Arrancame la vida!

Post N° 701


Ho fatto pochissimi ritratti nella  mia vita. Quando fotografo i bambini di Kabul, di Gaza o di Bagdad non eseguo un ritratto, fotografo la guerra, come tutte le altre volte. Non mi è mai stato facile fotografare il volto di una persona se non  conosco profondamente la sua vita. Non so come spiegarmi. Non basta l’angolazione giusta, la luce perfetta, il tempo esatto di esposizione. Quelle sono cose tecniche che si apprendono con l’esperienza, e direi senza troppa fatica, se uno possiede un minimo di attitudine. Fotografare il volto di qualcuno è come scattare una foto alla sua anima. Non basta fare solo click. In gioventù mi è capitato di fare dei ritratti su richiesta, su commissione, potrei dire. Di solito la gente rimaneva soddisfatta, alcuni addirittura incantati, soprattutto dal bianco e nero, per via delle ombre e della luce. Io rimanevo perplesso e mi chiedevo che cosa mai ci trovassero di speciale in uno scatto del genere. So che la maggior parte dei fotografi che lavorano in studio chiede grosse cifre per lavori di quel tipo. Non mi stupisco più di questo, ci sono abituato. Ho delle grosse difficoltà, da sempre, a gestire il lato economico della mia professione. Anche per questo sono grato al quotidiano per cui lavoro. Essere impegnato con loro mi esime dal contrattare e dall’inevitabile barattare la mia merce. Mi pagano per il lavoro che faccio, un fisso, indipendentemente  dal luogo in cui io mi trovi a fotografare. Ho una fortuna immensa perché  il mio lavoro riguarda soprattutto la documentazione e, come tale, mi esenta automaticamente dal cosiddetto scoop, dal colpo grosso, da quella vita frenetica e sconsiderata che travolge  alcuni altri colleghi, quelli che in gergo si chiamano reporter d’assalto. Non sarei mai in grado di gestire le immagini in quel modo. E nemmeno la guerra, credo. Tornando ai ritratti, dunque, c’è stato un  periodo, molti anni fa, in cui mi aggiravo per le strade a caccia di volti. Mi colpivano alcune persone dall’aria triste,  con quella tristezza che non è legata ad un momento particolare, ma è qualcosa che nasce da dentro e non se ne va veramente mai.  Ne ero irresistibilmente attratto e ne subivo in un certo senso il fascino. Scattavo e ottenevo dei discreti risultati. Quello che volevo in realtà era compenetrare l’animo di quella persona, entrargli dentro, capire la sua sofferenza. Non ci riuscivo quasi mai e, una volta sviluppata la pellicola nella camera oscura, me ne restavo con la mia bella foto fra le mani che non mi diceva più niente. Era soltanto carta colorata, niente di più. La frustrazione era immensa. Anche oggi ho delle grosse difficoltà a relazionarmi con quello che piace ai di più, con quello che colpisce la massa. Anche per questo motivo sono grato al giornale. So con esattezza,  al di là delle foto di guerra  ( un modo a parte), cos’è che piace alla gente e di solito scopro puntualmente che non sono le stesse cose che piacciono a me. La prima volta che feci una mostra a Madrid scelsi da solo tutte le foto che sarebbero state esposte. Ci misi un mese e alla fine operai una scelta. La sera dell’inaugurazione venne anche Jesus, quello che poi sarebbe diventato il direttore del giornale per cui lavoro. Non so come arrivò in quella saletta scura e angusta di Lavapies, una zona  molto popolare della città, dove avevo trovato quel posto a buon mercato grazie ad alcuni amici spagnoli. Passò in rassegna le mie foto, mi avvicinò e mi disse: “  Quelle di Kabul vanno bene, le altre non piaceranno a nessuno”. Non sapevo nemmeno chi fosse quel tipo, allora, e il suo giudizio  che considerai affrettato e ingiusto mi infastidì alquanto. “ Non piaceranno a lei, forse” gli dissi col mio solito tatto. “ non è detto che tutti abbiano i suoi gusti .” Lui fece finta di non aver sentito e aggiunse : “ Ragazzo mio, lei non venderà mai una foto come quelle che ha esposto. La gente vuole ben altro dall’arte. La gente vola basso, mio caro. Le sue sono foto strane, assurde. La gente farebbe la fila se lei avesse esposto un bel paesaggio. E la figa.” Disse proprio così: la figa, el coño. “ Che cazzo vuole da me?” gli chiesi adirato “ Le foto di guerra hanno un senso. Mi chiami se vuole, che ne riparliamo. E’ quello che lei sa fare. Lasci il resto agli altri e si concentri su quelle. “ Mi mise fra le mani un suo bigliettino da visita. Andandosene mi strizzò l’occhio e mi disse “ non credo nemmeno che a lei importi poi tanto di vendere o no, vero, amico mio?” Quel giorno scelsi quello che sarebbe stato il mio destino. Ho fatto alcuni ritratti alle persone che amo. A mia madre, alcune volte, sempre di profilo, quasi sempre in bianco e nero, sempre e solo su pellicola. A mio padre, in tuta da lavoro. A nonna Agnese, nei suoi ultimi anni,  ai suoi occhi di cristallo puro. A mia nipotina Lia, a mia sorella, alla Silvia, a Paolo, alla nostra cagnetta Lea. E a Davide. Fotografo la loro anima, i loro desideri, le loro speranze, le loro fatiche, i loro sogni, i loro tormenti, le loro passioni, la loro voglia di vivere, il loro bisogno disperato di amare, lo loro conoscenza delle cose, il colore immanente dei loro pensieri, l’energia che scorre nelle loro vene, il suono della linfa che passa nei loro corpi, il tremito dei loro aneliti, la loro tristezza antica, il sano vigore della loro allegria e il significato profondissimo delle loro esistenze.  Molti  anni dopo, quando già lavoravo per lui da parecchio tempo, Jesus sponsorizzò i miei lavori in una mostra che si tenne nel  bellissimo Teatro Colon. In mezzo alle foto che ritraevano la tragedia di Gaza decisi di esporre un ritratto che feci a Davide un pomeriggio, a casa nostra, d’inverno. Nella foto si vede il suo volto pensoso, i capelli  neri e lisci che gli incorniciavano le guance scavate,  gli occhi suoi trasparenti, come velati, lo sguardo fisso all’obiettivo e pur lontano, un leggero tremito di freddo che gli correva sulla pelle e che si percepiva con clamore. E, sopra tutto, la sua espressione attonita, come di attesa, un’attesa lunga come una vita, un’attesa estenuante, travolgente e tragica che faceva del suo bellissimo volto una maschera  dolorosa ed esangue, come se lui fosse realmente vissuto nella mia testa e nei miei pensieri. “ E’ lui l’amore, vero?” mi chiese Jesus quella sera, appena mise a fuoco i lavori“ Sì, è lui l'amore. E’ lui soltanto. E' lui l'unico amore possibile.” gli dissi  io quella sera.Astor Piazzolla-Soledad