Arrancame la vida!

Post N° 676


Ogni  tanto qualcuno mi chiede perché non mi piaccia Torino. Questa è una storia antica quasi quanto me. Sono venuto a vivere a Torino che avevo quasi sette anni. Mio padre aveva trovato lavoro alla Fiat, mia madre, la Ines, detta Ninni,  trovò poco dopo un posto come donna di fatica presso una ricca famiglia della collina. In breve tempo fece carriera e da sguattera venne promossa cameriera, cuoca e donna tuttofare. Ci rimase finchè diventò anziana in quella famiglia. In casa parlavamo solo in dialetto. Feci la prima elementare in una scuola nella periferia di Treviso, dove tutti parlavano come me, insegnante compresa. Quando ci spostammo a Torino capii subito che la gente parlava un’altra lingua. Per qualche anno fu come essere all’estero. A scuola commettevo tutti gli errori che commetto i veneti che non hanno studiato. Mangiavo le doppie, dicevo xe al posto di è, gha al posto di ha, ghavemo al posto di abbiamo. A chi mi chiedeva da dove venivamo io rispondevo : “ semo de a Marca”. La gente mi guardava basita, senza comprendere.  Pochissimi sapevano che cosa fosse la Marca. E siccome Treviso era il centro del mio mondo, io non capivo come i torinesi  potessero non sapere che c’era un universo al di là della Mole che si chiamava Marca. Negli anni sessanta noi veneti emigravamo in massa. Eravamo come i meridionali. Ci chiamavano i terroni del nord. Come capita sempre in ogni migrazione, anche in quegli anni si creavano gruppi e sottogruppi. Per anni frequentammo solo veneti come noi e meridionali, di solito compagni di lavoro di mio padre. Ricordo che le gente diceva di noi che eravamo ignoranti,ma grandi lavoratori, onesti, decorosi e puliti, anche se poveri quanto i napoletani o peggio. Mi è rimasta addosso quella sensazione che parlassero di me come di una bestiolina: ero ignorante come un  animale, però ero pulito. Più avanti, quando mio padre scioperava con i suoi compagni per strappare un salario un poco migliore, mi dissero che eravamo degli ingrati, che loro ci avevano ospitato e offerto un lavoro e noi li ripagavamo così, bell’affare. Anche questo me lo ricordo bene. Parlo di un Veneto antico io e naturalmente mi feriscono a morte le parole di certi leghisti della mia terra che  si comportano adesso come i torinesi si comportavano con noi in quegli anni. Niente a che vedere con me. Per anni Torino non fu altro che l’anonimo, orribile, gigantesco condominio dove abitavamo in periferia e la bruttissima scuola che frequentavo. Non andavamo quasi mai in centro. Mi mancava l’acqua soprattutto. Il Po era un fiume minaccioso che scorgevo fra le gru che costruivano orribili condomini identici al mio. Mi mancava il Sile con la sua acqua cristallina e pura. Mi mancava la laguna, l’Adriatico. Dalla finestra della piccola cucina scorgevo le montagne, ma io odiavo le montagne. Io ero cresciuto davanti al mare ed il mare da Torino era troppo lontano. Mi mancavano le nostre gite a Venezia, le domeniche trascorse a caricare i granchi con la pescivendola di Ponte Dante alla Giudecca, quando ci andavo di nascosto dai miei, che facevano finta di niente. Mi mancavano  i miei amici, i miei cugini e la mia lingua. Quando finivano le scuole i miei genitori mi rimandavano a casa. Veniva a prendermi lo zio Osvaldo con la sua Simca bianca.  Anna era troppo piccola, quindi restava con i miei genitori a Torino.Tornavo a settembre inoltrato, pieno di borse e di sacchetti di polenta bianca che ci mandava nonna Agnese. Piangevo per un mese di fila, a scuola dovevo ricominciare tutto da capo con le doppie e la maestra si arrabbiava un sacco. Più avanti venne una serie infinita di anni anonimi e senza storia.  Furono gli anni del liceo e dell’università. Torino era un fondale sul quale scorreva la mia vita, ma la città non mi è mai entrata veramente dentro. Al di là del centro storico, Torino mi è sempre sembrata brutta e anonima, costituita per lo più da una serie di palazzi anni ’60 e da strade dritte dai nomi altisonanti di reali che ho sempre confuso. Ho provato a studiarla, a girarla in lungo e in largo per apprezzarne le qualità e le doti, ma ho fallito. Mi è sempre parsa un città chiusa, provinciale, piccola. Un’isola di nani, come dico a volte. Ho molti amici torinesi, ovviamente, e oggi che sono adulto, la provenienza della gente non ha la minima importanza, ma a Torino mi sono sempre sentito un ospite. Questa non è mai stata la mia città. Quando ebbi i soldi mi comprai un appartamento nel centro storico, per essere almeno in un posto esteticamente decente. Quando Davide si trasferì lo fece solo per amore. Eravamo come due estranei  in questo posto. Abbiamo vissuto in questa casa come avremmo potuto vivere a Parigi, a Buenos Aires o nel deserto, alla nostra maniera, con la nostra gente. Torino era ancora il fondale di un palcoscenico. Ora che il trasferimento si avvicina non ho alcun rimpianto. Non lascio niente qui. Quarant’anni in questo posto e nessuna affezione. Nessuna nostalgia. Come se la mia vita incominciasse adesso, senza sogno né parentesi. Il sogno di un bambino invecchiato, la parentesi di una vita a volte difficile e contorta. Sono partito che ero un bambino poverissimo e felice. Gli anni del castigo li ho trascorsi a Torino. Ora che sono pulito torno a casa. Prendo mia madre vecchia e zoppicante, il mio amore di tutta una vita, la mia Lia, mia sorella e parto. Sì, parto.
Ninni-Roberto Vecchioni