava velecemente nelle ossa.
Al semaforo attraverso’ di corsa e poi cerco’ di ripararsi camminando sotto una pensilina. Solo in quel momento noto’ con la coda dell’occhio che una macchina lo stava seguendo, doveva restare calmo e trovare una via d’uscita il più in fretta possibile, dalla macchina scesero due uomini che gli si fecero incontro.
Eddie Russo ? Chiese uno esibendo il distintivo del NYPD. Non potè far altro che annuire. Ci segua in commissariato.
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