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Post n°104 pubblicato il 20 Giugno 2009 da vocazionilecce
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 19 giugno 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'omelia che Benedetto XVI ha pronunciato nella Basilica vaticana questo venerdì pomeriggio, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, presiedendo la celebrazione dei secondi Vespri della solennità in occasione dell'apertura dell'Anno Sacerdotale. * * * Cari fratelli e sorelle, nell'antifona al Magnificat tra poco canteremo: "Il Signore ci ha accolti nel suo cuore -Suscepit nos Dominus in sinum et cor suum". Nell'Antico Testamento si parla 26 volte del cuore di Dio, considerato come l'organo della sua volontà: rispetto al cuore di Dio l'uomo viene giudicato. A causa del dolore che il suo cuore prova per i peccati dell'uomo, Iddio decide il diluvio, ma poi si commuove dinanzi alla debolezza umana e perdona. C'è poi un passo veterotestamentario nel quale il tema del cuore di Dio si trova espresso in modo assolutamente chiaro: è nel capitolo 11 del libro del profeta Osea, dove i primi versetti descrivono la dimensione dell'amore con cui il Signore si è rivolto ad Israele all'alba della sua storia: "Quando Israele era fanciullo, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (v. 1). In verità, all'instancabile predilezione divina, Israele risponde con indifferenza e addirittura con ingratitudine. "Più li chiamavo - è costretto a constatare il Signore -, più si allontanavano da me" (v. 2). Tuttavia Egli mai abbandona Israele nelle mani dei nemici, perché, cosí dice il versetto 8, "il mio cuore - osserva il Creatore dell'universo - si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione". Il cuore di Dio freme di compassione! Nell'odierna solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore sull'umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione di Dio per l'uomo. Egli non si arrende dinanzi all'ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel mondo l'Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il destino dell'amore distrutto; perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine" (cfr Gv 13,1). Simbolo di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone oculare, l'apostolo Giovanni, afferma: "Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua" (cfr Gv 19,34). Cari fratelli e sorelle, grazie perché, rispondendo al mio invito, siete venuti numerosi a questa celebrazione con cui entriamo nell'Anno Sacerdotale. Saluto i Signori Cardinali e i Vescovi, in particolare il Cardinale Prefetto e il Segretario della Congregazione per il Clero con i loro collaboratori, ed il Vescovo di Ars. Saluto i sacerdoti e i seminaristi dei vari seminari e collegi di Roma; i religiosi e le religiose e tutti i fedeli. Un saluto speciale rivolgo a Sua Beatitudine Ignace Youssef Younan, Patriarca di Antiochia dei Siri, venuto a Roma per incontrarmi e significare pubblicamente l'"ecclesiastica communio" che gli ho concesso. Cari fratelli e sorelle, fermiamoci insieme a contemplare il Cuore trafitto del Crocifisso. Abbiamo ascoltato ancora una volta, poco fa, nella breve lettura tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini, che "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù" (Ef 2,4-6). Essere in Cristo Gesù è già sedere nei Cieli. Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo: l'Amore che ci salva e ci fa vivere già nell'eternità di Dio. Scrive l'evangelista Giovanni: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (3,16). Il suo Cuore divino chiama allora il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e, seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di amore senza riserve. Se è vero che l'invito di Gesù a "rimanere nel suo amore" (cfr Gv 15,9) è per ogni battezzato, nella festa del Sacro Cuore di Gesù, Giornata di santificazione sacerdotale, tale invito risuona con maggiore forza per noi sacerdoti, in particolare questa sera, solenne inizio dell'Anno Sacerdotale, da me voluto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars. Mi viene subito alla mente una sua bella e commovente affermazione, riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica dove dice: "Il sacerdozio è l'amore del Cuore di Gesù" (n. 1589). Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale? Come dimenticare che noi presbiteri siamo stati consacrati per servire,umilmente e autorevolmente, il sacerdozio comune dei fedeli? La nostra è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che domanda fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; esige cioè che tendiamo costantemente alla santità come ha fatto san Giovanni Maria Vianney. Nella Lettera a voi indirizzata per questo speciale anno giubilare, cari fratelli sacerdoti, ho voluto porre in luce alcuni aspetti qualificanti del nostro ministero, facendo riferimento all'esempio e all'insegnamento del Santo Curato di Ars, modello e protettore di tutti i sacerdoti, e in particolare dei parroci. Che questo mio scritto vi sia di aiuto e di incoraggiamento a fare di questo anno un'occasione propizia per crescere nell'intimità con Gesù, che conta su di noi, suoi ministri, per diffondere e consolidare il suo Regno, per diffondere il suo amore, la sua verità. E pertanto, "sull'esempio del Santo Curato d'Ars - così concludevo la mia Lettera - lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace". Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l'Anno Paolino che si avvia ormai verso la sua conclusione; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d'Ars, che invocheremo particolarmente durante l'Anno Sacerdotale; questo sia anche l'obiettivo principale di ognuno di noi. Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione pastorale, ma è ancor più necessaria quella "scienza dell'amore" che si apprende solo nel "cuore a cuore" con Cristo. E' Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell'Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce. Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso "disegno del Padre" che consiste nel "fare di Cristo il cuore del mondo"! Disegno che si realizza nella storia, man mano che Gesù diviene il Cuore dei cuori umani, iniziando da coloro che sono chiamati a stargli più vicini, i sacerdoti appunto. Ci richiamano a questo costante impegno le "promesse sacerdotali", che abbiamo pronunciato il giorno della nostra Ordinazione e che rinnoviamo ogni anno, il Giovedì Santo, nella Messa Crismale. Perfino le nostre carenze, i nostri limiti e debolezze devono ricondurci al Cuore di Gesù. Se infatti è vero che i peccatori, contemplandoLo, devono apprendere da Lui il necessario "dolore dei peccati" che li riconduca al Padre, questo vale ancor più per i sacri ministri. Come dimenticare, in proposito, che nulla fa soffrire tanto la Chiesa, Corpo di Cristo, quanto i peccati dei suoi pastori, soprattutto di quelli che si tramutano in "ladri delle pecore" (Gv 10,1ss), o perché le deviano con le loro private dottrine, o perché le stringono con lacci di peccato e di morte? Anche per noi, cari sacerdoti, vale il richiamo alla conversione e al ricorso alla Divina Misericordia, e ugualmente dobbiamo rivolgere con umiltà l'accorata e incessante domanda al Cuore di Gesù perché ci preservi dal terribile rischio di danneggiare coloro che siamo tenuti a salvare. Poc'anzi ho potuto venerare, nella Cappella del Coro, la reliquia del Santo Curato d'Ars: il suo cuore. Un cuore infiammato di amore divino, che si commuoveva al pensiero della dignità del prete e parlava ai fedeli con accenti toccanti e sublimi, affermando che "dopo Dio, il sacerdote è tutto! ... Lui stesso non si capirà bene che in cielo" (cfr Lettera per l'Anno Sacerdotale, p. 2). Coltiviamo, cari fratelli, questa stessa commozione, sia per adempiere il nostro ministero con generosità e dedizione, sia per custodire nell'anima un vero "timore di Dio": il timore di poter privare di tanto bene, per nostra negligenza o colpa, le anime che ci sono affidate, o di poterle - Dio non voglia! - danneggiare. La Chiesa ha bisogno di sacerdoti santi; di ministri che aiutino i fedeli a sperimentare l'amore misericordioso del Signore e ne siano convinti testimoni. Nell'adorazione eucaristica, che seguirà la celebrazione dei Vespri, chiederemo al Signore che infiammi il cuore di ogni presbitero di quella "carità pastorale" capace di assimilare il suo personale "io" a quello di Gesù Sacerdote, così da poterlo imitare nella più completa auto-donazione. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre, della quale domani contempleremo con viva fede il Cuore Immacolato. Per Lei il Santo Curato d'Ars nutriva una filiale devozione, tanto che nel 1836, in anticipo sulla proclamazione del Dogma dell'Immacolata Concezione, aveva già consacrato la sua parrocchia a Maria "concepita senza peccato". E mantenne l'abitudine di rinnovare spesso quest'offerta della parrocchia alla Santa Vergine, insegnando ai fedeli che "bastava rivolgersi a lei per essere esauditi", per il semplice motivo che ella "desidera soprattutto di vederci felici". Ci accompagni la Vergine Santa, nostra Madre, nell'Anno Sacerdotale che oggi iniziamo, perché possiamo essere guide salde e illuminate per i fedeli che il Signore affida alle nostre cure pastorali. Amen! |
Lettera del Papa ai presbiteri per l’apertura dell’ "Anno Sacerdotale" Cari fratelli nel Sacerdozio, nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo. Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati? Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue? Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”. Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”. E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo”. Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi”. Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa preghiera che iniziò la sua missione. Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia. L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui. Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”. È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi”. Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia. “Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”. Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui... “È vero che non ne siete degni, mane avete bisogno!”. Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente”. “Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio», diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”. Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”. Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”. “La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”. Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”. Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”. A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”, diceva. “Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”. Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!”. E insegnava loro a pregare: “Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”. Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore:Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che l’anima si intorpidisce”; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote: “Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto”. Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva, resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione. Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”. Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli. Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclicaSacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana”. Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”. Spiegava: “Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente”. Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri”. Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!”. Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato. Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”. Solo l’obbedienza e la passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito”. La regola d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio”. Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”. A questo proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza”. Tali doni che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire “un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”. Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva. Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo. L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana? Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”. Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”. Alla Vergine Santissima affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace! Con la mia benedizione. Dal Vaticano, 16 giugno 2009 BENEDICTUS PP. XVI |
Post n°102 pubblicato il 02 Giugno 2009 da vocazionilecce
ROMA, sabato, 30 maggio 2009 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo la presentazione di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l'annuncio e la catechesi, alla "Lettera ai cercatori di Dio" preparata per iniziativa di questa Commissione della Conferenza Episcopale Italiana.
* * * Di fronte al cambiamento culturale in atto anche in Italia e agli scenari diffusi della cosiddetta “modernità liquida” (Zygmunt Bauman), nella quale “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’”, in quanto “ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro” (ib.), appare sempre più necessario far risuonare il “kérygma”, centro e cuore del messaggio cristiano, e non dare per scontata la trasmissione della fede. L’urgenza del “primo annuncio” – più volte sottolineata nei documenti della CEI di questi anni[1] – appare ancor più attuale se si guarda al contesto immediato, caratterizzato dalla sfida del pluralismo religioso in aumento nel Paese, dalla crescita dell’indifferenza e di una certa ostilità antireligiosa (si pensi ai recenti “pamphlets” di apologia dell’ateismo), dalle domande diffuse dei non credenti in ricerca. Nella stessa comunità ecclesiale aumenta la consapevolezza che la Chiesa tanto più e meglio evangelizza, quanto più si lascia continuamente evangelizzare. È di fronte a questo quadro che la Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, nell’attuale quinquennio ha lavorato a questa Lettera ai cercatori di Dio, intesa come un sussidio offerto a chiunque voglia farne oggetto di lettura personale e come un punto di partenza per dialoghi destinati al primo annuncio, all’interno di un itinerario che possa introdurre all’esperienza della vita cristiana nella Chiesa. Il Consiglio Episcopale Permanente ne ha approvato all’unanimità la pubblicazione nella sessione del 22-25 settembre 2008 ed è stata presentata ai Vescovi italiani nell’Assemblea di fine Maggio 2009. Frutto di un lavoro collegiale che ha coinvolto - oltre che vescovi - teologi, filosofi, pastoralisti, catecheti ed esperti di scienze umane e di comunicazione, la Lettera si rivolge ai “cercatori di Dio”, a tutti coloro, cioè, che cercano il volto del Dio vivente. Lo sono i credenti, che crescono nella conoscenza della fede proprio a partire da domande sempre nuove, e quanti - pur non credendo - avvertono la profondità degli interrogativi su Dio e sulle cose ultime. La Lettera vorrebbe suscitare attenzione e interesse anche in chi non si sente in ricerca, nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti. L’auspicio è che questo testo - anche per il suo stile colloquiale e il linguaggio semplice e diretto - possa avere una diffusione ampia, sostenuta dall’impegno di evangelizzazione delle Diocesi e delle aggregazioni ecclesiali, oltre che dei singoli pastori, dei catechisti, dei docenti di religione e di quanti desiderano conoscere e far conoscere il messaggio cristiano. Il testo ha un impianto “fondamentale”, parte cioè da alcune domande diffuse, per poi proporre l’annuncio della fede e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo? Esso non intende dire tutto: vuole piuttosto suggerire, evocare, attrarre a un successivo approfondimento. Si tratta di un invito a riflettere insieme sulle domande che ci uniscono (parte I); di una testimonianza, tesa a rendere ragione della speranza che è in noi (parte II); di una proposta fatta a chi cerca la via di un incontro possibile con il Dio di Gesù Cristo (parte III). Ne emerge il volto di una Chiesa amica, che si fa vicina alle domande del cuore, come a quelle del tempo, dialoga con chi è in ricerca e si propone di “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi... con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”, a partire dalla adorazione del Signore Gesù nei nostri cuori (1 Pt 3,15-16). Lo Spirito del Risorto, esegeta del Verbo nel cammino della Sua Chiesa, renda feconda questa Lettera nel cuore di quanti potranno in qualunque modo utilizzarla[2].
1) Cf. ad esempio i documenti CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia(2001), n. 57, e Il volto missionario delle Parrocchie in un mondo che cambia (2003), n. 6. Cf. poi le tre Note del Consiglio Permanente dedicate all’iniziazione cristiana (1997; 1999; 2003), e il testo della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo (2005), su finalità, contenuto, linguaggi , soggetto e metodo del primo annuncio. Il capitolo terzo di questa Nota offre anche un’esemplificazione del primo annuncio della fede. 2) Del testo sono uscite già varie edizioni: San Paolo, Paoline, Dehoniane, LDC, in forme grafiche e costi differenti. |
(da www.zenit.org) Intervista al prefetto della Congregazione per il Clerodi Carmen Elena Villa CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).- L'Anno Sacerdotale che Benedetto XVI ha convocato dal 19 giugno in occasione del 150° anniversario della morte di San Giovanni Maria Vianney, il santo Curato di Ars, cerca di mostrare ai sacerdoti l'amore che la Chiesa prova per loro. Lo spiega in questa intervista concessa a ZENIT il Cardinale Cláudio Hummes, O.F.M., prefetto della Congregazione per il Clero, ex Arcivescovo di San Paolo (Brasile). Qual è l'obiettivo principale dell'Anno Sacerdotale? Card. Cláudio Hummes: Innanzitutto la circostanza. Sarà un anno giubilare per i 150 anni della morte di San Giovanni Maria Vianney, il santo Curato di Ars. Questa è l'occasione, ma il motivo fondamentale è che il Papa vuole dare ai sacerdoti un'importanza speciale e dire quanto il Pontefice li ami e li voglia aiutare a vivere con gioia e fervore la loro vocazione e missione. Vuole soprattutto questo, in un momento in cui c'è una grande espansione di una nuova cultura. Oggi domina la cultura postmoderna, relativista, urbana, pluralista, secolarizzata, laicista, in cui i sacerdoti devono vivere la loro vocazione e la loro missione. La sfida è capire come essere sacerdote in questo nuovo momento, non per condannare il mondo ma per salvarlo, come Gesù ha detto di non essere venuto per condannare il mondo ma appunto per salvarlo. Il sacerdote deve fare questo di cuore, con molta apertura, senza demonizzare la società. Deve essere inserito in essa, ma con quella gioia missionaria di voler portare la gente a Gesù Cristo. Bisogna dare un'opportunità perché tutti preghino con i sacerdoti per i sacerdoti, convocare i sacerdoti a pregare, farlo il meglio possibile nella società attuale ed eventualmente prendere delle iniziative affinché i sacerdoti abbiano migliori condizioni per vivere la loro vocazione e la missione. E' un anno positivo e propositivo. Non si tratta prima di tutto di correggere i sacerdoti. Ci sono dei problemi che devono essere corretti e la Chiesa non può chiudere gli occhi, ma sappiamo che la stragrande maggioranza dei sacerdoti ha grande dignità e aderisce al suo ministero e alla sua vocazione. Danno la vita per questa vocazione che hanno accettato liberamente. Purtroppo ci sono i problemi che abbiamo sentito tanto negli ultimi anni, relativi alla pedofilia e ad altri delitti gravi sessuali, ma forse arrivano a riguardare il 4% del clero. La Chiesa vuole dire al restante 96% che siamo orgogliosi di loro e che sono uomini di Dio, che vogliamo aiutarli e riconoscere tutto quello che fanno come testimonianza di vita. È anche un momento opportuno per intensificare e approfondire la questione di come essere sacerdote in questo mondo che cambia e che Dio ci ha posto avanti per salvare. Perché il Papa ha presentato San Giovanni Maria Vianney come modello per i sacerdoti? Card. Cláudio Hummes: Perché lui da moltissimo tempo è il patrono dei parroci. Fa parte del mondo del presbitero. Vogliamo presentare questo sacerdote, ma anche stimolare varie Nazioni, Conferenze Episcopali e Chiese locali a scegliere qualche sacerdote esemplare della loro area e a presentarlo ai sacerdoti e al mondo. Chiediamo di presentare uomini e sacerdoti che siano veramente modelli ispiratori, che possano dare e rinnovare la convinzione del grande valore e dell'importanza del ministero sacerdotale. Per lei come sacerdote, qual è l'aspetto più bello di questa vocazione? Card. Cláudio Hummes: Questa domanda mi riporta alla mente San Francesco d'Assisi, che una volta ha detto: “Se incontrassi per strada un sacerdote e un angelo, saluterei prima il sacerdote e poi l'angelo. Perché? Perché è il sacerdote che ci dà Cristo nell'Eucaristia”. Questa è la cosa più fondamentale e meravigliosa: il sacerdote ha il dono e la grazia di Dio di essere ministro di questo grande mistero dell'Eucaristia. Il sacerdozio è stato istituito da Gesù Cristo nel momento dell'Ultima Cena, quando ha detto: “Fate questo in memoria di me”. Agli apostoli è stato dato il comandamento e anche il potere di fare questo, di fare lo stesso che Gesù ha fatto nell'Ultima Cena. E questi apostoli hanno a loro volta trasmesso questo ministero e questo potere divino agli uomini che sono i Vescovi e i sacerdoti. Questa è la cosa più importante e centrale. L'Eucaristia è il centro della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II ha detto che la Chiesa vive dell'Eucaristia. Il sacerdote è il ministro di questo grande sacramento e memoriale della morte di Gesù. C'è poi il sacramento della riconciliazione. Gesù è venuto per riconciliare il mondo con Dio e gli esseri umani fra loro. Ha dato lo Spirito Santo agli apostoli soffiando su di loro. Ha dato agli apostoli in nome di Dio e suo quello che Lui aveva acquistato con il suo sangue e la sua vita sulla croce, trasformando la violenza in un atto d'amore per il perdono dei peccati. E dice agli apostoli che saranno i ministri in questo perdono. Questo è fondamentale per tutti. Ognuno vuole essere perdonato dei suoi peccati, stare in pace con Dio e con gli altri. Il mistero della riconciliazione è molto importante nella vita del sacerdote. Ci sono poi tante altre azioni come l'evangelizzazione, l'annunzio della persona di Gesù Cristo morto e risorto, del suo Regno. Il mondo ha diritto di sapere e conoscere Gesù Cristo e tutto quello che significa il suo Regno. Questo è un ministero specifico anche del sacerdote, che lo condivide con il Vescovo e con i laici che annunciano la Parola e devono portare la gente a un incontro forte e personale con Gesù Cristo. Quali crede che siano le difficoltà maggiori e le nuove sfide che affrontano oggi i giovani che pensano alla vocazione? Card. Cláudio Hummes: Voglio ripetere che non dobbiamo demonizzare la cultura attuale, che si diffonde sempre più e diventa una cultura dominante in tutto il mondo nonostante la presenza di altre culture. Questa nuova cultura non vuole essere più né religiosa né cristiana. Vuole essere laica e rifiuta e vuole rifiutare qualsiasi ingerenza religiosa. Gli adolescenti e i giovani si trovano in questa nuova situazione, diversa da quella che abbiamo vissuto noi, che siamo nati in una cultura molto religiosa e che si riconosceva come cristiana e cattolica. Attualmente non è più così. Credo che per gli adolescenti e i giovani sia realmente più difficile avere il coraggio di accettare un invito di Dio che nasce dentro di loro. Rispondere è oggi più complicato perché la società non valorizza più il sacerdozio. Un lavoro di fede e di evangelizzazione sarà però una possibilità perché Dio dà sempre tutte le grazie quando chiama per questo. La parrocchia deve offrire ai giovani e agli adolescenti l'opportunità di parlare di quello che sentono nel cuore, di questa chiamata, perché se non hanno la possibilità di parlare con qualcuno di cui si fidano non parleranno con nessuno e a poco a poco questa voce sparirà. E' qui che entra in gioco la pastorale vocazionale, di cui oggi abbiamo veramente bisogno. Una parrocchia ben organizzata è capace di andare dai giovani e dagli adolescenti dando loro l'opportunità di parlare della chiamata che sentono in loro. Anche le preghiere per le vocazioni sono oggi ancor più importanti che in passato. Forse il numero dei candidati al sacerdozio diminuisce anche perché le famiglie sono più ridotte. Hanno pochi figli o nessuno, il che rende tutto più difficile. Il numero dei sacerdoti in vari Paesi è diminuito molto. Seguiamo questa situazione con grandissima preoccupazione. Come dev'essere secondo lei la formazione di un seminarista negli ambiti spirituale, intellettuale, pastorale e liturgico? Quali aspetti non possono mancare? Card. Cláudio Hummes: La Chiesa parla di quattro dimensioni su cui bisogna lavorare con i candidati: in primo luogo la dimensione umana, affettiva – tutta la questione della persona, della natura, della dignità e della maturazione affettiva normale. Questo è importante perché è una base. C'è poi la dimensione spirituale. Oggi ci troviamo davanti a una cultura che non è più cristiana né religiosa, ed è tanto più necessario di sviluppare la spiritualità nei candidati. Poi c'è la dimensione intellettuale. Bisogna fare scuola di filosofia e di teologia affinché i candidati siano capaci di parlare e di annunziare oggi Gesù Cristo e il suo messaggio, di modo che emerga tutta la ricchezza del dialogo fra fede e ragione umana. Dio è il logos di tutte le cose è Gesù Cristo è la spiegazione di tutto. Poi, ovviamente, c'è la dimensione dell'apostolato, cioè bisogna preparare i candidati ad essere pastori nei mondi di oggi. In questo ambito pastorale oggi è molto importante la missionarietà, cioè i sacerdoti devono avere non soltanto una preparazione, ma anche uno stimolo forte a non limitarsi a ricevere e offrire il servizio a chi viene da loro, ma ad andare essi stessi dalle persone, soprattutto da quei battezzati che si sono allontanati perché non sono stati sufficientemente evangelizzati e che hanno il diritto di essere evangelizzati perché noi abbiamo promesso di portare Gesù Cristo, di educare nella fede. Questo tantissime volte non è stato fatto, o è stato fatto molto poco. Il sacerdote deve andare in missione e preparare la sua comunità affinché vada ad annunziare Gesù Cristo alla gente, almeno a quelli che sono nel territorio della parrocchia, ma anche al di là di essa. Oggi questa dimensione missionaria è molto importante. È il discepolo che diventa missionario con la sua adesione entusiasta, gioiosa, capace di investire incondizionatamente tutta la vita in Gesù Cristo. Dobbiamo essere come i discepoli: ferventi, missionari, gioiosi, sono questi la chiave e il segreto. Quali sono le attività speciali che si svolgeranno in questo anno sia per i ragazzi che per i sacerdoti? Card. Cláudio Hummes: Vi saranno iniziative nell'ambito della Chiesa universale, ma l'Anno Sacerdotale deve essere celebrato anche a livello locale, nelle Diocesi, nelle parrocchie, perché i sacerdoti sono i ministri del popolo e devono quindi coinvolgere le comunità. Le Diocesi devono intraprendere iniziative sia di approfondimento che di celebrazione per portare ai sacerdoti il messaggio che la Chiesa li ama, li rispetta, li ammira, è orgogliosa di loro. Il Papa aprirà l'Anno Sacerdotale il 19 giugno, nella festa del Sacro Cuore di Gesù, perché è il giorno mondiale per la santificazione dei sacerdoti. Ci saranno i Vespri nella Basilica vaticana e saranno presenti le reliquie del Curato di Ars. Il suo cuore sarà nella Basilica, segno dell'importanza che il Papa vuole dare ai sacerdoti. Speriamo che moltissimi presbiteri siano presenti. La chiusura avverrà un anno dopo. Si deve ancora definire la data del grande incontro del Papa con i sacerdoti, al quale saranno invitate tutte le Diocesi. Ci saranno anche numerose altre iniziative. Stiamo pensando a un convegno teologico internazionale nei giorni precedenti la chiusura, e ci saranno degli esercizi spirituali. Speriamo anche di poter coinvolgere le università cattoliche perché approfondiscano il senso del sacerdozio, la teologia del sacerdozio e tutti i temi importanti per i sacerdoti. Come può un sacerdote rimanere fedele alla sua vocazione in questo secolo così antireligioso? Card. Cláudio Hummes: Prima di tutto la Chiesa attraverso i suoi seminari e i formatori deve fare una selezione molto rigorosa dei candidati. Serve poi una buona formazione nella dimensione umana, intellettuale, spirituale, pastorale, missionaria. E' fondamentale ricordare che il sacerdote è il discepolo di Gesù Cristo ed essere sicuri che abbia avuto un incontro personale e comunitario forte con Gesù, in cui abbia veramente aderito a Lui. Ogni Eucaristia può essere un momento molto forte di questo incontro, ma lo stesso vale per la lettura della Parola di Dio. Come diceva Giovanni Paolo II, ci sono tante opportunità per testimoniare l' incontro con Gesù Cristo. E' fondamentale essere un missionario capace di rinnovare lo slancio sacerdotale e di sentirsi gioioso e convinto della sua missione e del fatto che questa ha un senso fondamentale per la Chiesa e per il mondo. Dico sempre che il sacerdote non è importante solo per l'aspetto religioso all'interno della Chiesa. Svolge anche un enorme lavoro nella società perché promuove i grandi valori umani: la solidarietà, la carità, l'attenzione ai diritti umani. Credo che dobbiamo aiutare a vivere questa vocazione con gioia, con molta lucidità e anche con il cuore, perché i sacerdoti siano felici, visto che si può essere felici nel sacrificio e nella stanchezza. L'essere felici non è in contraddizione con la sofferenza: Gesù sulla croce non era infelice. Soffriva tremendamente, ma era felice perché sapeva che lo faceva per amore e che tutto aveva un senso fondamentale per la salvezza del mondo. Era un gesto di fedeltà al Padre. Quali altri santi crede che possano essere un modello per i sacerdoti di oggi? Card. Cláudio Hummes: Ovviamente il grande ideale è sempre Gesù Cristo, il buon pastore. Per gli apostoli soprattutto San Paolo. Stiamo celebrando l'Anno Paolino. Paolo era una figura realmente impressionante e che può essere sempre una grande inspirazione per i sacerdoti, soprattutto in una società che non è più cristiana. Ha oltrepassato le frontiere di Israele per essere l'apostolo delle genti, l'apostolo dei pagani. In un mondo che si sta allontanando da qualsiasi manifestazione religiosa, il suo esempio è fondamentale. |
(da www.zenit.org) Il Card. Rodríguez Maradiaga analizza le sfide della vita religiosa di Carmen Elena Villa
Il porporato honduregno ha partecipato a Roma con un intervento sul tema “Cambiamenti geografici e culturali nella vita della Chiesa: sfide e prospettive” all'incontro dei rappresentanti dell'Unione dei Superiori Generali (USG), svoltosi dal 27 al 29 maggio. L'Unione dei Superiori Generali è un organismo di diritto pontificio eretto il 3 gennaio 1955 dalla Sacra Congregazione dei Religiosi come persona giuridica pubblica. Rappresentanti di diverse famiglie di vita consacrata hanno riflettuto sulle sfide e le opportunità dei rapidi cambiamenti geografici e culturali che hanno caratterizzato il primo decennio del XXI secolo. Il Cardinale Rodríguez Maradiaga ha ripercorso sinteticamente i cambiamenti nel mondo e nella Chiesa per sottolineare la necessità di uomini e donne che si consacrino all'apostolato e alla preghiera. La vocazione missionaria della Chiesa Il porporato ha segnalato come i viaggi di missione siano stati fondamentali fin dai primi tempi cristiani: “La diaspora e l'evangelizzazione dei gentili originano un'espansione missionaria straordinaria. Roma diventa il centro della cristianità. La storia della Chiesa è la storia della sua espansione missionaria”. Per questo ha indicato che “non si può comprendere la Chiesa né la sua storia senza il suo impegno permanente ad abbattere le frontiere”. In questo contesto, ha presentato rapidamente le sfide evangelizzatrici nei vari angoli del mondo, ricordando il contrasto tra “l'Africa, il continente dimenticato, che vede una crescita senza precedenti per la fede cattolica”, e l'Europa, che “soffre un inverno demografico che ha conseguenze sulla scarsità di vocazioni sacerdotali e religiose”. “L'Asia sfida la missione, e il continente americano con le sue enormi disuguaglianze corre il pericolo di smettere di essere il continente della speranza”, ha confessato. Il Cardinale ha concluso la sua analisi affermando che “per molto tempo noi cristiani abbiamo vissuto con un'immagine fortemente caratterizzata dalla geografia. Questa immagine è cambiata nel senso che il centro di gravità della Chiesa non è più nel nord, ma nel sud, visto che il 75% dei cristiani vive in Asia, Africa e America”. Vocazione alla vita consacrata per un mondo nuovo Il porporato ha indicato che nei cambiamenti provocati dalla globalizzazione e dal muticulturalismo i consacrati devono aiutare l'uomo di oggi a riflettere “per essere testimoni viventi, capaci di proclamare e annunciare il Vangelo della vita in situazioni di frontiera, in ambiti e aeropaghi nuovi”. Ha quindi ricordato l'invito di Papa Benedetto XVI a essere una minoranza ma significativa: “Lo siamo quando sperimentiamo la gioia del dono ricevuto, godiamo della nostra consacrazione”. Questa vocazione si forgia “nell'unità del cuore, nella vita condivisa con il prossimo, nella donazione generosa alla missione e nella libertà di fronte a ogni tentazione di potere”. “Non dobbiamo solo lavorare per i deboli, ma vivere con loro, appartenere loro... perché il cammino dell''rendersi piccoli' è una testimonianza per la nostra generazione”. “Lettere di Cristo” Il Cardinale ha dichiarato che i consacrati sono come “lettere di Cristo”, ovvero per mezzo di questa vocazione Gesù “continua a scrivere a quanti non credono in Lui attraverso la testimonianza che sappiamo dare”. “Come sarebbe bello, allora, che tutti coloro a cui arriva un consacrato potessero leggere le lettere dal sud al nord con gli occhi del cuore e rispondere in solidarietà”, ha esortato. L'Arcivescovo di Tegucigalpa ha quindi osservato che la sfida dei cristiani e dei consacrati è “essere il guardiano, il fratello del fratello, colui che sapendo che tutto ciò che siamo e abbiamo lo abbiamo ricevuto sa fare della propria vita un'autentica comunione imparando a condividere”. “Nulla è impossibile per chi ama”, ha concluso. |
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