Ziggy Stardust

cap 28


28. Siamo conservatori quasi per necessità10. Schizofrenia Se davvero ci troviamo nel bel mezzo di uno scontro tra civiltà e barbarie, non è una perdita di tempo fermarsi a capire, per un attimo, da che parte stanno le istituzioni a cui affidiamo il compito dell'educazione. Le fornaci ufficiali dove si mettono in cottura i nostri cervelli. Scuola e televisione, direi: è lì che passa il grosso della formazione collettiva. Ci sono naturalmente tante altre cose, ma se vogliamo guardare alle due fornaci maggiori, è lì che dobbiamo fermarci. E chiederci: da che parte stanno? Facile: la scuola sta dalla parte della civiltà, la televisione da quella della barbarie. Evidentemente ci sono un sacco di eccezioni: una singola figura di professore o una particolare trasmissione possono cambiare molto le cose. Ma se dobbiamo attenerci a una tendenza di massima, vincente sulle altre, allora penso si possa dire serenamente che a scuola si insegnano i principi della civiltà di monsieur Bertin e alla televisione domina l'ideologia dei surfer. Non ho tempo di fare tutti i distinguo del caso, e capire dove la scuola elementare è differente dalla scuola superiore, e dove Report è differente dai reality show: ma credo che, in linea di massima, si possa effettivamente riconoscere che la scuola presidia i valori della civiltà, e la televisione sperimenta senza alcuna cautela il nuovo sentire dei barbari. Cosa se ne può concludere? Innanzitutto che siamo gente schizofrenica, che al mattino ragiona come Hegel e dopo pranzo si muta in pesce, e respira con le branchie. Cosa che non finisce di affascinarmi. Nel liceale che al mattino studia Lorenzo Valla (succede) e nel pomeriggio si trasforma in un animale della rete, decollando nel suo personale multitasking, è inscritta una schizofrenia che andrebbe capita. Come è spiegabile la mansuetudine con cui accetta la scuola? O, al contrario, come spiegare la naturalezza assoluta con cui vive da pesce non appena si chiude in camera sua? E' una singolare specie di anfibi mentali, o quel che vivono al mattino lo vivono trattenendo il fiato, in una sorta di ipnosi rinunciataria? Oppure, al contrario: sono vivi solo al mattino, e il pomeriggio si fanno frullare da un sistema luccicante di cui sono vittime più che protagonisti? Ma anche, si potrebbe dedurre, siamo una collettività in cui i principi della civiltà restano una specie di boccone prelibato, riservato a chi ha la possibilità di formarsi nelle istituzioni scolastiche, e la barbarie è una specie di ideologia di default, concessa gratis a chiunque, e consumata massicciamente da chi non ha accesso ad altre fonti di formazione. Cosa non inedita, nella nostra storia: la civiltà come lusso, e la barbarie come riscatto degli esclusi. Certo, rispetto al passato, noi possiamo farci forti di una scolarizzazione di massa che non ha precedenti: e possiamo credere che, in qualche modo, ci è riuscito di rendere disponibile ai più il luogo protetto in cui la civiltà consegna la sua eredità. Ma rimane sospetta l'acquiescenza con cui si è abbandonato l'altro pilastro formativo, la televisione, consegnandolo allegramente al nemico. Passi la televisione commerciale, ma quella pubblica? Come può essere accaduto che sia divenuta, essa stessa, un quartier generale dei barbari? A parte ogni ragione di carattere tecnico o economico, non puzza un po' che si sia consegnato al nemico, quasi senza combattere, proprio il quartiere più popolare, ritraendosi nei quartieri dorati del centro città? Lo vedete il maligno istinto a reagire all'aggressione dando in pasto i peones più deboli e intanto ritirando la parte nobile dell'esercito nel lusso di blindate roccaforti? Errore strategico, perché se lasci arrivare il barbaro sotto le mura, poi quello le scavalca, o trova la feritoia, o compra il traditore. 11. Politica culturale. E in mezzo, tra televisione e scuola, c'è tutto il campo aperto della cultura e dell'entertainment. In parte è un terreno lasciato all'istinto del mercato. Ma in parte è presidiato invece dalla collettività, che lo gestisce secondo criteri che poi noi chiamiamo: politica culturale. Con quali fini? Tramandare la civiltà o convertirsi alla barbarie? Bella domanda. A pensare al nostro cortile, verrebbe da rispondere: tramandare la civiltà. Viviamo d'altronde in un paese, noi italiani, che, solo nella preventiva conservazione e nella difesa dei propri beni artistici, brucia immense quantità di risorse e attenzione: il che rappresenta un compito tanto doveroso quanto allineato ai principi e ai valori di monsieur Bertin. E' un tipo di cura orientato al passato e alla salvaguardia della tradizione: ovvio che se ne sia usciti fortemente segnati: per gente abituata a tenere in piedi monumenti che crollano, deve risultare ovvio che lo stesso tipo di gesto vada fatto per cose meno materiali come le idee, la bellezza o il sentire morale. Siamo conservatori quasi per necessità.         Comunque si giudichi la faccenda, possiamo quindi dire che, da noi, quando la collettività si muove per indirizzare il tempo della gente e le sue sortite culturali, lo fa con lo scopo di riaffermare e diffondere i principi della civiltà. Fino a qualche anno fa, poteva essere un principio pacifico e inattaccabile. Ma adesso? Quale senso profondo può avere e bruciare risorse significative per consegnare a così tanti barbari un corredo mentale di cui loro, da tempo, hanno deciso di fare a meno? Non sarebbe piuttosto sensato usare le stesse risorse per accompagnare il formarsi di quella strana, nuova, civiltà, magari costringendola a connettersi con la saggezza e il sapere che essa, sbrigativamente, tenderebbe a liquidare come anacronismo inutile?         La parte più facile e immediata di un simile dubbio ha iniziato a salire in superficie, nel mondo delle politiche culturali, in questi ultimi anni. E la forma del dubbio è diventata questa: non è che dobbiamo andare un po' incontro a questi barbari, e trovare un modo di presentar loro le cose un po' più accattivante? Naturalmente, come progresso è piuttosto misurato, per non dire ridicolo, ma è sempre meglio di niente. Così si è arrivati a porsi il problema del come tramandare la civiltà. Che so: si è arrivati alla ovvia intuizione che la struttura ottocentesca dei musei non era proprio il massimo per un quattordicenne figlio di Internet. Oppure si è capito che, versando le stesse cose che si sono sempre fatte nel contenitore di un festival o di un grande evento, si mima quella struttura da sistema passante e da sequenza sintetica che i barbari prediligono su ogni altra. Oppure si è andati a cercare un tratto spettacolare, anche nei gesti più composti e rigorosi, per ritrovare quella velocità, e quella produzione di movimento, senza le quali quei gesti restano al di fuori delle consuetudini dei barbari. Insomma, ci si è dati un gran da fare. A monte, il tipo di intelligenza non è cambiato molto, e anche le persone, e l'età di quelle persone: ma una ventata di modernismo spudorato ha iniziato a scompigliare le stanze, marcescenti, della tradizione.         Io, al riguardo, ho una sola cosa da dire. Non trasformi un nomade in agricoltore sedentario facendogli delle case a forma di tenda, e coltivandogli tu il campo. Tradotto: se è solo una questione di maquillage, allora è una falsa soluzione, e anzi è una resa che otterrà solamente di allungare l'agonia.         Quando, invece, enorme sarebbe il compito storico di una politica culturale se solo coloro che la pensano capissero che non il salvataggio furbesco del passato, ma, sempre, la realizzazione nobile del presente è quanto si deve fare per assicurare alle intelligenze una minima protezione dall'azzardo del mercato puro e semplice.