Arrancame la vida!

Post N° 519


Alle volte mi soffermo a guardare mi madre. E’ una donna ormai anziana, molto avanti con gli anni, anche se di salute sta ancora bene. E’ una donna piccola, dai capelli bianchi, dalle braccia legnose e forti, dalle mani grandi e dai piedi piccoli  che guardano un po’ in dentro e che le conferiscono un'andatura un po’ ondeggiante, come un giunco o una canna di bambù. Alle volte mi soffermo  a guardare la foto di mio padre, quella che ho nella camera oscura, quella in cui sorride di profilo, poco prima della sua malattia. Penso a quando sarò costretto a guardare nello stesso identico modo la foto di mia madre, quando se ne sarà andata anche lei. Non ci tengo ad anticipare i dolori, ma so che inevitabilmente quel momento dovrà arrivare. La morte non mi ha mai fatto paura, il momento della morte, voglio dire. Credo che sarà solo come chiudere gli occhi, un respiro un poco più corto, magari un sussulto. Nient’altro. La fine della vita dev’essere così: come una candela che si spegne piano, senza rumori inutili, senza clamori. Ogni tanto mi soffermo a guardare le rarissime foto che ho di me stesso. Mi vedo com’ero un tempo e a volte non mi riconosco. Ero io quel ragazzo di vent’anni fa che sorrideva all’obiettivo a Bagdad, con i capelli scarmigliati e nerissimi, con quegli occhiali da sole che nemmeno ricordo di aver posseduto, con quel viso delicato e magro. Ero io? Erano miei quei capelli che non stavano mai a posto e avevo un bel lavorare di pettine e di spazzola per cercare di domarli, ma che inevitabilmente si scompigliavano al primo movimento, come se fossero dotati di vita propria? Il lento trascorrere del tempo attraverso i miei capelli, penso a volte. Il lento e inesorabile trascorrere dei giorni attraverso i  miei capelli. Un tempo di un nero corvino, denso e liquido, ora con qualche filo argentato. E più avanti sarà il grigio e forse, se mai ci dovessi arrivare, perfino il bianco, in tutto simile a quello dei capelli di mia madre, adesso, di questi tempi. E mi sorprendo a sorridere da solo quando guardo queste vecchie foto e mi pare di ricordare, più indietro nel tempo, nella preistoria della mia vita, un bambino magro magro e serio, vestito con dei pantaloncini blu e con una camicia bianca, unico vezzo di mia madre, così da sempre poco abituata ai vezzi, che mi vestiva intenzionalmente con una camicina bianca la domenica per far risaltare ancora di più la mia pelle e i miei capelli scuri, unico cucciolo anomalo di una razza dai capelli color del lino, così tanto diverso dagli altri bambini che uno si chiedeva in che notte di plenilunio in cui giravano libere tutte le streghe fosse stato concepito questo bimbo strano e scuro come l’inferno, con quegli occhi tagliati obliqui e neri ( “mamma, Alexis  mi guarda!” diceva a volte, allarmato, il mio compagno di banco Roberto, quando si usciva da scuola), con quelle gambe secche e con quelle mani grandi, sproporzionate in un bambino ancora così piccolo. Me ne stavo spesso isolato, per conto mio, ai tempi della scuola elementare. Avevo qualcosa d’inquietante che non comprendevo appieno, gli altri mi evitavano, molti avevano paura di me. Nessuno voleva che li guardassi in faccia. Ricordo che più avanti negli anni, ai tempi dell’università, perfino una delle mie insegnanti fece un commento sul colore dei miei occhi. “ lei ha uno sguardo che fa paura, Padovan” ricordo che mi disse. Lo fece ridendo, con leggerezza, senza intenzione, ma io compresi il messaggio, che era lo stesso che mi veniva passato fin da quando ero bambino. Gli occhi neri sono strani, è vero, sono un po’ tragici anche. C’è una sorta di nero negli occhi neri, dove non si coglie il centro dello sguardo, il punto da dove viene lo sguardo, come se a guardare fosse il nero tutto intero. Ed è strano che, in mezzo a tante carte e a tante scartoffie, ogni volta che mi accingo a riordinare qualcosa nella mia casa e nella mia vita, salti fuori questa foto di tanti anni fa. Una foto dove un padre ancora giovane e allegro regge fra le braccia questo bambino piccolo, in un gesto giocoso e ardito, come se stesse per far volare in aria questo bimbo che nella foto sembra gridare di gioia o forse di leggero spavento. E mi domando se sia mai esistito veramente, in qualche istante del passato, questo padre spensierato e giovane, che mi teneva in alto con un gesto tanto tenero, scontandomi un poco per vedermi meglio, sorridendo con orgoglio, con una bellezza soave, quasi malinconica. Perché, fin dove arriva la mia memoria, mio padre è sempre stato un uomo preoccupato e stanco e solo attraverso questa foto giunge e sopravvive insperata l’immagine di questo uomo giovane, quasi fragile, che sorride con un gesto timido, con un incanto tenero, che in realtà non corrisponde per nulla  all’immagine che  conservo di lui. Un uomo al quale non ho potuto dire le cose importanti. Perché sempre assente, preso dalla fabbrica e dal lavoro, dalla nostra sopravvivenza. Perché io ero troppo timido o troppo stupido o tutte e due le cose insieme. Poi perché, quando finalmente avevo raggiunto un certo equilibrio, la sua mente si  è disfatta, liquefatta, persa in un labirinto inestricabile nel quale nessuno è più riuscito a raggiungerlo e non è stato pertanto possibile fargli intendere i miei piccoli successi, la mia vita che scorreva come un fiume in piena, non è stato possibile spiegargli di Davide e come fosse lui, come fosse il nostro amore, che cosa stessimo costruendo insieme, non è stato possibile condividere nulla, proprio negli anni in cui avremmo potuto confrontarci e spiegarci e capire. Ogni tanto mi soffermo a guardare mia madre. E’una donna avanti negli anni, bianca e solida come una roccia. Con lei non voglio perdere nulla. Con lei non mi nego nessuna emozione. Me la stringo ogni tanto al petto e la ricopro di baci. Lei si scosta ritrosa, come una contadina timida, con quella mentalità da povera che non è mai riuscita a perdere, nonostante oggi non debba fare più la serva a nessuno e possegga tutti gli agi e i piccoli lussi che col tempo le abbiamo regalato. Sorride serena la mia mamma e io provo un tumulto al cuore ogni volta che penso che questo cammino dovrà terminare, un bruttissimo giorno. Ma prima di allora ci potranno essere spazi di tempo in cui la vita, trasfigurata in amore, trionfi sulla la morte e anche se la morte dovrà alla fine vincere la partita, anche se la vita su questo pianeta è per molti aspetti e in moltissimi momenti atroce, nonostante tutto e sopra tutto, solo l’amore sarà forte e terribile come la morte e si ergerà sulla morte come uno stendardo in fiamme, fino alla fine dello spazio e del tempo. Ogni tanto mi soffermo a guardare mia madre, dicevo.http://it.youtube.com/watch?v=1Tg5TQvjur4