CATECHESI SU MATRIMONIO E VITA CONIUGALE 19/1/08 Antonio Corti - IMPRIMATUR: Aloy. Morstabilini , Ep, Brixiae 2-2-1972. © Editrice Ancora - Milano IL DOVERE DELLO STATO CONIUGALE_1IntroduzioneNella Sacra Scrittura molto spesso i figli vengono presentati come un dono, una benedizione di Dio. Dio disse ad Abramo, parlando di Sara, la moglie di lui: « Io la benedirò e ti concederò da lei anche un figlio » (Genesi 17, 16). La madre di Samuele chiede a Dio un figlio; Dio le concede la grazia ed essa lo chiama appunto Samuele « Perché - disse - l'ho chiesto a Jahve » (1 Samuele 1, 20). Scrive il Salmista: « Ecco: i figli sono eredità di Jahvé, il frutto del seno è mercede » (Salmo 127, 3). L'angelo Gabriele dice al Sacerdote Zaccaria: « Non temere, Zaccaria, perché la tua supplica è stata esaudita; tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio » (Luca 1, 13). È con questo spirito di fede che dobbiamo trattare il problema della fecondità. Si è parlato di « castità coniugale » cioè di retto uso della attività sessuale, lecita solo nella legittima famiglia, secondo la volontà di Dio, in modo conforme al fine dell'attività stessa. Sorgono però diversi problemi: per i coniugi è un dovere procreare i figli? in che misura? non siamo forse già troppi al mondo? non sono troppo gravose le esigenze moderne? ecc. E’ su questi problemi che dovremo dire una parola senza pretendere di essere completi. Dovere di feconditàLa procreazione umana è lecita solo nella legittima famiglia. Dio ha dato il comando: « Siate fecondi e moltiplicatevi ». È però un comando generale a tutta la specie umana che lascia piena libertà agli individui di sposarsi o no: quindi tutti possono avere diritto al matrimonio ma nessuno è obbligato a sposarsi. Il problema del dovere della fecondità lo trattiamo perciò solo per i coniugi. a) Chi è coniugato è obbligato a far in modo di avere figli? È come domandare se chi è sposato è obbligato a compiere l'atto procreatore. Si deve rispondere di no. Il matrimonio dà il diritto a compiere gli atti procreativi ma non ne dà l'obbligo. Se di comune accordo gli sposi rinunciano a compiere tali atti, non commettono nessuna ingiustizia, nessun peccato. Chi ha un diritto può anche rinunciare a usare o a far valere questo diritto. Siccome qui il diritto è di ambedue i coniugi, la rinuncia ad usare di questo diritto (per un tempo determinato o anche per sempre) deve essere il risultato di accordo comune di ambedue. Così si spiega il voto di castità, anche perpetua, di alcuni sposi (es. la Madonna e S. Giuseppe; S. Enrico imperatore e S. Cunegonda). Può anche darsi che si rinunci a questo diritto non per motivi nobili ma per motivi egoistici: allora l'errore, o anche il peccato, starà nella cattiva intenzione ma non nel fatto di rinunciare agli atti procreativi e quindi alla procreazione. b) Dopo la scoperta dei « tempi sterili » e « tempi fecondi » nella donna (Ogino-Knaus) e, perciò, della possibilità di usare del diritto coniugale in modo integro e completo e insieme senza fecondità (atto completo ma infecondo), ecco una nuova domanda: i coniugi che fanno uso del loro diritto coniugale sono obbligati a fare in modo di avere figli? È come domandare se c'è un dovere di fecondità per chi non rinuncia ma usa dei propri diritti coniugali. Si può rispondere di no per qualche singolo atto coniugale; ma si deve rispondere di sì se si tratta di un uso abituale dei diritti coniugali. È lecito cioè compiere qualche atto coniugale completo, quando è certo che sarà infecondo; ma usare abitualmente questo diritto solo in tempi sterili, sicché si eviti la procreazione, di per sé non è lecito (di per sé, cioè se non ci sono veri motivi scusanti come si dirà in seguito). Anche qui il vero nemico è l'egoismo. Pio XII ha insegnato chiaramente: « Il contratto matrimoniale che conferisce agli sposi il diritto di soddisfare l'inclinazione della natura, li costituisce in uno stato di vita, lo stato matrimoniale. Ora ai coniugi, che ne fanno uso con l'atto specifico del loro stato, la natura e il Creatore impongono la funzione di provvedere alla conservazione del genere umano... Quindi abbracciare lo stato matrimoniale, usare continuamente la facoltà ad esso propria e in esso solo lecita e, d'altra parte, sottrarsi sempre deliberatamente, senza un grave motivo, al suo primario dovere, sarebbe un peccare contro il senso stesso della vita coniugale » (Discorso all'Unione Cattolica Italiana Ostetriche). c) Questo dovere di fecondità nell'uso dei diritti coniugali (crescete e moltiplicatevi) è un dovere positivo e non negativo. Ora un dovere positivo, che comanda cioè di fare qualche cosa (esempio: pregate, fate elemosina, andate a Messa alla domenica) obbliga nei limiti della possibilità. Il dovere esiste, ma l'attuazione pratica può essere impedita da ragioni gravi (esempio: chi è ammalato non è tenuto alla Messa festiva). Così il dovere positivo della fecondità può essere impedito da motivi che ne rendono praticamente impossibile o inopportuno l'adempimento; e ci può quindi essere l'uso, anche abituale, dei diritti coniugali solo nei tempi sterili e perciò senza probabile fecondità (come si dirà in seguito). Dice Pio XII: « ... il matrimonio obbliga ad uno stato di vita, il quale, come conferisce certi diritti, così impone anche il compimento di un'opera positiva, riguardante lo stato stesso. In tal caso si può applicare il principio generale che una prestazione positiva può essere omessa, se gravi motivi, indipendenti dalla buona volontà di coloro che ne sono obbligati, mostrano che quella prestazione è inopportuna, o provano che non si può dal richiedente - in questo caso il genere umano - equamente pretendere » (Discorso alle Ostetriche). Mi pare utile mettere qui in evidenza come l'insegnamento di Pio XII su questo punto sia veramente rivoluzionario: non ha cioè avuto timore di rompere con la tradizione. Mentre l'insegnamento tradizionale non ammette unione coniugale o manifestazione fisica dell'amore senza l'intenzione di procreare (« è almeno peccato veniale » aveva scritto S. Agostino) Pio XII parla di possibilità di unione coniugale pur evitando volontariamente l'impegno della procreazione. Il super-popolamentoE’ facile sentir dire che « siamo in troppi », « se l'umanità cresce con questo ritmo si arriverà a morire di fame », « bisogna dunque limitare le nascite », ecc. Il problema può essere valutato da un punto di vista generale cioè mondiale e da un punto di vista familiare. Prima di accennare a questi due punti di vista giova premettere che: se l'allarme è esagerato tenendo conto delle risorse attuali o ancora sfruttabili di tutto il mondo, è un allarme vero per alcune aree « depresse e sottosviluppate e insieme sovrappopolate »; qualunque sia il rimedio che si voglia portare, non si può mai andare contro la legge di Dio chiaramente conosciuta. a) Considerando il problema dal punto di vista generale ci si può utilmente limitare all'insegnamento del papa Giovanni XXIII nella enciclica Mater et Magistra (15-V-1961). Scrive il Papa: « Su piano mondiale alcuni osservano che, secondo calcoli statistici ritenuti sufficientemente attendibili, la famiglia umana in pochi decenni attingerà cifre assai elevate, mentre lo sviluppo economico procederà con ritmo meno accelerato. Ne deducono che, qualora non si provveda in tempo a limitare il flusso demografico, lo squilibrio tra popolazioni e mezzi di sussistenza, in un futuro non lontano, si farà sentire acutamente... ...Per cui, ad evitare che si finisca in situazioni di estremo disagio, vi è chi ritiene indispensabile far ricorso a drastiche misure elusive o repressive della natalità ». E il S. Padre commenta: « A dire il vero, considerato su piano mondiale, il rapporto tra incremento demografico da una parte e sviluppo economico e disponibilità di mezzi di sussistenza dall'altra, non sembra, almeno per ora e in un avvenire prossimo, creare gravi difficoltà: in ogni caso troppo incerti ed oscillanti sono gli elementi di cui si dispone per poterne trarre conclusioni sicure... Per cui la soluzione di fondo del problema non va ricercata in espedienti che offendono l'ordine morale stabilito da Dio e intaccano le stesse sorgenti della vita umana, ma in un rinnovato impegno scientifico-tecnico da parte dell'uomo ad approfondire ed estendere il suo dominio sulla natura. I progressi già realizzati dalle scienze e dalle tecniche aprono su questa via orizzonti sconfinati ». E venendo a parlare delle aree depresse dice: « Sappiamo però che in aree determinate e nell'ambito di Comunità politiche in fase di sviluppo economico possono presentarsi e si presentano realmente gravi problemi e difficoltà, che si devono al fatto di una deficiente organizzazione economicosociale che non offre perciò mezzi di vita proporzionati al saggio di incremento demografico; come pure al fatto che la solidarietà tra i popoli non è operante in grado sufficiente ». E il Santo Padre conclude: « Con tristezza rileviamo che una delle contraddizioni più sconcertanti da cui è tormentata e in cui si logora la nostra epoca è che, mentre da una parte si mettono in accentuato rilievo le situazioni di disagio e si fa balenare lo spettro della miseria e della fame, dall'altra si utilizzano, e spesso largamente, le scoperte della scienza, le realizzazioni della tecnica e le risorse economiche per creare terribili strumenti di rovina e di morte ». Dunque anche per le aree depresse il problema è specialmente di organizzazione sociale, politica ed economica. Il basso livello di vita in quelle popolazioni non è dovuto solo all'alta natalità ma anche alla bassa produzione. Si tratta quindi sia di diminuire le nascite in modo responsabile, sia di aumentare la produzione e il benessere mediante una giusta organizzazione sociale ed una politica economica adeguata ai bisogni, sia di diminuire le spese per gli armamenti. È certo più facile, specialmente per certe classi dirigenti, attribuire la causa della miseria all'incremento demografico e non invece all'inefficienza dello Stato o all'egoismo delle classi dirigenti stesse. Un passo avanti però è stato fatto nell'insegnamento della Chiesa a questo proposito: il Concilio infatti, pur riservando ai coniugi la responsabilità della decisione, ammette che le popolazioni debbano essere opportunamente istruite anche riguardo alla regolazione delle nascite. Dice il Concilio: « Infatti in virtù del diritto inalienabile dell'uomo al matrimonio e alla generazione della prole, la decisione circa il numero dei figli da mettere al mondo dipende dal retto giudizio dei genitori e non può in alcun modo essere lasciata alla direzione dell'autorità pubblica. Ma poiché questo giudizio dei genitori suppone una coscienza ben formata, è di grande importanza dare a tutti il modo di educarsi a una retta responsabilità, quale veramente conviene a uomini, nel rispetto della legge divina e tenendo conto delle circostanze. Tutto ciò esige un po' dappertutto un miglioramento dei mezzi educativi e delle condizioni sociali, e soprattutto una formazione religiosa o almeno una solida formazione morale. Le popolazioni poi siano giudiziosamente informate sui progressi della scienza nella ricerca di quei metodi, che potranno aiutare i coniugi in materia di regolazione delle nascite, una volta che sia ben stabilito il valore di questi metodi e accertato il loro accordo con la legge morale » (Gaudium et spes, n. 87). E in modo nuovo e più esplicito Paolo VI riconosce allo Stato il diritto di intervenire: « È certo che i poteri pubblici, nell'ambito della loro competenza, possono intervenire, mediante la diffusione di una appropriata informazione e l'adozione di misure opportune » purché non opposte alla legge morale e alla giusta libertà dei coniugi (enciclica Populorum progressio del 26 marzo 1967, n. 37). Anche in una politica demografica, la scelta del numero dei figli è di sola spettanza degli sposi. Solo gli sposi, tenendo di mira il bene anche della comunità nazionale, possono lasciarsi illuminare da una onesta scienza demografica e decidere in merito secondo coscienza ed onestà (cfr. Goffi, Morale familiare, pag. 142).
MATRIMONIO E VITA CONIUGALE
CATECHESI SU MATRIMONIO E VITA CONIUGALE 19/1/08 Antonio Corti - IMPRIMATUR: Aloy. Morstabilini , Ep, Brixiae 2-2-1972. © Editrice Ancora - Milano IL DOVERE DELLO STATO CONIUGALE_1IntroduzioneNella Sacra Scrittura molto spesso i figli vengono presentati come un dono, una benedizione di Dio. Dio disse ad Abramo, parlando di Sara, la moglie di lui: « Io la benedirò e ti concederò da lei anche un figlio » (Genesi 17, 16). La madre di Samuele chiede a Dio un figlio; Dio le concede la grazia ed essa lo chiama appunto Samuele « Perché - disse - l'ho chiesto a Jahve » (1 Samuele 1, 20). Scrive il Salmista: « Ecco: i figli sono eredità di Jahvé, il frutto del seno è mercede » (Salmo 127, 3). L'angelo Gabriele dice al Sacerdote Zaccaria: « Non temere, Zaccaria, perché la tua supplica è stata esaudita; tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio » (Luca 1, 13). È con questo spirito di fede che dobbiamo trattare il problema della fecondità. Si è parlato di « castità coniugale » cioè di retto uso della attività sessuale, lecita solo nella legittima famiglia, secondo la volontà di Dio, in modo conforme al fine dell'attività stessa. Sorgono però diversi problemi: per i coniugi è un dovere procreare i figli? in che misura? non siamo forse già troppi al mondo? non sono troppo gravose le esigenze moderne? ecc. E’ su questi problemi che dovremo dire una parola senza pretendere di essere completi. Dovere di feconditàLa procreazione umana è lecita solo nella legittima famiglia. Dio ha dato il comando: « Siate fecondi e moltiplicatevi ». È però un comando generale a tutta la specie umana che lascia piena libertà agli individui di sposarsi o no: quindi tutti possono avere diritto al matrimonio ma nessuno è obbligato a sposarsi. Il problema del dovere della fecondità lo trattiamo perciò solo per i coniugi. a) Chi è coniugato è obbligato a far in modo di avere figli? È come domandare se chi è sposato è obbligato a compiere l'atto procreatore. Si deve rispondere di no. Il matrimonio dà il diritto a compiere gli atti procreativi ma non ne dà l'obbligo. Se di comune accordo gli sposi rinunciano a compiere tali atti, non commettono nessuna ingiustizia, nessun peccato. Chi ha un diritto può anche rinunciare a usare o a far valere questo diritto. Siccome qui il diritto è di ambedue i coniugi, la rinuncia ad usare di questo diritto (per un tempo determinato o anche per sempre) deve essere il risultato di accordo comune di ambedue. Così si spiega il voto di castità, anche perpetua, di alcuni sposi (es. la Madonna e S. Giuseppe; S. Enrico imperatore e S. Cunegonda). Può anche darsi che si rinunci a questo diritto non per motivi nobili ma per motivi egoistici: allora l'errore, o anche il peccato, starà nella cattiva intenzione ma non nel fatto di rinunciare agli atti procreativi e quindi alla procreazione. b) Dopo la scoperta dei « tempi sterili » e « tempi fecondi » nella donna (Ogino-Knaus) e, perciò, della possibilità di usare del diritto coniugale in modo integro e completo e insieme senza fecondità (atto completo ma infecondo), ecco una nuova domanda: i coniugi che fanno uso del loro diritto coniugale sono obbligati a fare in modo di avere figli? È come domandare se c'è un dovere di fecondità per chi non rinuncia ma usa dei propri diritti coniugali. Si può rispondere di no per qualche singolo atto coniugale; ma si deve rispondere di sì se si tratta di un uso abituale dei diritti coniugali. È lecito cioè compiere qualche atto coniugale completo, quando è certo che sarà infecondo; ma usare abitualmente questo diritto solo in tempi sterili, sicché si eviti la procreazione, di per sé non è lecito (di per sé, cioè se non ci sono veri motivi scusanti come si dirà in seguito). Anche qui il vero nemico è l'egoismo. Pio XII ha insegnato chiaramente: « Il contratto matrimoniale che conferisce agli sposi il diritto di soddisfare l'inclinazione della natura, li costituisce in uno stato di vita, lo stato matrimoniale. Ora ai coniugi, che ne fanno uso con l'atto specifico del loro stato, la natura e il Creatore impongono la funzione di provvedere alla conservazione del genere umano... Quindi abbracciare lo stato matrimoniale, usare continuamente la facoltà ad esso propria e in esso solo lecita e, d'altra parte, sottrarsi sempre deliberatamente, senza un grave motivo, al suo primario dovere, sarebbe un peccare contro il senso stesso della vita coniugale » (Discorso all'Unione Cattolica Italiana Ostetriche). c) Questo dovere di fecondità nell'uso dei diritti coniugali (crescete e moltiplicatevi) è un dovere positivo e non negativo. Ora un dovere positivo, che comanda cioè di fare qualche cosa (esempio: pregate, fate elemosina, andate a Messa alla domenica) obbliga nei limiti della possibilità. Il dovere esiste, ma l'attuazione pratica può essere impedita da ragioni gravi (esempio: chi è ammalato non è tenuto alla Messa festiva). Così il dovere positivo della fecondità può essere impedito da motivi che ne rendono praticamente impossibile o inopportuno l'adempimento; e ci può quindi essere l'uso, anche abituale, dei diritti coniugali solo nei tempi sterili e perciò senza probabile fecondità (come si dirà in seguito). Dice Pio XII: « ... il matrimonio obbliga ad uno stato di vita, il quale, come conferisce certi diritti, così impone anche il compimento di un'opera positiva, riguardante lo stato stesso. In tal caso si può applicare il principio generale che una prestazione positiva può essere omessa, se gravi motivi, indipendenti dalla buona volontà di coloro che ne sono obbligati, mostrano che quella prestazione è inopportuna, o provano che non si può dal richiedente - in questo caso il genere umano - equamente pretendere » (Discorso alle Ostetriche). Mi pare utile mettere qui in evidenza come l'insegnamento di Pio XII su questo punto sia veramente rivoluzionario: non ha cioè avuto timore di rompere con la tradizione. Mentre l'insegnamento tradizionale non ammette unione coniugale o manifestazione fisica dell'amore senza l'intenzione di procreare (« è almeno peccato veniale » aveva scritto S. Agostino) Pio XII parla di possibilità di unione coniugale pur evitando volontariamente l'impegno della procreazione. Il super-popolamentoE’ facile sentir dire che « siamo in troppi », « se l'umanità cresce con questo ritmo si arriverà a morire di fame », « bisogna dunque limitare le nascite », ecc. Il problema può essere valutato da un punto di vista generale cioè mondiale e da un punto di vista familiare. Prima di accennare a questi due punti di vista giova premettere che: se l'allarme è esagerato tenendo conto delle risorse attuali o ancora sfruttabili di tutto il mondo, è un allarme vero per alcune aree « depresse e sottosviluppate e insieme sovrappopolate »; qualunque sia il rimedio che si voglia portare, non si può mai andare contro la legge di Dio chiaramente conosciuta. a) Considerando il problema dal punto di vista generale ci si può utilmente limitare all'insegnamento del papa Giovanni XXIII nella enciclica Mater et Magistra (15-V-1961). Scrive il Papa: « Su piano mondiale alcuni osservano che, secondo calcoli statistici ritenuti sufficientemente attendibili, la famiglia umana in pochi decenni attingerà cifre assai elevate, mentre lo sviluppo economico procederà con ritmo meno accelerato. Ne deducono che, qualora non si provveda in tempo a limitare il flusso demografico, lo squilibrio tra popolazioni e mezzi di sussistenza, in un futuro non lontano, si farà sentire acutamente... ...Per cui, ad evitare che si finisca in situazioni di estremo disagio, vi è chi ritiene indispensabile far ricorso a drastiche misure elusive o repressive della natalità ». E il S. Padre commenta: « A dire il vero, considerato su piano mondiale, il rapporto tra incremento demografico da una parte e sviluppo economico e disponibilità di mezzi di sussistenza dall'altra, non sembra, almeno per ora e in un avvenire prossimo, creare gravi difficoltà: in ogni caso troppo incerti ed oscillanti sono gli elementi di cui si dispone per poterne trarre conclusioni sicure... Per cui la soluzione di fondo del problema non va ricercata in espedienti che offendono l'ordine morale stabilito da Dio e intaccano le stesse sorgenti della vita umana, ma in un rinnovato impegno scientifico-tecnico da parte dell'uomo ad approfondire ed estendere il suo dominio sulla natura. I progressi già realizzati dalle scienze e dalle tecniche aprono su questa via orizzonti sconfinati ». E venendo a parlare delle aree depresse dice: « Sappiamo però che in aree determinate e nell'ambito di Comunità politiche in fase di sviluppo economico possono presentarsi e si presentano realmente gravi problemi e difficoltà, che si devono al fatto di una deficiente organizzazione economicosociale che non offre perciò mezzi di vita proporzionati al saggio di incremento demografico; come pure al fatto che la solidarietà tra i popoli non è operante in grado sufficiente ». E il Santo Padre conclude: « Con tristezza rileviamo che una delle contraddizioni più sconcertanti da cui è tormentata e in cui si logora la nostra epoca è che, mentre da una parte si mettono in accentuato rilievo le situazioni di disagio e si fa balenare lo spettro della miseria e della fame, dall'altra si utilizzano, e spesso largamente, le scoperte della scienza, le realizzazioni della tecnica e le risorse economiche per creare terribili strumenti di rovina e di morte ». Dunque anche per le aree depresse il problema è specialmente di organizzazione sociale, politica ed economica. Il basso livello di vita in quelle popolazioni non è dovuto solo all'alta natalità ma anche alla bassa produzione. Si tratta quindi sia di diminuire le nascite in modo responsabile, sia di aumentare la produzione e il benessere mediante una giusta organizzazione sociale ed una politica economica adeguata ai bisogni, sia di diminuire le spese per gli armamenti. È certo più facile, specialmente per certe classi dirigenti, attribuire la causa della miseria all'incremento demografico e non invece all'inefficienza dello Stato o all'egoismo delle classi dirigenti stesse. Un passo avanti però è stato fatto nell'insegnamento della Chiesa a questo proposito: il Concilio infatti, pur riservando ai coniugi la responsabilità della decisione, ammette che le popolazioni debbano essere opportunamente istruite anche riguardo alla regolazione delle nascite. Dice il Concilio: « Infatti in virtù del diritto inalienabile dell'uomo al matrimonio e alla generazione della prole, la decisione circa il numero dei figli da mettere al mondo dipende dal retto giudizio dei genitori e non può in alcun modo essere lasciata alla direzione dell'autorità pubblica. Ma poiché questo giudizio dei genitori suppone una coscienza ben formata, è di grande importanza dare a tutti il modo di educarsi a una retta responsabilità, quale veramente conviene a uomini, nel rispetto della legge divina e tenendo conto delle circostanze. Tutto ciò esige un po' dappertutto un miglioramento dei mezzi educativi e delle condizioni sociali, e soprattutto una formazione religiosa o almeno una solida formazione morale. Le popolazioni poi siano giudiziosamente informate sui progressi della scienza nella ricerca di quei metodi, che potranno aiutare i coniugi in materia di regolazione delle nascite, una volta che sia ben stabilito il valore di questi metodi e accertato il loro accordo con la legge morale » (Gaudium et spes, n. 87). E in modo nuovo e più esplicito Paolo VI riconosce allo Stato il diritto di intervenire: « È certo che i poteri pubblici, nell'ambito della loro competenza, possono intervenire, mediante la diffusione di una appropriata informazione e l'adozione di misure opportune » purché non opposte alla legge morale e alla giusta libertà dei coniugi (enciclica Populorum progressio del 26 marzo 1967, n. 37). Anche in una politica demografica, la scelta del numero dei figli è di sola spettanza degli sposi. Solo gli sposi, tenendo di mira il bene anche della comunità nazionale, possono lasciarsi illuminare da una onesta scienza demografica e decidere in merito secondo coscienza ed onestà (cfr. Goffi, Morale familiare, pag. 142).