cheNan

storie da cisterna


   Del marinaio Pireddu se n'erano accorti in pochi. La prima volta che l'incrociai - eravamo in uno dei corridoi  male illuminati della bagnarola - mi chiesi da dove fosse uscito quel topo in una linda tuta di macchina nuova di zecca. Devo premettere che quando me lo trovai davanti dubitai di brutto degli uffici leva, dei medici del Maridepocar e di chi avesse autorizzato l'imbarco di un uomo (si fa così per dire..), su una cisterna che per tre mesi d'estate si fermava solo due ore alla volta al molo Pagliari per caricare acqua e subito salpare. Pireddu, qualifica marò, avrebbe trascinato manichette dalla mattina alla sera seppure fosse un soldo di cacio già spelacchiato, quasi calvo direi, ed avesse appena vent'anni. Però aveva una bella luce negli occhi, uno sguardo aperto, amichevole, pieno di aspettative dal prossimo benchè provenisse - i pregiudizi son duri a morire - da un paese della Sardegna più interna.Lui mi si fece sotto - vista la sua statura - mi sorrise e non mi ricordo cosa mi disse, ma da come me lo disse lo schedai subito tra i bravi, gli intelligenti ed i socievoli. A bordo non ce n'erano mica tanti, di quelli. Con i più manco scambiavo una parola che fosse una. Due parole col timoniere di manovra, tre con il segnalatore, forse quattro con l'elettricista, ma più che altro per motivi di lavoro. Pireddu era di buona compagnia anche a tavola, pronto alla risata ed alla battuta, e si sa che le battute di mare pesano come un barcone carico di rumenta fino al bordo, e così mi succedeva di alzare anche la testa dal piatto per fare una ghignatina sotto i baffi; era una cosa rara, ma con lui mi succedeva. Del resto a bordo di una nave il tempo in un modo o nell'altro bisogna farselo passare, se non sei occupato a girare le antenne per levare le interferenze o a vagare con lo sguardo verso la costa dove vive la donna dei tuoi sogni. Insomma, Pireddu era una di quelle persone che fa piacere avere intorno quando sei per mare e vivi  obbligato in una compagnia forzata, sempre a contatto di gomito e di profumi altrui tipo "eau d'ascelle".Da ignorante com'ero stato allevato - e come sono rimasto - lo ascoltavo volentieri quando parlava. Si capiva che aveva studiato o che stava ancora studiando, non so bene cosa. All'epoca facevo una grande confusione tra Filosofia, Filatelia, Pedofilia o Filologia.Beninteso, all'epoca mi sentivo un po' esiliato, anche se non bollato da nessuna autorità se non quella di famiglia, ma anche se questo non era affisso su nessuna contrada, pensavo che mi fosse stata decretata una perpetua vita randagia, ed i randagi si sa: mordono. Ogni tanto un vento leggero proveniente dalla costa portava un'eco che si mischiava un po' al mio Demone nel petto, e riusciva a scorticare in profondità fino a far lampeggiare qualcosa, una specie d'affetto, ma si spegneva quasi subito. Il mio sogno preferito era un abbaiare di mitragliatrici ed un sabba infernale di cannonate un po' per tutto il mondo terracqueo. Era un odio viscerale per tutto quello che respirava. I giorni ed i mesi passavano e non mi appartenevano più, in compenso vivevo in uno stato di grazia da cui era stata bandita la parola paura e la parola coscienza. Nessun scandaglio con me avrebbe toccato quel fondo.L'estate era al suo culmine e le bonacce si susseguivano, una dietro l'altra, quando venne una nottata brutta, di quelle a sorpresa, come uno scherzo di cattivo gusto. C'era di che vergognarsi perchè quella diminuzione di pressione era stata presa un po' troppo sottogamba. Eravamo così tranquilli che andammo nelle nostre brande lasciando tutti gli oblò aperti, preoccupati più che altro di non respirare i peti dei compagni di branda: ce n' erano alcuni che avrebbero trasformato una chiesa in una camera a gas.Quando nel pieno della notte il mare ci svegliò di soprassalto aveva già allagato la cucina, la cambusa e le cabine dell'equipaggio, che  appena buttato giù dalle brande da un perverso rollìo, si ritrovò a camminare a mezza gamba nell'acqua. Insomma, tutto quello che era allagabile era allagato.L'alba livida e ventosa ci trovò  mentre arrancavamo per metterci a ridosso dell'Isola del Giglio. Già vederci chiaro, sarebbe stata una gran bella cosa. Il cielo più di tanto non si schiariva e nemmeno però si scuriva, sembrava sempre troppo vicino e fatto di una materia grigia che lasciava passare la luce controvoglia. Il mare, ormai solo bianco di schiuma, continuava a fare avanti e indietro, arricciandosi coi risucchi intorno al vecchio scafo, salendo sul ponte ed attraversandolo da un bordo all'altro, la prua spariva ed appariva nel beccheggio.Di preparare la doverosa colazione, non c'era nemmeno da parlarne. La stufa in cucina era andata sott'acqua ed un paio di ragazzi della sala macchine  avevano smontato il bruciatore per ripulirlo dal salmastro e rimetterlo in funzione. Ma la cosa si faceva lunga, ben oltre la pazienza..Fu allora che il marinaio Pireddu decise che ne aveva abbastanza, e che era l'ora di demolire quel rottame di nave. Intraprese l'opera prendendo a testate la paratia della cabina dove era piazzata la sua branda sommersa dalle acque.Il rumore sordo e ritmico delle sue testate contro l'acciaio malamente verniciato, fece incuriosire un paio di marinai che lo sorpresero mentre era intento al suo lavoro di demolizione. Pireddu, le cui forze si erano centuplicate ed inversamente e proporzionalmente la cui bella ragione se n'era andata a farsi benedire, oppose ai due marinai una resistenza degna d' un Eroe dei Sette Mari. Alla fine, che una fine deve pur arrivare  anche per un Eroe, la paratia era rossa del suo sangue, la sua faccia era inondata di sangue, la sua tuta nuova di zecca era sporca di sangue, il suo naso era una palla sgonfia e sanguinolenta e dalla sua fronte e dagli zigomi gli pendevano lembi di pelle macerata.Allora, dopo la lotta che lo aveva sfibrato, battuto dalla nave e da due marinai, cominciò a piangere a bocca aperta, come un pesce fuori dall'acqua, incessantemente e silenziosamente: non emetteva un suono. Era un muto lamento che colpiva dritto dentro il cuore, senza passare dalle orecchie. I suoi occhi coperti di sangue erano spalancati da una specie di terrore e di dolore. L'equipaggio lo trasse in coperta e ve lo stese. Le onde che attraversavano il ponte nel beccheggio della nave lo lambivano. Gli ufficiali lo interrogarono bruschi.«Che hai?»«Perchè l'hai fatto?»«Cosa ti sente?»«Cosa senti?»Non sentiva niente. Sordo e muto, la bocca semispalancata, guardava senza vedere mentre gli ripulivano la faccia dal sangue.Non era più il caso di starsene a ridosso dell'Isola, si doveva trovare un ospedale per Pireddu.Con una bella sgroppata e la burrasca a favore che ci spingeva alla velocità di un treno, arrivammo a Portovecchio. Una lettiga salì a bordo e se lo portò via. Nessuno lo rivide più. Io mi convinsi che Pireddu, quel giorno, avesse visto l'Inferno, e che ne avesse avuto una visione reale, ma così reale da spingerlo al suicidio. M'immaginai anche che qualora s'incontrasse uno di quelli che cercano la morte come una liberazione dall'Inferno del vivere, si dovrebbe poterne scorgere le tracce sul suo viso, per non lasciarlo solo. Insomma, c'erano un sacco di cose che avrei voluto chiedere a Pireddu, cose che riguardavano anche me. Ed avrei voluto tirare un sospiro di sollievo sapendolo salvo e parlare con lui di quelle cose tipo Filosofia, Filatelia, Pedofilia, accidenti mi ci confondevo sempre.E c'erano anche tante altre cose che avrei voluto avergli detto.