Arrancame la vida!

Post N° 500


"Non sappiamo che cosa gli sia successo, speriamo niente di grave, ovviamente. Papà non voleva neanche che ti chiamassimo per non farti preoccupare, ma noi volevamo avvisarti, volevamo dirtelo.”  “ Non era mai successo prima che si allontanasse per tanto tempo senza avvisarci. Abbiamo chiamato i suoi amici per sapere se fosse da qualcuno di loro. Lo abbiamo cercato nei soliti posti che frequenta, ma  niente da fare, non era da nessuna parte.” “ Siamo stati dalla polizia, li abbiamo pregati di cercarlo loro, ma tu sai come funzionano le cose qui. Ci hanno detto che faranno del loro meglio per trovarlo.”  “ Ho persino dato un’occhiata al fiume, ma lui nuota benissimo e non è possibile che gli sia successo qualcosa in acqua. “ “ Sono preoccupato, Alex, non so perché, ma ho paura che gli sia successo qualcosa .” Era Farooq che mi raccontava la  scomparsa di Mimi, oltre 12 anni faLa mattina prima della partenza avevo fatto qualche telefonata a due o tre amici. Avevo portato il cane da mia madre, avevo abbracciato mio padre che sedeva muto nella sua poltrona di sempre cercando di non sentirmi troppo in colpa per il fatto che lo abbandonavo  alla sua malattia per cercare di guarire me stesso. Nonostante lo vedessi quasi tutti i giorni, quella mattina restai stupito dalla  sua magrezza, dai suoi occhi spenti, dal suo confuso farfugliare parole che ormai nessuno capiva più. Volli portarlo in bagno un’ultima volta. Lo lavai con cura, gli pettinai i capelli radi e lo profumai  per bene come si fa con i bambini mentre lui mi guardava e sorrideva di quel sorriso ebete, attonito e doloroso che solo coloro che hanno varcato la soglia della demenza possiedono, quel sorriso  contorto e deforme che non esprime propriamente disperazione o paura ma  piuttosto incredulità e stupore muto. Lasciai le angosce e tutte le preoccupazioni a mia madre e corsi via.Quella sera feci una valigia perfetta, una valigia da concorso. Ci infilai dentro la mia vita fatta di libri, di dischi, di cartoline e fotografie, di ritagli di giornale, d’indirizzi e numeri di telefono. Presi pochi vestiti, ma piegai scrupolosamente i pantaloni e le camicie con una cura che non avevo mai avuto prima. Quand’ebbi finito chiusi la lampo, scrissi il mio nome e il mio indirizzo su di un etichetta nuova e ne applicai una più grande su lati della valigia: “ fragile, maneggiare con cura”, si leggeva a chiare lettere, la sintesi di quello che ero io in quel momento della mia vita. Controllai passaporto e biglietto aereo, poi mi misi a letto.La mattina dopo mi svegliai prestissimo. Chiusi la porta di casa e mi diressi  con  un taxi all’aeroporto. Non mi voltai neppure per guardare indietro.Questi giorni di non lavoro a Torino mi paiono eterni. Mi preoccupa il fatto che io non sappia organizzarmi il tempo quando non lavoro, nonostante la lettura e la musica. Per quanto io faccia il mio pensiero corre sempre là, ai miei amici. In effetti ho un pessimo sociale qua in città. Tranne la mia famiglia, Paolo e la Silvia, non vedo nessuno. Sto diventando pigro. E orso. Sempre più orso. Non sono una di quelle persone che gli altri presentano volentieri alle feste, uno di quelli che ti fanno fare bella figura. Non sono il tipo che piace alla mamme e alla zie. Un tempo, quando bevevo molto, forse per via del grande senso di colpa che mi opprimeva, dovevo compiacere gli altri. La paura di essere inadeguato prevaleva su tutto. Da quando ho smesso di bere ho perso molta gente per strada. Poco male, dopo tutto. Con gli anni e con la sobrietà ho riscoperto il vero me stesso: ruvido, un po’ cinico, non troppo simpatico. Per anni ho tentato di fare tutto quello che facevano gli altri senza riuscirci. Era molto avvilente dover star dietro a tutto. Ora posso permettermi di essere come desidero, senza l’assillo di piacere agli altri. Sono sempre stato strano però. Ha  ragione Silvia, che mi conosce da sempre. Ho pochissimi amici. Ho dei momenti piacevoli, talvolta. Ieri, ad esempio, ho trascorso un’ora al telefono con un amico storico del blog. Un piacere immenso. Con un altro ci sentiamo quasi ogni giorno. E con un’amica speciale faccio delle lunghe conversazioni sulle cose e sulla vita. Esco poco. Quando lo faccio è solo perché mi fido e mi diverto. Ogni tanto mi piacerebbe avere una vita mondana; qualche cosetta in più, dopo tutto, non guasterebbe. Poi, il solo pensiero di spiegarmi, di raccontarmi agli altri, di scoprirmi come facevo a vent’anni mi deprime. Non m’interessa conosce nuova gente, ecco tutto. Non è presunzione la mia. Significa solo risparmiare energie. Le mie energie sono preziose. Voglio bene alla mia gente e ai miei amici, ma gli anni trascorsi all’estero, anche se dolorosi e tragici, mi hanno lasciato una profonda nostalgia per quella vita fatta di emozioni, di colpi al cuore, di profondissime illusioni coltivate con la passione terribile dei sogni, una vita che so essere sì precaria, ma che ormai è la mia e alla quale non rinuncerei per nulla al mondo. A volte mi sento come tagliato fuori dal ritmo quotidiano e usuale delle vite della maggior parte della gente che conosco e tranne pochi amici e qualche compagno di partito al quale sono  ancora particolarmente legato,mi sembra, a volte, di non aver più nulla a che fare con quel mondo nel quale mi ero pur mosso con entusiasmo in passato. Sono sempre stato così, alla perenne ricerca di qualcosa che potesse mutare il corso della mia vita, alla perenne ricerca di qualcosa di magico che avesse potuto mutare il corso della storia, nella perenne attesa dell’inaspettato. In fondo non sono mai cresciuto, sono  sempre un adolescente inquieto e insoddisfatto. Mi relaziono anche molto male, devo dire. E’ la mia maniera di essere. Mi è capitato di recente di andar per negozi per comparare un paio di scarpe. “ Le piacciono queste?” mi ha chiesto la commessa. “No, mi fanno cagare”. Non l’ho fatto apposta, mi è uscito così, spontaneamente. Dopo dieci anni a Davide capita ancora di doversi scusare per me, in certe situazioni. E’ imbarazzante, immagino. Eppure credo di possedere dentro di me un adulto ben strutturato e funzionante. A volte mi sento diverso, non saprei come spiegare. Mio padre era come me, dice mia madre. Un tempo mi sentivo inadeguato, dicevo. Ora non voglio adeguarmi a niente che non mi calzi a pennello. Ricordo che una volta mi trovavo sul treno per Milano dove ero atteso per vedere la mostra di un collega. Sedevo in uno scompartimento vuoto, assorto nei miei pensieri, quando, a Porta Susa, entrò un uomo che in qualche modo mi pareva di aver già visto da qualche parte. Esitammo qualche istante per poi riconoscerci a vicenda subito dopo: era un mio compagno dei tempi del liceo, mi sembra che si chiamasse Michele. Non eravamo proprio amici, lui era un anno avanti a me, mi pare, ma fra noi c’era stata comunque una certa simpatia reciproca. Ci eravamo persi di vista subito dopo la fine degli studi, le nostre vite avevano preso strade diverse ed ora sedevamo  insieme sullo stesso treno a chiacchierare del più e del meno senza poter evitare di cadere nel solito rituale assurdo di rievocare i tempi andati. Mano a mano che la nostra conversazione prendeva forma mi rendevo conto di come fra me e Michele si fosse scavato un abisso incolmabile. Lui aveva raggiunto una certa posizione, aveva un figlio che frequentava le scuole elementari in un collegio privato, un appartamento di 300 metri quadri in centro e una casa sul mare in Liguria. Indossava vestiti e scarpe di Hugo Boss e al polso portava un Omega ultimo modello e malediva il fatto di trovarsi su quel treno, dato che il suo autista quel giorno era malato. Anche lui si era laureato e possedeva quel minimo di cultura adatta per essere introdotto nei circoli bene della città, grazie anche ad una moglie figlia di una famiglia potentissima, dove quelli della sua razza si davano appuntamento una volta ogni tanto per celebrare se stessi in coctktail e cene di gala puntualmente descritte il dopo nella pagina della cronaca mondana del quotidiani locale, pagina della città, sempre e inevitabilmente organizzate per raccogliere fondi per acquistare incubatrici e costosissime apparecchiature mediche da spedire in qualche paese sperduto dell’Africa o dell’Asia dove quelli come lui si sarebbero ben guardati dal recarsi seppur in sogno. Michele continuava a parlare dei problemi della sua vita quotidiana, spiegandomi quanto fosse difficile al giorno d’oggi trovare del personale onesto ed affidabile, quanto gli costasse la manutenzione del giardino della villa al mare aperta un solo mese l’anno, quanto fosse preoccupante l’emigrazione di tutti quegli extracomunitari che arrivavano a casa nostra senza controllo. Se ne stava lì seduto, rigido nel suo abito firmato, con quell’aria da gentiluomo per bene, così assolutamente padrone di se stesso e del mondo da farmi quasi rabbia. Ricordo il suo sguardo di compassione quando gli dissi che vivevo facendo il reporter in giro per il mondo. Ricordo che disse che sarebbe stato felice di farsi ritrarre da me, quando fossi diventato grande. Ecco, a volte mi domando se diventare grandi significhi necessariamente diventare come Michele. Io grande mi sento già. Strano, però, dicevo. Strana questa vita.http://www.youtube.com/watch?v=-7SDJVpZMgQ oggi libero fa cagare....mi taglia le ultime sillabe...Boh, adesso sembra che funzioni. Va un po' come me libero, a singhiozzo.