Arrancame la vida!

Post N° 544


Torno da solo, verso sera, a Punta Sabbioni. Tutte le sere torno da solo. Lui prova fino a tardi con l’orchestra. Torna da solo anche lui. Prendo il vaporetto a Fondamenta Nuove. Lascio il teatro verso il tramonto e mi incammino piano fra le calli di questa città che non smetterà mai di essere unica ai miei occhi. Una città dentro la quale mi sono sempre mosso bene, fin da quando ci venivo da bambino,con la pescivendola di Piazza Dante, di nascosto a mia madre che passava le giornate a cercarmi. “Ti te si andà a Venesia, demonio de un fiol!” mi diceva tutta arrabbiata quando tornavo la sera. Mi prendevo qualche schiaffone, ogni tanto. Tornavo che puzzavo di pesce, tanto stretto era il carrettino della siora Ester, che si stava tutti insieme, donne, bambini e totani, avvinghiati in un abbraccio umido che sapeva di salsedine e di sudore. “ Non potresti prendere il treno da Treviso? Evireresti di spenderti dieci euro di parcheggio tutti i santi giorni, no?” Certo, ha ragione. Il fatto è che mi piace venire in questa città dall’acqua, mi piace venirci dal mare. Sulla via del ritorno è il momento più bello. Il giorno declina. Il mare, il cielo, occupano lo spazio. Lontano, il mare è già ossidato da una luce oscura, così come il cielo. Fa caldo nel vaporetto. C’è gente che torna da qualche parte. Ci sono pochissimi turisti in questa stagione e questa è una linea usata soprattutto dai locali, da coloro che stanno a Murano o a Torcello e tornano, per qualche motivo, alla terraferma. La mattina le persone sono assonnate, la sera stanche. C’è un ché di terribilmente umano, una vulnerabilità dolce e tenera nei gesti e negli occhi della gente dei vaporetti. Non c’è più fretta qui. Siamo in un  mondo isolato, un mondo al di fuori dal mondo, come protetti dall’acqua che ci circonda.  Sul far della sera, al ritorno, è bellissimo. Di una bellezza che fa quasi male. Nessuno parla sul vaporetto. Si riposano. Sono silenziosi. Sono separati gli uni dagli altri. Non si parlano. Eppure c’è qualcosa in comune fra loro: la stanchezza, il vento gelido di fuori, il mare. L’acqua incomincia a salire, si direbbe. La si sente avvicinarsi. Un battere sordo dal fondo della barca. Il cielo si fa molto scuro. L’aria ancora più fredda. La sera precedente a quella della prima l’abbiamo trascorsa su di una panchina presso la fermata del vaporetto.  Faceva molto freddo quella notte. La gente passava intirizzita, avvolta in spessi capotti dalle forme incerte, le scarpe pesanti dell’inverno alle porte, gli occhi bassi. Lui è contro il muro, in un piccolo spazio che conserva un briciolo del calore del giorno. I suoi occhi sono di una trasparenza impressionante. L’assenza dello sguardo è assoluta. I suoi occhi si chiudono piano. Lacrime gli scivolano sul viso. Il mare è lontano attraverso le palpebre chiuse. La città, laggiù, si è fatta invisibile. Le lacrime scivolano giù dai suoi occhi. “Su che cosa piangi?” “ Sull’insieme. Piango sull’insieme. Piango sulla vita.” Mi appoggio nel vano del suo braccio, contro il suo cuore”Piangi anche tu?” “ Piango? Io?” Gli occhi si aprono, guardano senza vedere. Poi si richiudono. Ritornano al buio. Gli stringo le mani gelate. Gli poso un bacio sulle mani stanche. Gli bacio le lacrime. Lui asciuga le mie.http://it.youtube.com/watch?v=JAiIEWzpdMg