Passeggiamo per Jesolo la sera, noi due soli. Siamo appena stati a cena nel posto che più mi piace al mondo: una locanda nell’entroterra senza pretese, un posto economico dove si mangia carne alla griglia e dell’ottimo pesce, un posto che frequento da sempre, ogni volta che mi riesce di venire da queste parti. Conosco la proprietaria da quando ero ragazzino ( “Alex, Alex,come sei cresciuto dall’ultima volta che te ho visto! Fate dar un baso, puteo beo!” ) una veneta procace, dal seno immenso e felliniano, dai fianchi prosperosi , dal culo generoso e bello ( mio zio diceva sempre che la Maria aveva un culo che parlava “ e gha un culo ca parla la tosa!” diceva sempre lo zio Eugenio, quando più o meno aveva l’età che io ho adesso) . Abbiamo cenato con Maria e suo marito, che lungo la settimana c’è poca gente e allora ci hanno invitato al loro tavolo. Abbiamo riso molto noi quattro. Passeggiamo per Jesolo dunque, la sera tardi. E il mio ricordo, in un attimo, va molto indietro nel tempo, ad un’estate di tanti anni fa, quando passeggiavo su questa stessa strada con i miei cugini e gli amichetti di Treviso e gli altri mi chiamavano “il piemontese” e io mi arrabbiavo molto e mi sentivo in qualche maniera escluso ( un sentimento che avrei provato molte volte nel corso della mia vita ), anche se parlavo il dialetto come lo parlavano loro ed ero nato nel condominio a due passi dalla loro casa. Si facevano chilometri su e giù lungo la passeggiata, con un cono gelato in mano che costava 100 lire ( due gusti a scelta ), a guardare i bar e le vetrine scintillanti dei negozi, a parlare per ore e ore di non ricordo più che cosa, forse dei nostri sogni o delle nostre piccole vite. Talvolta si andava sulla spiaggia a guardare il mare. A volte, dopo la passeggiata, si andava tutti sulla spiaggia, ci si sedeva sulla sabbia umida, ci si toglieva le scarpe e si guardava il mare, in silenzio. Era bellissimo. Ricordo che ci sentivamo tutt’uno con il mare, un mare che per noi era l’oceano, mica l’Adriatico con i suoi fondali bassi e sabbiosi, ma un mare profondo e liquido, agitato e vivo, cupo e solitario, che ci affascinava e ci faceva paura allo stesso tempo. Ci tenevamo abbracciati quando guardavamo il mare, in quelle notti d’estate di mille anni fa. Le strade erano piene di ragazzi come noi, di villeggianti e d’indigeni. Io mi collocavo nella terra di nessuno che stava fra i due gruppi. Sempre un po’in disparte, tutta la vita così, a difendermi da non so nemmeno bene io cosa, con quell’arietta da bambino perduto che mi coglieva a volte, come uno smarrimento profondo che mi prendeva dentro e che non riuscivo a trasferire in parole e a trasmetterlo a nessuno, tranne che rare volte a nonna Agnese. Se ne stava seduta sulla sua seggiola la mia nonna, mi guardava e scuoteva la testa preoccupata, come se presagisse che nulla di buono sarebbe potuto capitare ai ragazzini matti matti che chiedono la luna. Tutta la vita a chiedere la luna, nei momenti in cui la luna avrebbe anche potuto arrivare, ma soprattutto in tutti i lunghissimi, eterni anni in cui non c’era la più remota possibilità di ottenerla, in una trepidante attesa che andava oltre ogni logica, oltre ogni possibile speranza, in un’ostinazione radicata e ottusa che ancora oggi mi lascia smarrito e senza fiato, ogni volta che ci ripenso. E passeggiare per le strade di Jesolo , dopo quasi trent’anni, assume oggi un significato del tutto diverso. Forse perché, per la prima volta, mi sento a metà strada fra la mia perduta giovinezza e la mia prossima vecchiaia. O perché non ci sono quasi più i ragazzi che comprano coni gelato a due gusti e che trascorrono la serata a passeggiare parlando dei sogni e della vita sul lungomare. Perché a quest’ora i ragazzi staranno dormendo e usciranno soltanto quando io sarò ormai a letto, pronti e tirati a lucido per la serata in discoteca. E in effetti l’umanità varia che s’incontra per le strade di questo posto non differisce poi tanto da quella della mia gioventù, solo che è la loro nazionalità ad essere diversa. Per le strade di Jesolo, adesso, non ci sono più i villeggianti o gli indigeni modesti e mal vestiti come eravamo noi, ragazzini con la testa piena di sogni e di illusioni, con gli infradito acquistati per due soldi alla Upim o dal ciabattino all’angolo di casa, con la maglietta Fruit of the Loom del mercato ( tre per due mila lire ), i capelli incolti e i costumi da bagno che sembravano mutande; ora sul lungomare di questa città, la sera, ci passeggiano gli albanesi, i marocchini, i moldavi, i macedoni, i singalesi, quelli del Bangladesh, i pakistani e gli africani. Passeggiano come facevamo noi un tempo, con quattro soldi in tasca, la testa piena di sogni, i vestiti senza pretese, le scarpe fuori moda. Sono come noi trent’anni fa. Sì perché oggi coloro che fra noi possono permetterselo ( dei ragazzi qui, indigeni o villeggianti che siano, nemmeno l’ombra. E forse non ne vedo solo perché frequentiamo ambienti diversi e in realtà non vedo ragazzi in giro perché loro escono quando io vado a dormire e le discoteche che non potevo permettermi a sedici anni oggi, che potrei permettermele, non m’interessano più. O forse solo perché gli anni che passano inesorabili hanno scavato un solco incolmabile fra me e loro e quello che interessa me non interessa loro, anche se non è ben chiaro se qualcuno di noi, la mia generazione e la loro, sia mai riuscito ad acchiappare la luna ), coloro che fra noi possono permetterselo, dicevo, non trascorrono di certo le vacanze a Jesolo, con quattro vecchi in riva ad un mare che in realtà non ha nulla a che vedere con l’oceano, se non nell’idea bislacca di certi ragazzini matti matti; loro disdegnano la gente del posto e prenotano vacanze esotiche e alla moda in posti lontanissimi, dai nomi che non sanno nemmeno pronunciare, dai quali mandano cartoline ai parenti e agli amici con quella scrittura enorme degli imbecilli “posto bellissimo, tanti baci”, sorseggiano cocktails tropicali su terrazze che danno puntualmente su tramonti mozzafiato da calendario, soggiorno tutto compreso, menu internazionale e una volta a settimana cena italiana. Tutti contenti. Questa città, questa sera, mi coglie impreparato e mi riporta indietro negli anni. Dolorosamente indietro, per certi versi. E mentre mi domando che razza di percorso abbiamo mai fatto noi, presunti progrediti, presunti grandi, presunti civili ( come se si trattasse di misurare il progresso di un paese in base al numero delle discoteche che lo popolano o in base ai viaggi tutto compreso dei suoi abitanti o in base ai vestiti che la gente indossa, in base alla marca delle scarpe che porta ai piedi o a quella dei costumi da bagno da boutique che mette su quando va al mare –un mare che ha poco a che vedere con l’oceano sognato e immaginato da un ragazzino matto matto che si ostinava a chiedere la luna- ), mentre mi domando se questi poveracci che passeggiano oggi per le stesse vie che percorrevamo noi allora stiano sognandolo lo stesso sogno o quale mai sia il loro, se sia un sogno che caso mai preveda la luna, graziosa luna pallida del più raggiante plenilunio, mentre mi domando se veramente siamo arrivati noi da qualche parte e come e quando il meccanismo si sia inceppato, mi accorgo che siamo arrivati davanti alla gelateria del Sole, la stessa che frequentavo trent’anni fa e nonostante i proprietari siano cambiati e quello che serve i gelati oggi assomigli molto di più ad un personaggio di Canale 5 ( jeans a vita bassa, cintura D&G, capello rasato e berrettino da baseball indossato al rovescio ) e non abbia nulla a che fare col signore maturo dall’aria benevola che dispensava cioccolato e pistacchio, vaniglia a fragola, meringa e bacio, a noi ragazzi in certe notti d’estate della mia preistoria, mille anni fa, mi accorgo che qualcosa di antico è rimasto. Il bancone, ad esempio, o le foto di una Jesolo insolita ritratta sotto la neve d’inverno, la piccola porta del retrobottega e, soprattutto, la scritta un po’ sbiadita che recitava le specialità della Casa, quei gelati così unici, dai nomi improbabili e mirabolanti, che ci facevano sognare con l’acquolina in bocca, gelati riservati a certi adulti per via dei costi stratosferici ( altro che due gusti per 100 lire! ): Principino, Biancaneve, Sirenetta, serviti in alte coppe con bastoncini di cioccolato e canditi che sbucavano da tutte le parti. E allora decido all’improvviso di sedermi. Mi siedo al tavolino che da sul marciapiede e ordino la coppa più grande della lista, quella con più frutta, quella col numero maggiore di bastoncini di cioccolato , quella con più biscotti e più canditi. E Davide mi guarda sorpreso, perplesso e ironico: “ che ti prende, Alex? Tu non mangi questa roba di solito.”Ma stasera mi va così e mi metto a ridere all’improvviso, lasciando basito il ragazzo modello Canale 5 venuto a prendere le ordinazioni, un ragazzo bello in stile D&G, che non sa nulla di certe sere di mille anni fa, non sa nulla di un oceano che assomiglia all’Adriatico né tantomeno di una luna pallida e agognata da una vita, e a mala pena riesco a spiegare a Davide che si tratta di un rito privato, di una celebrazione privatissima e personale, la mia maniera di celebrare tanti sogni morti, tanti progetti naufragati e perduti, il mio modo bislacco per ricordare la mia giovinezza lontana, il mio modo personale per cacciare indietro la malinconia e la tristezza. Perché c’è una differenza insultante fra ciò che siamo diventati e ciò che avremmo voluto essere, fra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo voluto fare. Compresi quei due soldi che abbiamo messo via in tanti anni di presunta “carriera”, che non ci rendono la vita più felice, ma solo più comoda, nella prospettiva risibile, fallace e tutto sommato inutile di poter prendere un taxi quando abbiamo un appuntamento e il tram è appena passato, quando decidiamo di cenare al ristorante perché non ci va di cucinare a casa, o quando consultiamo uno specialista perché quel disturbo noioso non si decide a lasciarci. Perché tutto è arrivato troppo presto o troppo tardi o non è arrivato per niente, e se è arrivato, lo ha fatto secondo modalità e tempi che non ci corrispondono e, soprattutto, in una maniera che non ha niente a che vedere con quello che abbiamo sognato e desiderato nella nostra infanzia e nella nostra adolescenza, smarriti noi, per sempre, nel mucchio dei bambini perduti in volo verso l’isolachenonc'è. E lui capisce, mi guarda e mi lascia fare, continuando a sorridere, mentre mi strafogo di amarena e di fragola, di meringa e di bacio, di amaretto e cioccolato al latte. Continua a sorridere anche quando ci spostiamo verso l’auto che abbiamo parcheggiato lontano dal paese, in riva al mare. Un mare cupo, scuro, agitato e vivo, un mare che assomiglia questa notte più che mai all’oceano. Mentre la luna, la stessa di mille anni fa, ci guarda dall’alto del cielo, irraggiungibile, indifferente e lontanissima.
Post N° 504
Passeggiamo per Jesolo la sera, noi due soli. Siamo appena stati a cena nel posto che più mi piace al mondo: una locanda nell’entroterra senza pretese, un posto economico dove si mangia carne alla griglia e dell’ottimo pesce, un posto che frequento da sempre, ogni volta che mi riesce di venire da queste parti. Conosco la proprietaria da quando ero ragazzino ( “Alex, Alex,come sei cresciuto dall’ultima volta che te ho visto! Fate dar un baso, puteo beo!” ) una veneta procace, dal seno immenso e felliniano, dai fianchi prosperosi , dal culo generoso e bello ( mio zio diceva sempre che la Maria aveva un culo che parlava “ e gha un culo ca parla la tosa!” diceva sempre lo zio Eugenio, quando più o meno aveva l’età che io ho adesso) . Abbiamo cenato con Maria e suo marito, che lungo la settimana c’è poca gente e allora ci hanno invitato al loro tavolo. Abbiamo riso molto noi quattro. Passeggiamo per Jesolo dunque, la sera tardi. E il mio ricordo, in un attimo, va molto indietro nel tempo, ad un’estate di tanti anni fa, quando passeggiavo su questa stessa strada con i miei cugini e gli amichetti di Treviso e gli altri mi chiamavano “il piemontese” e io mi arrabbiavo molto e mi sentivo in qualche maniera escluso ( un sentimento che avrei provato molte volte nel corso della mia vita ), anche se parlavo il dialetto come lo parlavano loro ed ero nato nel condominio a due passi dalla loro casa. Si facevano chilometri su e giù lungo la passeggiata, con un cono gelato in mano che costava 100 lire ( due gusti a scelta ), a guardare i bar e le vetrine scintillanti dei negozi, a parlare per ore e ore di non ricordo più che cosa, forse dei nostri sogni o delle nostre piccole vite. Talvolta si andava sulla spiaggia a guardare il mare. A volte, dopo la passeggiata, si andava tutti sulla spiaggia, ci si sedeva sulla sabbia umida, ci si toglieva le scarpe e si guardava il mare, in silenzio. Era bellissimo. Ricordo che ci sentivamo tutt’uno con il mare, un mare che per noi era l’oceano, mica l’Adriatico con i suoi fondali bassi e sabbiosi, ma un mare profondo e liquido, agitato e vivo, cupo e solitario, che ci affascinava e ci faceva paura allo stesso tempo. Ci tenevamo abbracciati quando guardavamo il mare, in quelle notti d’estate di mille anni fa. Le strade erano piene di ragazzi come noi, di villeggianti e d’indigeni. Io mi collocavo nella terra di nessuno che stava fra i due gruppi. Sempre un po’in disparte, tutta la vita così, a difendermi da non so nemmeno bene io cosa, con quell’arietta da bambino perduto che mi coglieva a volte, come uno smarrimento profondo che mi prendeva dentro e che non riuscivo a trasferire in parole e a trasmetterlo a nessuno, tranne che rare volte a nonna Agnese. Se ne stava seduta sulla sua seggiola la mia nonna, mi guardava e scuoteva la testa preoccupata, come se presagisse che nulla di buono sarebbe potuto capitare ai ragazzini matti matti che chiedono la luna. Tutta la vita a chiedere la luna, nei momenti in cui la luna avrebbe anche potuto arrivare, ma soprattutto in tutti i lunghissimi, eterni anni in cui non c’era la più remota possibilità di ottenerla, in una trepidante attesa che andava oltre ogni logica, oltre ogni possibile speranza, in un’ostinazione radicata e ottusa che ancora oggi mi lascia smarrito e senza fiato, ogni volta che ci ripenso. E passeggiare per le strade di Jesolo , dopo quasi trent’anni, assume oggi un significato del tutto diverso. Forse perché, per la prima volta, mi sento a metà strada fra la mia perduta giovinezza e la mia prossima vecchiaia. O perché non ci sono quasi più i ragazzi che comprano coni gelato a due gusti e che trascorrono la serata a passeggiare parlando dei sogni e della vita sul lungomare. Perché a quest’ora i ragazzi staranno dormendo e usciranno soltanto quando io sarò ormai a letto, pronti e tirati a lucido per la serata in discoteca. E in effetti l’umanità varia che s’incontra per le strade di questo posto non differisce poi tanto da quella della mia gioventù, solo che è la loro nazionalità ad essere diversa. Per le strade di Jesolo, adesso, non ci sono più i villeggianti o gli indigeni modesti e mal vestiti come eravamo noi, ragazzini con la testa piena di sogni e di illusioni, con gli infradito acquistati per due soldi alla Upim o dal ciabattino all’angolo di casa, con la maglietta Fruit of the Loom del mercato ( tre per due mila lire ), i capelli incolti e i costumi da bagno che sembravano mutande; ora sul lungomare di questa città, la sera, ci passeggiano gli albanesi, i marocchini, i moldavi, i macedoni, i singalesi, quelli del Bangladesh, i pakistani e gli africani. Passeggiano come facevamo noi un tempo, con quattro soldi in tasca, la testa piena di sogni, i vestiti senza pretese, le scarpe fuori moda. Sono come noi trent’anni fa. Sì perché oggi coloro che fra noi possono permetterselo ( dei ragazzi qui, indigeni o villeggianti che siano, nemmeno l’ombra. E forse non ne vedo solo perché frequentiamo ambienti diversi e in realtà non vedo ragazzi in giro perché loro escono quando io vado a dormire e le discoteche che non potevo permettermi a sedici anni oggi, che potrei permettermele, non m’interessano più. O forse solo perché gli anni che passano inesorabili hanno scavato un solco incolmabile fra me e loro e quello che interessa me non interessa loro, anche se non è ben chiaro se qualcuno di noi, la mia generazione e la loro, sia mai riuscito ad acchiappare la luna ), coloro che fra noi possono permetterselo, dicevo, non trascorrono di certo le vacanze a Jesolo, con quattro vecchi in riva ad un mare che in realtà non ha nulla a che vedere con l’oceano, se non nell’idea bislacca di certi ragazzini matti matti; loro disdegnano la gente del posto e prenotano vacanze esotiche e alla moda in posti lontanissimi, dai nomi che non sanno nemmeno pronunciare, dai quali mandano cartoline ai parenti e agli amici con quella scrittura enorme degli imbecilli “posto bellissimo, tanti baci”, sorseggiano cocktails tropicali su terrazze che danno puntualmente su tramonti mozzafiato da calendario, soggiorno tutto compreso, menu internazionale e una volta a settimana cena italiana. Tutti contenti. Questa città, questa sera, mi coglie impreparato e mi riporta indietro negli anni. Dolorosamente indietro, per certi versi. E mentre mi domando che razza di percorso abbiamo mai fatto noi, presunti progrediti, presunti grandi, presunti civili ( come se si trattasse di misurare il progresso di un paese in base al numero delle discoteche che lo popolano o in base ai viaggi tutto compreso dei suoi abitanti o in base ai vestiti che la gente indossa, in base alla marca delle scarpe che porta ai piedi o a quella dei costumi da bagno da boutique che mette su quando va al mare –un mare che ha poco a che vedere con l’oceano sognato e immaginato da un ragazzino matto matto che si ostinava a chiedere la luna- ), mentre mi domando se questi poveracci che passeggiano oggi per le stesse vie che percorrevamo noi allora stiano sognandolo lo stesso sogno o quale mai sia il loro, se sia un sogno che caso mai preveda la luna, graziosa luna pallida del più raggiante plenilunio, mentre mi domando se veramente siamo arrivati noi da qualche parte e come e quando il meccanismo si sia inceppato, mi accorgo che siamo arrivati davanti alla gelateria del Sole, la stessa che frequentavo trent’anni fa e nonostante i proprietari siano cambiati e quello che serve i gelati oggi assomigli molto di più ad un personaggio di Canale 5 ( jeans a vita bassa, cintura D&G, capello rasato e berrettino da baseball indossato al rovescio ) e non abbia nulla a che fare col signore maturo dall’aria benevola che dispensava cioccolato e pistacchio, vaniglia a fragola, meringa e bacio, a noi ragazzi in certe notti d’estate della mia preistoria, mille anni fa, mi accorgo che qualcosa di antico è rimasto. Il bancone, ad esempio, o le foto di una Jesolo insolita ritratta sotto la neve d’inverno, la piccola porta del retrobottega e, soprattutto, la scritta un po’ sbiadita che recitava le specialità della Casa, quei gelati così unici, dai nomi improbabili e mirabolanti, che ci facevano sognare con l’acquolina in bocca, gelati riservati a certi adulti per via dei costi stratosferici ( altro che due gusti per 100 lire! ): Principino, Biancaneve, Sirenetta, serviti in alte coppe con bastoncini di cioccolato e canditi che sbucavano da tutte le parti. E allora decido all’improvviso di sedermi. Mi siedo al tavolino che da sul marciapiede e ordino la coppa più grande della lista, quella con più frutta, quella col numero maggiore di bastoncini di cioccolato , quella con più biscotti e più canditi. E Davide mi guarda sorpreso, perplesso e ironico: “ che ti prende, Alex? Tu non mangi questa roba di solito.”Ma stasera mi va così e mi metto a ridere all’improvviso, lasciando basito il ragazzo modello Canale 5 venuto a prendere le ordinazioni, un ragazzo bello in stile D&G, che non sa nulla di certe sere di mille anni fa, non sa nulla di un oceano che assomiglia all’Adriatico né tantomeno di una luna pallida e agognata da una vita, e a mala pena riesco a spiegare a Davide che si tratta di un rito privato, di una celebrazione privatissima e personale, la mia maniera di celebrare tanti sogni morti, tanti progetti naufragati e perduti, il mio modo bislacco per ricordare la mia giovinezza lontana, il mio modo personale per cacciare indietro la malinconia e la tristezza. Perché c’è una differenza insultante fra ciò che siamo diventati e ciò che avremmo voluto essere, fra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo voluto fare. Compresi quei due soldi che abbiamo messo via in tanti anni di presunta “carriera”, che non ci rendono la vita più felice, ma solo più comoda, nella prospettiva risibile, fallace e tutto sommato inutile di poter prendere un taxi quando abbiamo un appuntamento e il tram è appena passato, quando decidiamo di cenare al ristorante perché non ci va di cucinare a casa, o quando consultiamo uno specialista perché quel disturbo noioso non si decide a lasciarci. Perché tutto è arrivato troppo presto o troppo tardi o non è arrivato per niente, e se è arrivato, lo ha fatto secondo modalità e tempi che non ci corrispondono e, soprattutto, in una maniera che non ha niente a che vedere con quello che abbiamo sognato e desiderato nella nostra infanzia e nella nostra adolescenza, smarriti noi, per sempre, nel mucchio dei bambini perduti in volo verso l’isolachenonc'è. E lui capisce, mi guarda e mi lascia fare, continuando a sorridere, mentre mi strafogo di amarena e di fragola, di meringa e di bacio, di amaretto e cioccolato al latte. Continua a sorridere anche quando ci spostiamo verso l’auto che abbiamo parcheggiato lontano dal paese, in riva al mare. Un mare cupo, scuro, agitato e vivo, un mare che assomiglia questa notte più che mai all’oceano. Mentre la luna, la stessa di mille anni fa, ci guarda dall’alto del cielo, irraggiungibile, indifferente e lontanissima.