Vuoi giocare?

La Bohème 1/4


Lavorando ormai da anni a stretto contatto col mondo della musica lirica (non l’avreste mai detto eh!? Dite la verità, pensavate che caustica fosse una fancazzista che passava le sue giornate vagando disperatamente da un blog all’altro) mi sono convinta che i compositori e/o librettisti fossero dei misogini perché alla fine, la storia puoi girarla come vuoi ma è alle donne che tocca il destino più sfigato: muoino sempre loro. Qualce autore, cercando di mascherare la sua misoginia con una parvenza di politicamente corretto, in alcune opere fa morire anche il protagonista maschile, ma si può esser certi che a stretto giro lo seguirà anche lei, suicidandosi il più delle volte.Insomma, mai – o quasi mai – che muoia solo lui e lei finisca per festeggiare con ostriche e champagne l’inizio di una vita fatta solo di gioie da mane a sera e allegre scopazzate di qua e di là. E poi tutte ‘ste tragedie, questi amori incompresi, questi tradimenti… Ebbbasta! Non se ne può più.Mi permetto di metter mano a questi intoccabbili capolavori, per rivisitarne l'andazzo.Si comincia con La Bohème* Quadro I: In soffitta.Parigi 1830, vigilia di Natale. Il pittore Marcello (passato alla storia per aver dipinto quel famoso ritratto dell’ubriacone al bar che Greggio tentava di vendere all’asta ogni domenica sera durante la trasmissione Drive In, attribuendolo erroneamente a Teomondo Scrofalo) e il poeta Rodolfo cercano di scaldarsi davanti ad un caminetto. Vivono in povertà e per alimentare il fuoco dispongono solo di qualche ciocco di legno. Ad un tratto Marcello esclama: “Ma guarda quanta carta c’è sul tavolo! Potremmo usarla per tener viva la fiamma!”, senza pensarci due volte si avventa sul plico e comincia a buttare i fogli nella bocca del camino. Solo che non si accorge che sta bruciando l’ultimo lavoro di Rodolfo, finito di ricopiare in bella copia la mattina stessa, pronto per esser consegnato all’editore subito dopo le feste. Il poeta s’avvede troppo tardi dell’incauto gesto dell’amico e fa appena in tempo a strappargli di mano gli ultimi tre fogli del suo scritto, ma ormai il lavoro che poteva portargli fama e ricchezza è andato perso e quindi dovrà rassegnarsi a vivere come un mentecatto per il resto dei suoi giorni. Pensando a tutto ciò, fa per scagliarsi su Marcello con l’intento di strappargli tutti i peli dal corpo per ricuciglierli poi dalla parte interna della pelle, ma nel mentre sopraggiugono altri due amici: il filosofo Colline (a cui dobbiamo la celebre massima “Siamo tutti signori col culo degli altri”) ed il musicista Schaunard (compositore del jingle-tormentone “Brava brava Mariarosa ogni cosa sai far tu. Qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu”). In particolare quest’ultimo è su di giri: la Bertolini ha appena dato l’ok per il suo jingle e ciò gli frutterà un fracco di guadagno, così per festeggiare ha pensato bene di ordinare al kebab sotto casa quintalate di carne e patatatine fritte, da offrire ai compagni di merende in modo da festeggiare degnamente il Natale. Per sovramercato ha portato anche tredici casse di spumante Cinzano, sei damigiane di Rosso di Montalcino, otto bottiglie di whiskey scozzese e una bottiglia di digestivo Antonetto, tanto per favorire il ruttino a fine pasto. Davanti a tanta abbondanza il malumore di Rodolfo svanisce, si prepara la tavola e comincia la festa. La baracca è interrotta dall’inaspettata visita di Benoît, padrone di casa incazzato come una faina perché è da tre mesi che Rodolfo non gli paga l’affitto e sua moglie non gliela smolla. I quattro amici si liberano di lui con uno stratagemma: da una delle casse di champagne sbucano fuori le ragazze coccodé, le letterine e le veline che circondano l’incredulo BenoÎt, il quale non capisce più una fava, rincretinito da tanto ben di dio e, dimentico della riscossione crediti, si getta a capofitto tra le abbondanti tette delle fanciulle (ne morità poi soffocato un quarto d’ora dopo). Risolto il problema i bohèmiens decidono di recarsi al Caffè Momus, anche perché le scorte alcoliche si stanno esaurendo. Rodolfo si attarda un po’ in casa, con la scusa di soffrire di un lieve attacco di cagarella, e promette che li raggiungerà appena il suo pancino si sarà sgolfato. In realtà vuole nascondere i tre fogli del manoscritto scampati al falò improvvisato da Marcello. **Rimasto solo, sente bussare alla porta. “Merda!” pensa “possibile che i venditori di robot da cucina lavorino anche la sera della vigilia?” e urla “Non compro niente!”, ma dall’altra parte dell’uscio risponde una voce femminile, che chiede di poter entrare.È Mimì, giovane vicina di casa più in miseria di lui: le si è spento il lume e cerca una candela per poterla riaccendere. Rodolfo è incantato – e pure un po’ infoiato - dalla bellezza della ragazza e pensa tra sé e sé, facendola accomodare: “Adesso ci penso io a dartela, la candela!”.Riaccendono il lume ma subito dopo Mimì accusa un mancamento: la colpa è del fetore proveniente dalle ascelle di Rodolfo, ma lei - un po’ per diplomazia e un po’ per calcolo (teme che dicendogli la verità lui si rifiuti di prestarle la candela un’altra volta, in caso ne avesse bisogno) - si giustifca spiegandogli che gli svenimenti sono i primi sintomi di una tisi conclamata. Per sottrarsi all’insopportabile olezzo, gioca la carta delle buone maniere, dicendo a Rodolfo che non vuole incomodarlo troppo, che sicuramente avrà da fare, ecc ecc, quando si accorge di aver  perso la chiave nella stanza e pensa: “Cazzo, me ne andasse bene una stasera!”. Inginocchiati sul pavimento, al buio - entrambi i lumi si sono spenti - i due iniziano a cercarla. O meglio, Mimì si mette di buona lena a cercar la chiave mentre Rodolfo – che l’ha già trovata ma la nasconde in tasca - approfittando dell’oscurità, cerca di prendere la fanciulla da dietro per inchiappettarla a tradimento. Ma gli va male e invece di palparle il culo, le sfiora la mano.Al che, per salvare le apparenze, mormora: “Che gelida manina, se la lasci riscaldar…”.Lei pensa: “Che palle! Vabbè, qui con la diplomazia non risolvo nulla, meglio essere onesta!” e risponde: “Basta che tu non lo faccia con una puzzetta”.Rodolfo resta affascinanto di fronte a tanta sincerità e le chiede di parlargli di lei. Mimì comincia: “Mi chiamano Mimì, ma il mio nome e Domenicarosariandreagiuseppina. La mia storia è breve. Faccio le pugnette in casa e fuori…”E a Rodolfo già s’illumina lo sguardo suino.“Cos’hai capito, brutto porco? Intendo dire che faccio la sarta e ricamo all’uncinetto le presine da cucina, che nel mio paese d’orgine vengono chiamate, appunto, pugnette. Amo il profumo dei gigli e delle rose (chissà se capirà  il sottile messaggio subliminale che gli sto inviando). Mi preparo il pranzo da sola, pure la colazione e la cena e di solito non pulisco il water. Non vado sempre a messa perché il prete mi ha scomunicata da quando ha scoperto che mi faccio il segno della croce al contrario, ma prego assai il Signore. Vivo sola soletta, là in una bianca cameretta. Guardo sui tetti e in cielo, ma quando vien lo sgelo il primo sole è mio, il primo bacio dell’aprile è mio!... E pure la prima cacca dei piccioni dal momento che son così povera da non potermi permettere di montare il vetro nella finestra dell’abbaino. Altro di me non saprei cosa narrare. Sono la tua vicina che ti vien in così tarda ora ad importunare.”In quel mentre gli amici vengono a reclamare Rodolfo e dalla strada sale il loro richiamo: “Eddai scoreggiò! Ancora non hai finito? Forza che è ora di andare a puttane al Moulin Rouge!”.Rodolfo, ormai perdutamente invaghito della giovane, le chiede di unirsi alla compagnia e lei: “Va bene, basta che prima ti lavi le ascelle.” Lui l’accontenta e tanto basta affinché anche Mimì s’innamori del poeta. (Poi dicono che che le donne sono difficili da accontentare!)*Nota 1: per chi non la conoscesse e fosse interessato alla versione originale di Puccini, si cerchi la sinopsi in internet, che io non c’ho mica voglia di mettere il link.**Nota 2: dalla nottata di baldoria che segue Rodolfo esce talmente ribaltato che non si ricorda più dove ha nascosto gli ultimi tre fogli del manoscritto. Il prezioso lavoro cade nel dimenticaio e verrà ritrovato solo un secolo dopo, in una cantina di Boston, da certa Joanne Rowling, che, aggiornando lo stile e ampliando il racconto, darà alla luce il primo romanzo della saga di Harry Potter, che le procuerà così tanti soldi che al suo confronto il sultano del Brunei sembra un extracomuntario che lava i vetri delle macchine ferme ai semafori.