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PIETRO ICHINO.... UN UOMO DI SINISTRA ONESTO E CORAGGIOSO. DI QUELLI CHE LA SX COMUNISTA SE POTESSE LASCEREBBE CREPARE


Leggete sotto e toglietevi il cappello. Quest'uomo di sinistra è onesto e coraggioso. Per questo la sinistra italiana comunista lo isola e lo tratta come nella foto (che è presa da un sito intitolato La classe operaia.... e ho detto tutto).E già che ci siete, pregate per lui. Uomini di tal fatta (che si mettono contro i luoghi comuni comunisti e soprattutto contro una certa magistratura) in Italia rischiano di fare una brutta fine. 
  TESTO TRATTO DAL FOGLIO DI OGGIIl provvedimento che obbliga Fiat a riassumere 19 operai della Fiom-Cgil, e in prospettiva altri 145 con la stessa tessera sindacale, è “inappropriato”. Il diritto italiano lo rende certamente legittimo, ma in qualsiasi altro paese occidentale non sarebbe andata così. A spiegarlo al Foglio è Pietro Ichino, senatore del Partito democratico e uno dei più noti giuslavoristi italiani. Il professore però, prima di addentrarsi in una spiegazione ponderata del suo punto di vista, commenta le reazioni provocate ieri dall’ultima puntata della saga-Marchionne. Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha detto: “La mossa della Fiat non mi è piaciuta”. L’imprenditore Diego Della Valle (Tod’s) ha invocato un intervento di Mario Monti e del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per “proteggere l’Italia da Marchionne e dagli Agnelli”. Sui giornali praticamente nessuno si è discostato dalla tesi della “rappresaglia” del padrone contro gli operai. I più coraggiosi, come l’economista del Lavoro Carlo Dell’Aringa sul Sole 24 Ore, hanno definito l’ennesimo intervento giudiziario come un rimedio al di fuori del “fisiologico utilizzo delle relazioni industriali”. “Non c’è una rappresaglia – dice Ichino – Questa sentenza non può che essere collocata in un conflitto lungo due anni. Marchionne sta cercando di praticare un modello all’americana di relazioni industriali, tutt’altro che illegittimo. Illegittima è la discriminazione, ma la lettera dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori ammette che in fabbrica siano riconosciuti soltanto i sindacati firmatari dei contratti collettivi applicati in azienda quando questi ultimi sono accettati dalla maggioranza dei lavoratori”. Marchionne “non vìola la legge quando cerca di praticare il modello di relazioni industriali ‘all’americana’ che l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori consente. E’ la cultura dominante che lo respinge”. Ichino non se la prende con questo o quel commentatore, preferisce parlare di una “cultura italiana” che è refrattaria all’esperimento di Marchionne: “Fiom ha la ragione giuridica dalla sua parte, nel caso specifico delle discriminazioni individuali accertate dai giudici, ma è chiaro che le polemiche di queste ore non nascono da quest’ultimo episodio di Pomigliano. A essere attaccato è tutto quello che l’ad di Fiat ha portato nelle relazioni industriali italiane. Inclusa la scelta di non riconoscere i sindacalisti della Fiom che non stanno al piano industriale approvato dalla maggioranza dei lavoratori. E inclusa la legittima scelta del Lingotto di staccarsi dal sistema confindustriale. Dal dibattito pubblico emerge il tentativo di negare il possibile pluralismo dei modelli di relazioni industriali”. Vale anche per Confindustria, che vede a rischio il suo monopolio della rappresentanza.Due giorni fa, però, la Casa automobilistica degli Agnelli ha avviato la mobilità per 19 lavoratori così da far posto ad altrettanti lavoratori con in tasca la tessera Fiom che hanno vinto il ricorso per discriminazione. In base alla sentenza, Fabbrica Italia Pomigliano (Fip) – cioè la newco che nel 2010 ha sostituito giuridicamente lo stabilimento Giambattista Vico dopo la firma del contratto aziendale e che ha riassunto poco più della metà dei lavoratori del vecchio stabilimento – dovrà assumere entro sei mesi altri 126 lavoratori selezionati tra gli iscritti Fiom. Di chi è la colpa in questo caso? Fiat o Fiom? “Quello della Fiat di Pomigliano potrebbe essere usato come caso di scuola per lo studio delle cause e degli effetti del malfunzionamento di un sistema di relazioni industriali – dice Ichino – Ciascuna delle parti ha qualche ragione di accusare l’altra di qualche malefatta. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi iscritti nelle assunzioni. Ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio, cioè fin dalla primavera 2010, contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale. Logica e buon senso avrebbero imposto che la Fiom rinunciasse alla guerriglia giudiziaria contro il piano industriale Fiat, firmando gli accordi aziendali e ottenendo così il riconoscimento dei suoi rappresentanti negli stabilimenti”. Resta il fatto che Marchionne non ha il diritto di tenere fuori dalla fabbrica chi non firma gli accordi aziendali. “Secondo la legge italiana, in realtà, l’ad di Fiat ha il diritto di non riconoscere le rappresentanze del sindacato che non ha firmato alcun contratto collettivo applicato in azienda. Ma non ha il diritto – come potrebbe fare invece in America – di discriminare i suoi iscritti. Ciononostante, a mio avviso il provvedimento adottato dal giudice in questo caso è inappropriato”. Ecco, questo finora non l’ha detto praticamente nessuno, tantomeno un giuslavorista e un uomo di sinistra: “Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno”, dice Ichino. Anche perché “la costituzione coattiva di un numero elevato di rapporti di lavoro, visto che a questi primi 19 lavoratori potrebbero seguirne nel prossimo futuro altri 126, produce l’effetto di una eccedenza di personale, con la conseguente legittimazione dell’impresa ad aprire una procedura di licenziamento collettivo. D’altra parte, non è ragionevole ritenere che un’impresa mantenga in organico 145 persone in eccesso rispetto all’organico di cui ha bisogno, tanto meno in un periodo di crisi”. Insomma l’interventismo giudiziario non aiuta: “Quando un sistema delle relazioni industriali va in tilt è rarissimo che un provvedimento giudiziale abbia l’effetto di sbloccarlo. Lo si può escludere del tutto, poi, quando il provvedimento è inappropriato, come questo di cui si discute oggi, che genera delle conseguenze assurde”. Adesso, ecco cosa accadrà secondo Ichino: “Nelle cause che nasceranno dal licenziamento collettivo, i giudici non negheranno in linea teorica il diritto dell’impresa di ridurre il personale. Ma è prevedibile che troveranno il modo per impedire che il licenziamento collettivo abbia corso. Così, nell’immediato si evita un’ulteriore ingiustizia, ma sulla distanza il risultato è quello di indebolire un’intera impresa. E di contribuire a tenere lontani dal nostro paese gli investitori stranieri”.Ichino fa una proposta per uscire dall’impasse: “Se fossi il ministro del Lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. E farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo il riconoscimento dei suoi rappresentanti in azienda. E per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva”. Elsa Fornero, nella serata di ieri, ha aperto a questa prospettiva, invitando Fiat a “soprassedere all’avvio della procedura di messa in mobilità del personale in attesa della verifica di una possibilità di dialogo che non riguardi solo il fatto specifico”. Ora si vedrà.