Arrancame la vida!

Post N° 678


C’è stato un periodo della mia vita in cui collezionavo cartoline. Mi sarebbe tanto piaciuto viaggiare, ma non potendomelo permettere, lo facevo con la fantasia. Le cartoline assolvevano egregiamente  allo scopo.  Essendo le persone che frequentavo per la maggior parte spiantate come me, va da sé che di cartoline ne ricevevo pochissime. Fui costretto quindi ad organizzarmi in un altro modo. La famiglia dove lavorava mia madre ( la contessa Tumistufi, come la chiamavo io ) aveva una vita sociale molto intensa, un discreto numero di amici giramondo, odiava le cartoline pur ricevendone tantissime e fu pertanto ben lieta di potersene disfare regalandole al sottoscritto. Per tanti anni le ho conservate in una scatola nel salotto di mia madre, insieme ad alcune fotografie antiche. Ogni tanto le guardavo quando andavo da lei. La maggior parte dei posti ritratti da quelle cartoline li avevo ormai conosciuti di persona, per cui non c’era motivo che perdessi tempo con quelle cose. E tuttavia le guardavo ogni tanto. Le guardavo per tenere sempre a mente quanto potesse essere laida, cattiva e stupida una certa borghesia. Ricordo una cartolina in particolare, un paesaggio del Marocco, un posto verdissimo, a dispetto di tutto quello che potevo sapere su quel paese, scritta con quella calligrafia enorme, propria di coloro che si muovono per il mondo come se il mondo appartenesse loro,una calligrafia fastidiosa, senza incertezze, priva di qualunque esitazione, scritta dalla mano di chi sa con certezza assoluta che il suo posto è stato deciso nei secoli dei secoli, ed è un posto di riguardo, al di là di ogni cultura ( la cultura e l’intelligenza non hanno potere alcuno di fronte alla furberia e alla volgarità conferita dal denaro e dall’abuso ), al di là di ogni merito, oltre ogni immaginazione. Perché la cartolina conteneva una serie di frasi stupidissime in rima baciata, una poesiola banale e sciocca, in fondo, degna della cretineria di quell’isola di nani, che  però mi rimase impressa per sempre. E  mi ci vollero settimane per capirne il senso, per capire di che cosa si trattasse, per capire che i signori erano nient’altro che golfisti oziosi che rincorrevano il sole per i quattro angoli del mondo, carichi dei vizi e dei tic tipici della loro classe ( una classe di nani sgraziati e deformi ) e tolti dalla loro isola di cartone i re non sarebbero stati  né tanto alti  né tanto biondi né tanto belli ( il riattratto ad olio della contessa Tumistufi nel salone della villa dove una volta fui invitato a fare merenda col figlio del giardiniere, il suo abito d’organza, la sua chioma lucida e sfolgorante, le sue mani da nullafacente, un frustino appoggiato in grembo, lo sguardo fiero e un setter mollemente accucciato ai suoi piedi ),né avrebbero avuto il minimo valore le sentenze estetiche e morali, quel mondo piccolo e ristretto nel quale, per errore, mi ero imbattuto e che mi schiacciava come un macigno, né le loro case sarebbero state tanto grandi e luminose, né i loro abiti così di classe, se non si fosse dato il caso che loro erano i vincitori e noi i vinti, in un circolo disperato e senza fine, in una catena antica quanto il tempo. E proprio quando pensavo ancora che quello dovesse per forza essere l’ordine precostituito delle cose, quando ancora mi dibattevo per sfuggire all’olimpica luce di quella classe senza cuore né coscienza ( una classe fatta di signori in doppiopetto grigio e maglioni di chachemere, uomini che dissertavano sulle cose del mondo come se le avessero appena loro stessi create, una classe fatta di donnette altere e senza storia che si dilettavano di poesia, pittura e narrativa, con quell’aria da gatta morta e in quanto tali assai pericolose, donne convinte del loro intrinseco valore, supportate da un circolo di amiche altrettanto mefitiche e sciocchine, così banali, in fondo, come la loro stessa vita, amiche che firmavano petizioni e appelli per i miserrimi del mondo, ma che si sarebbero ben guardate dal pensare al bene di chi  stava ad un passo da loro, così stupide, in fondo, nella loro cretineria gratuita che non potevo nemmeno odiarle tanto erano piccole e meschine ), quando ancora pensavo a tutto questo, a come sfuggire all’ingiustizia e a tutto quel potere, ecco che arrivò Davide. Sì, allora arrivò Davide. Perché il mio Davide veniva da lontano, non apparteneva a quell’isola di nani e nemeno alla razza proterva dei servi, non volle inchinarsi mai davanti a quella combriccola di cartapesta. Davide guardava dritto con i suoi occhi chiari gli  occhi della gente di quella risma e se la rideva. Rideva nemmeno con scherno, rideva, credo, quasi con pena, impegnato, lui, in una lotta immensa e vera. Lui, noi, non faceva parte della razza degli eletti, ma era libero, forte e solidale con tutti. Davide non perse nemmeno tempo a guardare la contessa, una volta che la incontrammo già avanti con gli anni,  malata e zoppicante, ma ancora  capace di gettare sguardi di ghiaccio e di ferire il mondo che le si parava davanti. Lui si presentò e rise, come se le stesse dicendo  “ che  splendida vita sprecata!” E fu a partire da quel momento che capii che il  mondo è sì per certi versi ingiusto, immutabile e triste, ma che solo la solidarietà e l’amore sono più forti di tutto il resto, più forti di tutto il male, più forti dei fantasmi del passato, più forti di tanti e tanti anni passati a combattere contro la fame e la paura, tanti e tanti anni trascosi a combattere contro i mulini  a vento.Più forti di tutto. Oltre ogni confine. Fabrizio De Andrè