Arrancame la vida!

Post N° 562


Stanotte ho sognato che cadevo per strada. Ero ubriaco. Ho letto da qualche parte, non ricordo più dove, che chi ha avuto dei problemi con le dipendenze spesso sogna ancora del suo passato, anche dopo molti anni. E’ come un’angoscia antica che ritorna. Ogni tanto mi capita. Mi sveglio sudato fradicio e fatico a riconoscere la nostra stanza, il letto, i contorni. A volte ci impiego un istante perfino a riconoscere Davide. E’ terribile. E’ come se fossi tornato indietro di colpo a dodici anni fa. A volte, dopo uno di questi incubi, mi sveglio con la nausea, la stessa che avevo quando mi destavo dopo aver bevuto molto. Chi non l’ha passato non può nemmeno immaginare di cosa si tratti. Ma oggi è stata una giornata speciale perché mi ha chiamato Ivan, il mio Ivan, quello di sempre, lui. “Ho provato col numero che avevo, non ero sicuro che fossi ancora lì. Mi dispiace di non averti mai cercato prima. Ora sono qui” Ti voglio tanto bene Ivan , te ne vorrò sempre. Tu hai un posto speciale nel mio cuore, tu occupi un angolo che solo tu potresti occupare. La tua voce scorre attraverso un fiume di parole. Ti fermi spesso, con lunghi silenzi, sei tu, quello di un tempo, eppure così diverso. So che sarai un ottimo psicologo Ivan. Ora che terminerai gli studi intrapresi potrai davvero essere di grande aiuto a quelli come noi. La nostra piccola stanza, Ivan. Le coperte azzurre che ci coprivano a malapena i piedi. I termosifoni vecchi e giganteschi, le piastrelle coi minuscoli fiori del bagno, la finestra sul viale. Cadevi spesso Ivan, te lo ricordi? Siamo giunti in quel posto lo stesso giorno, un martedì mattina, all’alba. Io avevo bevuto una bottiglia intera di wodka la sera prima, ma avevo avuto l’accortezza di avanzarne un po’ per il mattino. Non sarei riuscito a rimettermi in piedi senza bere. Riuscii a chiamare Roberta, no so come, che mandò un'ambulanza. Da solo non sarei mai arrivato fino in ospedale e il giorno era stato fissato. Mi trascinavo lungo i muri, ormai non camminavo quasi più. Quando ci sistemarono nella nostra stanza ci diedero da compilare un foglio, quello del ricovero, credo. Ricordo che non riuscivo a tenere la penna in mano. Non ci riuscii per più di una settimana. La mano mi tremava, non riuscivo a tracciare le lettere, non riuscivo a mettere a fuoco la distanza fra me e il foglio. Cercavo di scrivere e invece piangevo. Le lacrime mi cadevano senza che io me ne accorgessi. Tu eri seduto sulla sedia e ti dondolavi. Non riuscimmo a parlarci per tre settimane. Le prime tre settimane che passammo là dentro, quelle più dure, quelle della disintossicazione del corpo. Non chiudevamo occhio, nonostante le massicce dosi di ansiolitici che ci somministravano per farci soffrire di meno. Ci lamentavamo al buio -il male, il dolore, i crampi allo stomaco, la testa che girava, l’ansia che ci divorava, la colpa, la vergogna-e continuavamo a non parlarci. Tu eri il mio specchio ed io ero il tuo. Ci ripugnavamo a vicenda. Il telefono ci era interdetto.  Le viste non ci erano consentite. La sera la porta d’ingresso era chiusa. Di giorno il piantone impediva ogni possibile fuga. C’impiegammo un sacco di tempo  per comprendere che da là non avremmo avuto scampo. Era la nostra galera. Lo fu per molto tempo così. Una mattina ti svegliai piano, ti parlavo per la prima volta. Ti dissi che erano tre settimane che non bevevamo più, che eravamo ancora vivi, che forse,a quel punto, ce l’avremmo fatta. Tu ti mettesti a singhiozzare forte.  "Eravamo così presi dal nostro male che non ci accorgevamo nemmeno di essere vivi!” dicesti. Ti abbracciai stretto. In quel preciso momento entrò Roberta. La tua voce al telefono. “ Sono giorni pieni questi, Alex” hai detto “Ma io non  dimentico. Io non ti dimentico”. Neanch’io ti ho mai dimenticato Ivan, amico dell’anima mia.http://www.youtube.com/watch?v=48xzSx0NNX4&feature=relatedMaria Callas-Deh, non volerli vittime- Norma