Arrancame la vida!

Vita che va


Ho molti ricordi del mio passato, come tutti, del resto. Molti belli, alcuni orribili, come tutti. Alcuni confusi, altri vividi, lucidi, freschi come se i fatti ormai molto lontani fossero accaduti ieri. Succede a tutti, credo. Di una cosa sono certo: non tornerei indietro neanche se mi pagassero! Non sono uno che rimpiange il passato io. A dire la verità ho pochisismi rimpianti. Qualche rammarico sì. Qualche rammarico, ma rimpianti no, non credo. A volte mi capita d'incontrare dei vecchi compagni di scuola, di quelli che non vedi da venti o trent'anni ( di quelli che non vorresti vedere mai ) e mi sento dire: " ti ricordi che bei tempi?" E me verrebbe da dire che no, che forse i bei tempi erano per lui, ma non per me, che quei tempi non li vorrei ricordare proprio. Io ero un bambino strano, da bambino. Da piccolo sognavo spesso di volare. In sogno ero un ragazzino biondo con un bellissimo paio d'ali bianche come la neve. Volteggiavo sulla mia città agile e veloce. Sorridevo spesso in sogno. E non avevo mai paura.Da piccolo ero magro, nero, aggressivo, ostinato e povero, uno zingarello. Qualche volta, ancora adesso, mi capita di guardare delle vecchie foto a casa di mia madre: guardo quel bambino tutt'ossa che sorride imbarazzato all'obiettivo e mi chiedo a che cosa pensassi allora, a che cosa pensassi mentre qualcuno, forse mio padre, scattava quella foto che mi immortalava da quache parte. A volte mio padre mi portava al fiume la domenica. Odiavo il fiume. Non avevo il coraggio di dirgli che non mi piaceva. Sapevo che lo faceva per me, non volevo deluderlo. Io volevo andare al mare!  Lo dissi a mia madre, una volta:" al fiume non ci voglio andare più". Rispose che avrei dovuto vergognarmi, che mio padre faceva tanti sacrifici per noi, che a lui il fiume piaceva molto, che poteva pescarci in quel fiume e rilassarsi un po' dopo una settimana di duro lavoro. Da piccolo ero magro, nero e davvero piccolo. A volte, da piccolo, giocavo ai soldatini con Giorgio. Lui teneva sempre i cow-boys ed io gli indiani. Vincevano sempre i cow-boys. Giorgio era ricco, arrogante e maleducato. Da piccolo volevo assomigliare a Giorgio. Avevo pochi amici, da piccolo. Preferivo stare da solo, sotto il tavolo di cucina, quando mia madre aveva finito di sparecchiare e di lavare i piatti e se ne andava in salotto a riposarsi sulla poltrona di finta pelle  di papà, che era già uscito per andare a lavorare. Con la tovaglia facevo una specie di tenda indiana e facevo finta di essere un capo Sioux seduto in consiglio con gli altri saggi per preparare l'attacco da sferrare a Giorgio e ai suoi cow-boys americani ( sarà stato scritto nei geni, chi lo sa? ) Il mio nome Sioux era Nuvola Grigia ed ero un bravissimo a levare gli scalpi ai visi pallidi. La mia maestra era una donna sulla cinquantina, di quelle donne nate bene, figlie di professionisti, moglie di un noto cardiologo della città che, a detta sua, faceva la maestra non per mestiere, ma per vocazione. Se ne stava seduta alla sua cattedra, issata su di una predella di legno scuro, avvolta in uno scialle nero. Non amava i bambini, questo era evidente, non li amava e non le piacevano. Io ero nel gruppetto degli emigrati, tutti veneti come me e meridionali. Avevo un odio adosso feroce e potente come un esercito in marcia, come il mare in burrasca, come l'oceano in tempesta.  A scuola, a volte, vomitavo. Mi venivano i conati, non li potevo controllare e allora mi vomitavo addosso. Non osavo alzarmi perchè la consegna era quella di stare seduti con le mani conserte e come si poteva non vomitarsi addosso se si doveva tenere le mani conserte sul banco? Vomitavo e  piangevo di rabbia. La maestra allora convocava mia madre e le spiegava che quel bambino tutt'ossa, tanto strambo e sempre sulle nuvole aveva qualcosa che non andava. Eravamo poverissimi. Ancora oggi, a volte, mi sorprendo a pensare con sgomento a quanto fossimo poveri. Mio padre chiese al padrone di casa di far installare i termosifoni solo quando lo passarono caporeparto: prima avevamo un stufa a kerosene. Io avrò avuto almeno già 10 anni. Non abbiamo mai patito la fame però: per i miei genitori, come per tutti i poveri del mondo, il cibo veniva prima di ogni altra cosa. Si risparmiava su tutto, ma non sul cibo, che i figli devono crescere sani, almeno loro, diceva mia madre. Ricordo tutto questo, ricordo delle notti al freddo con la borsa dell'acqua calda che ci scaldava a malapena una piccola porzione del letto, ricordo una casa piccolissima e scura, ricordo che non avevo il cappotto ma solo un giubbottino che mi copriva a malapena, ricordo che un Natale la fabbrica dove lavorava mio padre comprò per me e per alcuni altri bambini un paio di scarpe invernali, belle calde e pesanti, ricordo che i colletti del mio grembiulino delle elementari erano sempre stropicciati perchè mia madre non aveva mai tempo per stirarmelo perchè doveva stirare montagne di roba in casa d'altri. Ricordo tutto questo, ma non mi ricordo di essere stato mai infelice. In fondo avevo pochissime esigenze. Io non sapevo se eravamo poveri o ricchi, ma sapevo che c'era una bella differenza fra me e Roberto, per esempio, o fra me e Mario. Loro portavano a scuola degli astucci Caran D'Arch dai mille colori e avevavo penne a stilo di marca Aurora col pennino d'oro. A volte, in primavera, portavano alla maestra delle rose del loro giardino. Io non avevo un giardino. Non ho mai provato vergona per la nostra povertà però. Questo mai. Mai. Cominciai a frequentare le riunioni del partito con mio padre da raggazzo. Volevo riscattarmi da quella povertà che ci limitava la vita, che riduceva tutti i nostri sogni e i nostri slanci a pura fantasia, volevo uscire da quella maledetta miseria che ci frenava l'esistenza e il futuro. So che cosa ci sia dietro la povertà, quali conflitti e quali frustrazioni agitino la mente e l'anima di chi è povero ed è per questo che sto sempre, ancora oggi, dalla lor parte. Sempre. Per sempre. Tutti abbiamo diritto ad una vita migliore. La povertà anienta, rabbuia tutto quello che tocchi, vanifica tutto quello che provi. Chi non l'ha provata sulla propria pelle non ha nemmeno la più pallida idea di che cosa significhi essere poveri. Rischi ad ogni istante di scivolare nella plebe, di non far più parte nemmeno del popolo, ma solo della plebaglia ignorante e bruta. Io sono stato fortunato. Ho avuto una famiglia che ha fatto i salti mortali per me e poseggo quello che si dice una personalità e un carattere forte. Non so se sia del tutto vero, ma per poter sopravvivere, a volte, occorre essere forti e determinati.Oggi, che non mi manca nulla,  guardo a tutto questo con un certo distacco. So che mi è rimasta addosso quella mentalità da povero che non perderò mai, che sarà per sempre il segno distintivo della mia famiglia e di quelli come me. Peccato che non avrò mai figli: forse loro potrebbero perderla questa sottospecie di timidezza e goffaggine che ti fa pensare che gli altri ti stiano facendo un favore se ti danno un lavoro, che le scarpe si cambiano solo quando si consumano, che in fondo due paia di pantaloni bastano e avanzano. Solo di recente mi concedo qualche capo di abbigliamento in più per il mero vezzo di possederlo. E tuttavia  non accumuliamo nulla Davide ed io. Spendiamo capitali in libri e musica o nei nostri viaggi strampalati e strani fai da te alla ricerca di qualcosa che abbiamo dentro, ma di cui ancora non ne conosciamo il nome.Ecco, dunque: indietro non ci torno proprio! E poi anche fisicamente non sono mai stato così in forma. Che superare la boa dei 40 faccia davvero bene?http://www.youtube.com/watch?v=rUFT52QbmTg