Un blog creato da simonepelo il 29/11/2007

Ziggy Stardust

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LUTTAZZI DOCET

Al Direttore di Repubblica:

è disarmante vedere firme celebri annaspare di fronte alla satira e alla sua natura. Quello della volgarità, da sempre, è il pretesto principe di chi vuole tappare la bocca alla satira. Che sia chiaro una volta per tutte ( i furbastri più o meno interessati mi hanno un po' stufato ): la volgarità è la TECNICA della satira. Con questa tecnica, la satira esprime idee e opinioni. Censurare la satira ( in nome del cattivo gusto o di altri princìpi volatili e capziosi ) è censurare le opinioni. E' fascismo. Chi si attarda in disquisizioni sul buon gusto è un censore. Punto. L'unico limite lo stabilisce la legge: diffamazione, calunnia. La satira è arte: o è totalmente LIBERA, o non è satira. Se io parlo del sostegno immondo di Ferrara alla guerra criminale di Bush, Blair e Berlusconi in Iraq, e voi vi scandalizzate dei toni satirici invece che di Abu Grahib o del napalm a Falluja, la vostra scala di valori è corrotta. Era questo il significato di quel monologo. Come volevasi dimostrare.

Daniele Luttazzi

 
 
 
 
 
 
 

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STARDUST

ZIGGY STARDUST
(Bowie)

Ziggy played guitar, jamming
good with Wierd and Gilly,
The Spiders from Mars.
He played it left hand,
but made it too far,
Became the special man,
then we were Ziggy’s Band.

Ziggy really sang,
screwed up eyes and screwed down hairdo
Like some cat from Japan,
he could lick ‘em by smiling
He could leave ‘me to hang
Came on so loaded man,
well hung and snow white tan.

So where were the spiders
while the fly tried to break our balls
Just the beer light to guide us,
So we bitched about his fans
and should we crush his sweet hands ?

Ziggy played for time,
jiving us that we were Voodoo
The kids was just crass, he was the naz
With God given ass
He took it all too far but boy
could he play guitar.

Making love with his ego
Ziggy sucked up into his mind
Like a leper messiah
When the kids had killed the
rnan I had to break up the band

ZIGGY POLVERE DI STELLE
(Bowie)

Ziggy suonava la chitarra,
alternandosi bene con
Wierd e Gilly, gli Spiders from Mars
Lui suonava con la sinistra,
ma andò troppo in là,
Divenne il tipo speciale,
e allora inventammo il gruppo di Ziggy.
Ziggy cantava davvero,
strabuzzava gli occhi e agitava la chioma
come alcuni gatti giapponesi,
li poteva leccare con un sorriso
Li poteva lasciare in attesa
Diventò un uomo importante,
ben messo e con la tintarella bianco neve.
Così dov’erano i ragni quando
la mosca cercò di romperci le palle
solo la luce della birra a guidarci,
così ci lagnammo dei suoi fans e
avremmo dovuto spaccare le sue dolci mani?
Ziggy suonava a tempo,
cantando che eravamo voodoo
i ragazzi erano proprio ottusi,
lui era il Nazareno
con un gran bel culo
esagerò un po’ ma ragazzi,
se sapeva suonare la chitarra.
Facendo l’amore col suo ego

Ziggy fu risucchiato nella sua mente
come un messia lebbroso
Quando i ragazzi l’hanno ucciso
ho dovuto sciogliere il gruppo.

 
 
 
 
 
 
 

BERLIN

 
 
 
 
 
 
 

 

 
« travaglioMessaggio #133 »

cap 29

Post n°132 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da simonepelo
 
Tag: cap 29

29. Qualsiasi grande può regredire
a inutile comparsa

12. Hamburger
Sentite questa. Il giornale che state leggendo in questo momento vive perché incassa soldi in tre modi diversi: vendendo il giornale, vendendo spazi pubblicitari nel giornale e vendendo altre cose attaccate al giornale (libri, dischi, dvd...). Secondo voi cos'è che incassa di più? La pubblicità, questo è comprensibile. (Ma non poi così logico: un libro guadagna per quello che è, mica per qualcosa che si porta addosso e non c'entra niente con lui).
Va bè. E al secondo posto cosa c'è? Verrebbe da dire il giornale. E invece no. Nel 2005 si è verificato lo storico aggancio: i gadget hanno fruttati più meno quanto il giornale. Forse è un caso, una particolare congiuntura storica: ma comunque è successo, e la cosa dovrebbe far riflettere.

E' sempre utile studiare come circola il denaro. Guardate la geografia di questo caso: c'è un centro, il giornale, e c'è un periferia, rappresentata da tutto quello che non è giornale ma è messo in movimento dal giornale: pubblicità e annessi. Dove va il denaro? Nella periferia. Avanti di questo passo, facile che il giornale venga a costare anche meno, o addirittura niente: a quel punto il denaro sarebbe tutto nella periferia. Curioso. Tenete conto che comunque nulla di tutto ciò esisterebbe se non ci fosse, al centro, il giornale. E' lui che produce il combustibile per arrivare agli annessi. Così, il cuore di quel sistema appare come una grande fonte d'energia in cui si produce un'autorevolezza, una firma, che poi espelle ai lati il movimento del denaro. Non ho dati aggiornati, ma ricordo distintamente di aver letto come a Las Vegas, qualche anno fa, sia successo qualcosa di analogo: i ristoranti, gli hotel, i night club, i teatri, avevano sorpassato, quanto a incassi, i casino. Quello che in linea di principio era stato per anni l'accessorio apparato di gradevolezza studiato per trascinare il tapino a svuotarsi le tasche in un casino, adesso è diventato, economicamente parlando, la sostanza di Las Vegas. La gente continua ad andare là perché è Las Vegas, la capitale del gioco: ma poi fa altro.

E' vero che la faccenda, di per sé, ricorda certe poetiche apocalissi primo-novecentesche: vi ricordate il palco vuoto dell'imperatore? Il mondo senza centro, tanto cantato dagli artisti mitteleuropei. Ma lì si trattava, appunto, di apocalisse: cioè di una forma elegante e sofisticata di perdita del senso. Invece i modelli che abbiamo adesso sotto il naso sembrano piuttosto produrre senso, non bruciarlo. Lo moltiplicano. Non sembrano la fine di un mondo, ma piuttosto l'inizio. L'inizio del mondo barbaro.

Forse uno degli stilemi esistenziali dei barbari è proprio questo schema: un centro fondativo che motiva il sistema e una periferia che magnetizza il senso. Posso fare un esempio plebeo? L'hamburger. Nella sua accezione barbaramente più alta e perfetta: l'hamburger di McDonald's. Il centro è la polpetta. Qualcuno ha in mente che gusto ha? Non ne ha, praticamente. Il senso di quella cosa da mangiare sta nel resto. Infatti lei, la polpetta, è praticamente unica e inamovibile: il movimento si scatena quando scegli cosa ci vuoi sopra, e intorno, e dietro. Adesso ormai siamo abituati: ma dovete ammettere che la cosa è un po' strana. Teoricamente, e secondo i principi di monsieur Bertin, se uno vuole mangiare una polpetta dovrebbe poter scegliere tra molti tipi di polpetta, e questo sarebbe il senso della faccenda: scegliere il manzo argentino piuttosto che il vitello danese cotto al sangue. Invece niente. Della polpetta non frega niente a nessuno. E' il resto che fa la differenza.

E' uno schema mentale, ammettetelo. Una transumanza del senso verso le regioni periferiche dell'accessorio. Il senso nomade che si sostituisce al senso stanziale. Barbari.
       
Così andiamo in enormi multisale a vedere film che sono la polpetta prevedibile, spesso, di allegre gite famigliari in cui si consuma di tutto. O compriamo qualsiasi oggetto produca Armani, anche i sottopentola, pur non sognandoci nemmeno di vestirci da Armani. O votiamo partiti di cui non abbiamo mai letto il programma. O guardiamo il calcio alla tivù e disertiamo lo stadio. O andiamo a Las Vegas per mangiare. O compriamo Repubblica per portarci a casa un corso di inglese per bambini.

In un certo senso, volendo incontrare i barbari, una cosa che puoi fare è andare negli Stati Uniti entrare in un supermercato e decidere di comprare un pollo al forno, semplicemente un pollo al forno. Ne esistono, minimo, quattro. Uno al curry, uno al limone, uno al rosmarino, e uno all'aglio. Le dimensioni sono sempre identiche, la cottura pure, la provenienza, immagino, anche. Posso anche aggiungere che il pollo, in sé, non sa quasi di nulla. Non so che dieta facciano quei poveri animali, ma si direbbe che pasteggiano a polistirolo. Il pollo al sapore di pollo non esiste. In compenso dove noi abbiamo giusto un'opzione ("mi dia un pollo al forno") loro ne hanno, minimo, quattro. Possono diventare molti di più se solo vi infilate nel gorgo delle salse.

Senso nomade.

12. Elica
Ehi, è l'ultimo pensierino. L'ultimo ritrattino dei barbari. Ultima pagina del taccuino. Sono soddisfazioni. Lo dedico, l'ultimo abbozzo, all'elica. E' una immagine che mi aiuta a capire: com'è che si possa pensare, oggi, con una qualche ragione, che Thomas Mann è uno scrittore inutile e sopravvalutato. Sono accessi di follia? No. E' l'elica. Mi spiego.
       
Una cosa a cui bisogna prepararsi è che quando accade una mutazione, lì le gerarchie del giudizio vanno a pallino. Non è gradevole, ma è così. Lo dico nel modo più semplice: nella storia dei mammiferi il delfino è un eccentrico. In quella dei pesci, un padre fondatore. A parte ogni sfumatura di gusto, di comprensione, di giudizio, resta il fatto che ogni civiltà giudica i suoi predecessori dalla rilevanza che hanno avuto nel creare l'habitat mentale in cui quella civiltà vive. Se una generazione di mutanti sposta il mondo a vivere sott'acqua, stimolando la nascita di branchie dietro alle orecchie, va da sé che per quel mondo, da quel momento in poi, la giraffa non sarà quel gran punto di riferimento. Il coccodrillo avrà un suo certo interesse. La balena sarebbe Dio. Se per una qualche anomalia del destino storico l'Ancien Régime avesse continuato a dominare il mondo, Boccherini sarebbe un grande e Beethoven un eccentrico. Ma nel mondo come l'abbiamo vissuto noi, Beethoven è, indiscutibilmente, un padre fondatore. Perfino il più oscuro degli artisti si guadagna un merito, agli occhi di una civiltà, se solo ha contribuito in piccola parte ad anticipare l'habitat mentale in cui poi, quella civiltà, è finita a dimorare. Il che deve indurre a capire come sia possibile anche il contrario: qualsiasi grande può regredire a inutile comparsa se una mutazione cambia il punto di vista, e rende difficile annoverarlo fra i profeti del nuovo mondo (Bach, per dire, restò pressoché invisibile per un sacco di tempo prima che una mutazione mentale rendesse rilevabile dai radar la sua immane presenza).
       
E' come la pala di un'elica. Dipende da dove ti piazzi, puoi vederla scomparire dietro l'affilata linea del suo taglio, o vederla allargarsi, bella grassa, sotto i tuoi occhi. Non è tanto una questione di forza della singola opera o del singolo autore: è la prospettiva che detta la regola: poi, solo dopo, interviene quella forza, a orientare i giudizi.

       Così noi vediamo, retrospettivamente, solo il paesaggio che si può vedere da qui, e in questo modo riconosciamo le vette più alte, e misuriamo la grandezza.

       Ora pensate ai barbari. Pensate a dove sono andati a vivere, nel loro nomadismo mentale. Pensate al paesaggio che si apre davanti ai loro occhi se solo porvano a voltarsi indietro. E guardate se, alta e immota, brilla in tutto il suo splendore la vetta di Thomas Mann. Non so. Forse. Ma non lo darei così per scontato.

       Perché è vero che ci sono vette che praticamente nessuna mutazione ha cancellato dal paesaggio dei viventi. Le chiamiamo: i classici. Omero. Shakespeare. Leonardo. Ogni volta che ci si è spostati, erano ancora là, incredibilmente. Per ragioni segrete, o per una forma di vertiginosa capacità profetica che sapeva immaginare non un nuovo mondo, ma tutti i nuovi mondi possibili: in essi era inscritta qualsiasi mutazione. Ma Thomas Mann: siamo sicuri che sia all'altezza? O non è piuttosto la vetta di un paesaggio particolare, uno dei tanti, forse nemmeno tra i più radicati e diffusi, quasi il paesaggio privato di una civiltà locale, breve, e già sparita.

       Dico questo per chiarire che se si accetta l'idea di una mutazione, e allegramente si inclina a lasciarla passare, ciò a cui bisogna essere preparati è la perdita secca di qualsiasi gerarchia preesistente, la frana di tutta la nostra galleria di monumenti. Resterà in piedi qualcosa, certamente. Ma nessuno può dire, oggi, cosa. Tremerà la terra, e solo dopo, quando tutto si sarà fermato di nuovo nella bella permanenza di una nuova civiltà, ci si guarderà attorno: e sarà sorprendente vedere cosa è ancora là, dei paesaggi della nostra memoria.

       Che potrebbe anche essere l'ultima riga di questo libro, ma non lo è, perché è vero che sono finite le pagine del taccuino, ma un epilogo ci vuole, e ci sarà. Giusto una puntata. Ma che abbia il sapore di ciò che, un tempo, chiamavamo: finale.

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ipmtortane sloo che la prmia e l'umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il
rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao di decraifre tttuo
qtueso coas, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel
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