Un blog creato da simonepelo il 29/11/2007

Ziggy Stardust

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LUTTAZZI DOCET

Al Direttore di Repubblica:

è disarmante vedere firme celebri annaspare di fronte alla satira e alla sua natura. Quello della volgarità, da sempre, è il pretesto principe di chi vuole tappare la bocca alla satira. Che sia chiaro una volta per tutte ( i furbastri più o meno interessati mi hanno un po' stufato ): la volgarità è la TECNICA della satira. Con questa tecnica, la satira esprime idee e opinioni. Censurare la satira ( in nome del cattivo gusto o di altri princìpi volatili e capziosi ) è censurare le opinioni. E' fascismo. Chi si attarda in disquisizioni sul buon gusto è un censore. Punto. L'unico limite lo stabilisce la legge: diffamazione, calunnia. La satira è arte: o è totalmente LIBERA, o non è satira. Se io parlo del sostegno immondo di Ferrara alla guerra criminale di Bush, Blair e Berlusconi in Iraq, e voi vi scandalizzate dei toni satirici invece che di Abu Grahib o del napalm a Falluja, la vostra scala di valori è corrotta. Era questo il significato di quel monologo. Come volevasi dimostrare.

Daniele Luttazzi

 
 
 
 
 
 
 

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STARDUST

ZIGGY STARDUST
(Bowie)

Ziggy played guitar, jamming
good with Wierd and Gilly,
The Spiders from Mars.
He played it left hand,
but made it too far,
Became the special man,
then we were Ziggy’s Band.

Ziggy really sang,
screwed up eyes and screwed down hairdo
Like some cat from Japan,
he could lick ‘em by smiling
He could leave ‘me to hang
Came on so loaded man,
well hung and snow white tan.

So where were the spiders
while the fly tried to break our balls
Just the beer light to guide us,
So we bitched about his fans
and should we crush his sweet hands ?

Ziggy played for time,
jiving us that we were Voodoo
The kids was just crass, he was the naz
With God given ass
He took it all too far but boy
could he play guitar.

Making love with his ego
Ziggy sucked up into his mind
Like a leper messiah
When the kids had killed the
rnan I had to break up the band

ZIGGY POLVERE DI STELLE
(Bowie)

Ziggy suonava la chitarra,
alternandosi bene con
Wierd e Gilly, gli Spiders from Mars
Lui suonava con la sinistra,
ma andò troppo in là,
Divenne il tipo speciale,
e allora inventammo il gruppo di Ziggy.
Ziggy cantava davvero,
strabuzzava gli occhi e agitava la chioma
come alcuni gatti giapponesi,
li poteva leccare con un sorriso
Li poteva lasciare in attesa
Diventò un uomo importante,
ben messo e con la tintarella bianco neve.
Così dov’erano i ragni quando
la mosca cercò di romperci le palle
solo la luce della birra a guidarci,
così ci lagnammo dei suoi fans e
avremmo dovuto spaccare le sue dolci mani?
Ziggy suonava a tempo,
cantando che eravamo voodoo
i ragazzi erano proprio ottusi,
lui era il Nazareno
con un gran bel culo
esagerò un po’ ma ragazzi,
se sapeva suonare la chitarra.
Facendo l’amore col suo ego

Ziggy fu risucchiato nella sua mente
come un messia lebbroso
Quando i ragazzi l’hanno ucciso
ho dovuto sciogliere il gruppo.

 
 
 
 
 
 
 

BERLIN

 
 
 
 
 
 
 

 

 

Post N° 133

Post n°133 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da simonepelo

 
 
 

cap 29

Post n°132 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da simonepelo
 
Tag: cap 29

29. Qualsiasi grande può regredire
a inutile comparsa

12. Hamburger
Sentite questa. Il giornale che state leggendo in questo momento vive perché incassa soldi in tre modi diversi: vendendo il giornale, vendendo spazi pubblicitari nel giornale e vendendo altre cose attaccate al giornale (libri, dischi, dvd...). Secondo voi cos'è che incassa di più? La pubblicità, questo è comprensibile. (Ma non poi così logico: un libro guadagna per quello che è, mica per qualcosa che si porta addosso e non c'entra niente con lui).
Va bè. E al secondo posto cosa c'è? Verrebbe da dire il giornale. E invece no. Nel 2005 si è verificato lo storico aggancio: i gadget hanno fruttati più meno quanto il giornale. Forse è un caso, una particolare congiuntura storica: ma comunque è successo, e la cosa dovrebbe far riflettere.

E' sempre utile studiare come circola il denaro. Guardate la geografia di questo caso: c'è un centro, il giornale, e c'è un periferia, rappresentata da tutto quello che non è giornale ma è messo in movimento dal giornale: pubblicità e annessi. Dove va il denaro? Nella periferia. Avanti di questo passo, facile che il giornale venga a costare anche meno, o addirittura niente: a quel punto il denaro sarebbe tutto nella periferia. Curioso. Tenete conto che comunque nulla di tutto ciò esisterebbe se non ci fosse, al centro, il giornale. E' lui che produce il combustibile per arrivare agli annessi. Così, il cuore di quel sistema appare come una grande fonte d'energia in cui si produce un'autorevolezza, una firma, che poi espelle ai lati il movimento del denaro. Non ho dati aggiornati, ma ricordo distintamente di aver letto come a Las Vegas, qualche anno fa, sia successo qualcosa di analogo: i ristoranti, gli hotel, i night club, i teatri, avevano sorpassato, quanto a incassi, i casino. Quello che in linea di principio era stato per anni l'accessorio apparato di gradevolezza studiato per trascinare il tapino a svuotarsi le tasche in un casino, adesso è diventato, economicamente parlando, la sostanza di Las Vegas. La gente continua ad andare là perché è Las Vegas, la capitale del gioco: ma poi fa altro.

E' vero che la faccenda, di per sé, ricorda certe poetiche apocalissi primo-novecentesche: vi ricordate il palco vuoto dell'imperatore? Il mondo senza centro, tanto cantato dagli artisti mitteleuropei. Ma lì si trattava, appunto, di apocalisse: cioè di una forma elegante e sofisticata di perdita del senso. Invece i modelli che abbiamo adesso sotto il naso sembrano piuttosto produrre senso, non bruciarlo. Lo moltiplicano. Non sembrano la fine di un mondo, ma piuttosto l'inizio. L'inizio del mondo barbaro.

Forse uno degli stilemi esistenziali dei barbari è proprio questo schema: un centro fondativo che motiva il sistema e una periferia che magnetizza il senso. Posso fare un esempio plebeo? L'hamburger. Nella sua accezione barbaramente più alta e perfetta: l'hamburger di McDonald's. Il centro è la polpetta. Qualcuno ha in mente che gusto ha? Non ne ha, praticamente. Il senso di quella cosa da mangiare sta nel resto. Infatti lei, la polpetta, è praticamente unica e inamovibile: il movimento si scatena quando scegli cosa ci vuoi sopra, e intorno, e dietro. Adesso ormai siamo abituati: ma dovete ammettere che la cosa è un po' strana. Teoricamente, e secondo i principi di monsieur Bertin, se uno vuole mangiare una polpetta dovrebbe poter scegliere tra molti tipi di polpetta, e questo sarebbe il senso della faccenda: scegliere il manzo argentino piuttosto che il vitello danese cotto al sangue. Invece niente. Della polpetta non frega niente a nessuno. E' il resto che fa la differenza.

E' uno schema mentale, ammettetelo. Una transumanza del senso verso le regioni periferiche dell'accessorio. Il senso nomade che si sostituisce al senso stanziale. Barbari.
       
Così andiamo in enormi multisale a vedere film che sono la polpetta prevedibile, spesso, di allegre gite famigliari in cui si consuma di tutto. O compriamo qualsiasi oggetto produca Armani, anche i sottopentola, pur non sognandoci nemmeno di vestirci da Armani. O votiamo partiti di cui non abbiamo mai letto il programma. O guardiamo il calcio alla tivù e disertiamo lo stadio. O andiamo a Las Vegas per mangiare. O compriamo Repubblica per portarci a casa un corso di inglese per bambini.

In un certo senso, volendo incontrare i barbari, una cosa che puoi fare è andare negli Stati Uniti entrare in un supermercato e decidere di comprare un pollo al forno, semplicemente un pollo al forno. Ne esistono, minimo, quattro. Uno al curry, uno al limone, uno al rosmarino, e uno all'aglio. Le dimensioni sono sempre identiche, la cottura pure, la provenienza, immagino, anche. Posso anche aggiungere che il pollo, in sé, non sa quasi di nulla. Non so che dieta facciano quei poveri animali, ma si direbbe che pasteggiano a polistirolo. Il pollo al sapore di pollo non esiste. In compenso dove noi abbiamo giusto un'opzione ("mi dia un pollo al forno") loro ne hanno, minimo, quattro. Possono diventare molti di più se solo vi infilate nel gorgo delle salse.

Senso nomade.

12. Elica
Ehi, è l'ultimo pensierino. L'ultimo ritrattino dei barbari. Ultima pagina del taccuino. Sono soddisfazioni. Lo dedico, l'ultimo abbozzo, all'elica. E' una immagine che mi aiuta a capire: com'è che si possa pensare, oggi, con una qualche ragione, che Thomas Mann è uno scrittore inutile e sopravvalutato. Sono accessi di follia? No. E' l'elica. Mi spiego.
       
Una cosa a cui bisogna prepararsi è che quando accade una mutazione, lì le gerarchie del giudizio vanno a pallino. Non è gradevole, ma è così. Lo dico nel modo più semplice: nella storia dei mammiferi il delfino è un eccentrico. In quella dei pesci, un padre fondatore. A parte ogni sfumatura di gusto, di comprensione, di giudizio, resta il fatto che ogni civiltà giudica i suoi predecessori dalla rilevanza che hanno avuto nel creare l'habitat mentale in cui quella civiltà vive. Se una generazione di mutanti sposta il mondo a vivere sott'acqua, stimolando la nascita di branchie dietro alle orecchie, va da sé che per quel mondo, da quel momento in poi, la giraffa non sarà quel gran punto di riferimento. Il coccodrillo avrà un suo certo interesse. La balena sarebbe Dio. Se per una qualche anomalia del destino storico l'Ancien Régime avesse continuato a dominare il mondo, Boccherini sarebbe un grande e Beethoven un eccentrico. Ma nel mondo come l'abbiamo vissuto noi, Beethoven è, indiscutibilmente, un padre fondatore. Perfino il più oscuro degli artisti si guadagna un merito, agli occhi di una civiltà, se solo ha contribuito in piccola parte ad anticipare l'habitat mentale in cui poi, quella civiltà, è finita a dimorare. Il che deve indurre a capire come sia possibile anche il contrario: qualsiasi grande può regredire a inutile comparsa se una mutazione cambia il punto di vista, e rende difficile annoverarlo fra i profeti del nuovo mondo (Bach, per dire, restò pressoché invisibile per un sacco di tempo prima che una mutazione mentale rendesse rilevabile dai radar la sua immane presenza).
       
E' come la pala di un'elica. Dipende da dove ti piazzi, puoi vederla scomparire dietro l'affilata linea del suo taglio, o vederla allargarsi, bella grassa, sotto i tuoi occhi. Non è tanto una questione di forza della singola opera o del singolo autore: è la prospettiva che detta la regola: poi, solo dopo, interviene quella forza, a orientare i giudizi.

       Così noi vediamo, retrospettivamente, solo il paesaggio che si può vedere da qui, e in questo modo riconosciamo le vette più alte, e misuriamo la grandezza.

       Ora pensate ai barbari. Pensate a dove sono andati a vivere, nel loro nomadismo mentale. Pensate al paesaggio che si apre davanti ai loro occhi se solo porvano a voltarsi indietro. E guardate se, alta e immota, brilla in tutto il suo splendore la vetta di Thomas Mann. Non so. Forse. Ma non lo darei così per scontato.

       Perché è vero che ci sono vette che praticamente nessuna mutazione ha cancellato dal paesaggio dei viventi. Le chiamiamo: i classici. Omero. Shakespeare. Leonardo. Ogni volta che ci si è spostati, erano ancora là, incredibilmente. Per ragioni segrete, o per una forma di vertiginosa capacità profetica che sapeva immaginare non un nuovo mondo, ma tutti i nuovi mondi possibili: in essi era inscritta qualsiasi mutazione. Ma Thomas Mann: siamo sicuri che sia all'altezza? O non è piuttosto la vetta di un paesaggio particolare, uno dei tanti, forse nemmeno tra i più radicati e diffusi, quasi il paesaggio privato di una civiltà locale, breve, e già sparita.

       Dico questo per chiarire che se si accetta l'idea di una mutazione, e allegramente si inclina a lasciarla passare, ciò a cui bisogna essere preparati è la perdita secca di qualsiasi gerarchia preesistente, la frana di tutta la nostra galleria di monumenti. Resterà in piedi qualcosa, certamente. Ma nessuno può dire, oggi, cosa. Tremerà la terra, e solo dopo, quando tutto si sarà fermato di nuovo nella bella permanenza di una nuova civiltà, ci si guarderà attorno: e sarà sorprendente vedere cosa è ancora là, dei paesaggi della nostra memoria.

       Che potrebbe anche essere l'ultima riga di questo libro, ma non lo è, perché è vero che sono finite le pagine del taccuino, ma un epilogo ci vuole, e ci sarà. Giusto una puntata. Ma che abbia il sapore di ciò che, un tempo, chiamavamo: finale.

 
 
 

travaglio

Post n°131 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da simonepelo
 

Domenica 20 Gennaio a Terra su Canale 5 alle ore 24

Post scriptum
Contrariamente a quanto annunciato, con tanto di comunicato ufficiale, dal programma Terra di Canale5, nella puntata di questa sera dedicata a Bettino Craxi, la mia intervista sulle condanne e i soldi rubati dall'ex leader socialista non andrà in onda: richiestami espressamente dalla redazione, girata e registrata venerdì pomeriggio sul ponte di Castel Sant'Angelo dalla brava collega Anna Migotto, è stata bloccata stamane dal democraticissimo direttore del Tg5 Clemente J.Mimun, che non l'aveva nemmeno vista. Un veto ad personam, insomma, come mi ha raccontato al telefono Tony Capuozzo. Lo ringrazio comunque per aver pensato a me, ma per il futuro lo esorto a tener sempre presente per chi lavora. Così, onde evitare di perdere tempo con me e di far perdere tempo a me: tutti dovrebbero sapere che esistono degli appestati che è meglio non avvicinare, nè tantomeno intervistare, per non prendere il contagio. E io sono fra questi. Non ho mai fatto ammazzare commissari di polizia, non ho mai rubato, non ho mai avuto amici mafiosi, non ho parenti agli arresti domiciliari: insomma, sono incensurato, dunque è naturale che in casa Mediaset io debba essere censurato. M.T. da Voglioscendere.it

 
 
 

Post N° 130

Post n°130 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da simonepelo

 
 
 

Post N° 129

Post n°129 pubblicato il 19 Gennaio 2008 da simonepelo

 
 
 

cap 28

Post n°128 pubblicato il 19 Gennaio 2008 da simonepelo
 

28. Siamo conservatori quasi per necessità

10. Schizofrenia
Se davvero ci troviamo nel bel mezzo di uno scontro tra civiltà e barbarie, non è una perdita di tempo fermarsi a capire, per un attimo, da che parte stanno le istituzioni a cui affidiamo il compito dell'educazione. Le fornaci ufficiali dove si mettono in cottura i nostri cervelli. Scuola e televisione, direi: è lì che passa il grosso della formazione collettiva. Ci sono naturalmente tante altre cose, ma se vogliamo guardare alle due fornaci maggiori, è lì che dobbiamo fermarci. E chiederci: da che parte stanno? Facile: la scuola sta dalla parte della civiltà, la televisione da quella della barbarie.

Evidentemente ci sono un sacco di eccezioni: una singola figura di professore o una particolare trasmissione possono cambiare molto le cose. Ma se dobbiamo attenerci a una tendenza di massima, vincente sulle altre, allora penso si possa dire serenamente che a scuola si insegnano i principi della civiltà di monsieur Bertin e alla televisione domina l'ideologia dei surfer. Non ho tempo di fare tutti i distinguo del caso, e capire dove la scuola elementare è differente dalla scuola superiore, e dove Report è differente dai reality show: ma credo che, in linea di massima, si possa effettivamente riconoscere che la scuola presidia i valori della civiltà, e la televisione sperimenta senza alcuna cautela il nuovo sentire dei barbari. Cosa se ne può concludere? Innanzitutto che siamo gente schizofrenica, che al mattino ragiona come Hegel e dopo pranzo si muta in pesce, e respira con le branchie. Cosa che non finisce di affascinarmi. Nel liceale che al mattino studia Lorenzo Valla (succede) e nel pomeriggio si trasforma in un animale della rete, decollando nel suo personale multitasking, è inscritta una schizofrenia che andrebbe capita. Come è spiegabile la mansuetudine con cui accetta la scuola? O, al contrario, come spiegare la naturalezza assoluta con cui vive da pesce non appena si chiude in camera sua? E' una singolare specie di anfibi mentali, o quel che vivono al mattino lo vivono trattenendo il fiato, in una sorta di ipnosi rinunciataria? Oppure, al contrario: sono vivi solo al mattino, e il pomeriggio si fanno frullare da un sistema luccicante di cui sono vittime più che protagonisti?

Ma anche, si potrebbe dedurre, siamo una collettività in cui i principi della civiltà restano una specie di boccone prelibato, riservato a chi ha la possibilità di formarsi nelle istituzioni scolastiche, e la barbarie è una specie di ideologia di default, concessa gratis a chiunque, e consumata massicciamente da chi non ha accesso ad altre fonti di formazione. Cosa non inedita, nella nostra storia: la civiltà come lusso, e la barbarie come riscatto degli esclusi. Certo, rispetto al passato, noi possiamo farci forti di una scolarizzazione di massa che non ha precedenti: e possiamo credere che, in qualche modo, ci è riuscito di rendere disponibile ai più il luogo protetto in cui la civiltà consegna la sua eredità. Ma rimane sospetta l'acquiescenza con cui si è abbandonato l'altro pilastro formativo, la televisione, consegnandolo allegramente al nemico. Passi la televisione commerciale, ma quella pubblica? Come può essere accaduto che sia divenuta, essa stessa, un quartier generale dei barbari? A parte ogni ragione di carattere tecnico o economico, non puzza un po' che si sia consegnato al nemico, quasi senza combattere, proprio il quartiere più popolare, ritraendosi nei quartieri dorati del centro città? Lo vedete il maligno istinto a reagire all'aggressione dando in pasto i peones più deboli e intanto ritirando la parte nobile dell'esercito nel lusso di blindate roccaforti? Errore strategico, perché se lasci arrivare il barbaro sotto le mura, poi quello le scavalca, o trova la feritoia, o compra il traditore.


11. Politica culturale.

E in mezzo, tra televisione e scuola, c'è tutto il campo aperto della cultura e dell'entertainment. In parte è un terreno lasciato all'istinto del mercato. Ma in parte è presidiato invece dalla collettività, che lo gestisce secondo criteri che poi noi chiamiamo: politica culturale. Con quali fini? Tramandare la civiltà o convertirsi alla barbarie? Bella domanda. A pensare al nostro cortile, verrebbe da rispondere: tramandare la civiltà. Viviamo d'altronde in un paese, noi italiani, che, solo nella preventiva conservazione e nella difesa dei propri beni artistici, brucia immense quantità di risorse e attenzione: il che rappresenta un compito tanto doveroso quanto allineato ai principi e ai valori di monsieur Bertin. E' un tipo di cura orientato al passato e alla salvaguardia della tradizione: ovvio che se ne sia usciti fortemente segnati: per gente abituata a tenere in piedi monumenti che crollano, deve risultare ovvio che lo stesso tipo di gesto vada fatto per cose meno materiali come le idee, la bellezza o il sentire morale. Siamo conservatori quasi per necessità.
       
Comunque si giudichi la faccenda, possiamo quindi dire che, da noi, quando la collettività si muove per indirizzare il tempo della gente e le sue sortite culturali, lo fa con lo scopo di riaffermare e diffondere i principi della civiltà. Fino a qualche anno fa, poteva essere un principio pacifico e inattaccabile. Ma adesso? Quale senso profondo può avere e bruciare risorse significative per consegnare a così tanti barbari un corredo mentale di cui loro, da tempo, hanno deciso di fare a meno? Non sarebbe piuttosto sensato usare le stesse risorse per accompagnare il formarsi di quella strana, nuova, civiltà, magari costringendola a connettersi con la saggezza e il sapere che essa, sbrigativamente, tenderebbe a liquidare come anacronismo inutile?
       
La parte più facile e immediata di un simile dubbio ha iniziato a salire in superficie, nel mondo delle politiche culturali, in questi ultimi anni. E la forma del dubbio è diventata questa: non è che dobbiamo andare un po' incontro a questi barbari, e trovare un modo di presentar loro le cose un po' più accattivante? Naturalmente, come progresso è piuttosto misurato, per non dire ridicolo, ma è sempre meglio di niente. Così si è arrivati a porsi il problema del come tramandare la civiltà. Che so: si è arrivati alla ovvia intuizione che la struttura ottocentesca dei musei non era proprio il massimo per un quattordicenne figlio di Internet. Oppure si è capito che, versando le stesse cose che si sono sempre fatte nel contenitore di un festival o di un grande evento, si mima quella struttura da sistema passante e da sequenza sintetica che i barbari prediligono su ogni altra. Oppure si è andati a cercare un tratto spettacolare, anche nei gesti più composti e rigorosi, per ritrovare quella velocità, e quella produzione di movimento, senza le quali quei gesti restano al di fuori delle consuetudini dei barbari. Insomma, ci si è dati un gran da fare. A monte, il tipo di intelligenza non è cambiato molto, e anche le persone, e l'età di quelle persone: ma una ventata di modernismo spudorato ha iniziato a scompigliare le stanze, marcescenti, della tradizione.
       
Io, al riguardo, ho una sola cosa da dire. Non trasformi un nomade in agricoltore sedentario facendogli delle case a forma di tenda, e coltivandogli tu il campo. Tradotto: se è solo una questione di maquillage, allora è una falsa soluzione, e anzi è una resa che otterrà solamente di allungare l'agonia.
       
Quando, invece, enorme sarebbe il compito storico di una politica culturale se solo coloro che la pensano capissero che non il salvataggio furbesco del passato, ma, sempre, la realizzazione nobile del presente è quanto si deve fare per assicurare alle intelligenze una minima protezione dall'azzardo del mercato puro e semplice.

 
 
 

Post N° 127

Post n°127 pubblicato il 19 Gennaio 2008 da simonepelo

 
 
 

Post N° 126

Post n°126 pubblicato il 18 Gennaio 2008 da simonepelo

 

 
 
 

cap 27

Post n°125 pubblicato il 18 Gennaio 2008 da simonepelo
 
Tag: cap 27

27. La forza del senso per loro è altrove

 

8. Autentico.

Una splendida espressione che si coltivava con fervore ai tempi della civiltà era: l'autentico. Spesso lo mettevamo in connessione strettissima con un altro termine che ci era caro: l'origine. Avevamo questa idea che in profondità, all'origine delle cose e dei gesti, dimorasse il luogo aurorale del loro affacciarsi alla creazione: lì, dove essi inziavano, si poteva scorgere il loro profilo autentico. Lo immaginavamo, ovviamente, alto e nobile: e si misurava la tensione morale di un gesto o di un'idea o di un comportamento proprio misurando la sua prossimità all'autenticità originaria. Era un modo di impostare le cose piuttosto fragile, ma era chiaro, e felicemente normativo. Faceva intravedere una regola: ed era una regola bella. Esteticamente apprezzabile, e dunque, in qualche modo, fondata.

Ma adesso? Se c'è una cosa che i barbari tendono a polverizzare sono proprio le nozioni di autentico e di origine. Sono convinti che il senso si sviluppi solo dove le cose si mettono in movimento, entrando in sequenza le une con le altre, per cui la categoria di origine suona loro piuttosto insignificante. E' quasi un luogo di immobile solitudine in cui il senso delle cose è ancora tutto da venire. Dove noi vedevamo il nido sacro dell'autentico, dell'originario, loro vedono l'antro di una preistoria in cui il mondo è poco più che una promessa. Dove noi collocavamo l'esistere per eccellenza, autentico e puro, loro leggono soltanto un iniziale momento di pericolosa fragilità: la forza del senso, per loro, è altrove. E' dopo.

Detto così fa impressione, ma tradotto in qualche esempio vedrete che suonerà meno traumatico. Marilyn Monroe. Qual era l'autentico volto di quella donna? Importa davvero a qualcuno saperlo? Non è più importante registrare quello che ha rappresentato per milioni di uomini, ciò che è stata ed è nell'immaginario collettivo? Se vi dicono che in realtà il sesso le dava fastidio, vi importa qualcosa? Ipotizziamo per un attimo che le desse fastidio veramente: non percepite come questo tratto autentico, originario, non restituisca affatto il senso che quella donna ha avuto per la cultura occidentale? Ciò che è realmente autentico, nella sua figura, è ciò che di quella figura si è cristallizzato nella percezione collettiva. Marylin Monroe è Marilyn Monroe, non Norma Jeane Mortensen (che era il suo nome autentico e originario).

Trasferite un simile ragionamento a qualsiasi evento: e avrete il senso, ad esempio, di questo giornale che state leggendo. Pensate che in queste pagine si stia cercando di ricostruire il volto autentico del mondo? Non c'è traccia di una simile ambizione. C'è invece un formidabile talento (qui e in tutto il giornalismo contemporaneo) nel cristallizzare a realtà il friabile materiale che i fatti sprigionano entrando in connessione con altri fatti e con il pubblico. E' come se loro (i giornalisti) fossero capaci, più di altri, di seguire le traiettorie dei fatti e scorgere l'esatto punto in cui esse incrociano un ascolto collettivo, un nervo scoperto, una disponibilità d'animo: solo lì, in quella felice congiunzione, i fatti diventano realtà. Quanto conservano dei loro tratti originari e, come dicevamo noi, autentici? Molto poco, in genere. Ma quei tratti, per convenzione, sono divenuti detriti inessenziali. Qualcosa come il nome vero di Marilyn Monroe.

In questo genere di cose il giornalismo, e in genere i media, rappresentano effettivamente la punta avanzata di una barbarie trionfante. Più o meno consapevolmente praticano una lettura del mondo che sposta il baricentro delle cose dalla loro origine alle loro conseguenze. Bene o male, per il giornalismo moderno il punto importante di un fatto è la quantità di movimento che è in grado di generare nel tessuto mentale del pubblico. A livelli estremi, un conflitto epocale e sanguinario in un paesino dell'Africa resta per un giornale occidentale una non-notizia fino a quando non entra in sequenza con porzioni di mondo in possesso del pubblico occidentale. Bisognerebbe ad esempio che Bertinotti ne parlasse, anche solo prendendo un caffè, allora sì potrebbe diventare una notizia. Per quanto possa sembrare assurdo, è esattamente ciò che ci aspettiamo dai media: paghiamo per avere quel genere di lettura del mondo. In ciò, ci allineiamo, non si sa quanto consapevoli, a un'idea di fondo, squisitamente barbara, che in teoria non condividiamo ma in realtà pratichiamo senza alcuna difficoltà: il senso delle cose non alberga in un loro tratto originario e autentico, ma nella traccia che da esse sprigiona quando entrano in connessione con altri pezzi di mondo. Si potrebbe dire: non sono ciò che sono, ma quel che diventano. Comunque si giudichi un simile modo di pensare, quel che ci importa qui è capirne il tratto barbaro: cioè capire che non si tratta di una degenerazione dettata da una forma di follia, ma la conseguenza di un certo modo di pensare il senso del mondo: è il corollario di una logica precisa. Discutibile, ma precisa.

Per questo oggi è divenuto così difficile rifarsi a un senso autentico dei nostri gesti: perché siamo in bilico tra due visioni del mondo, e tendiamo ad applicarle, simultaneamente, tutt'e due. Da una parte conserviamo ancora tiepido il ricordo di quando il senso delle cose era concesso a chi avesse la purezza e il rigore di risalire il corso del tempo, e di accostarsi al luogo della loro origine. Dall'altra sappiamo ormai bene che esiste solo ciò che incrocia le nostre traiettorie, e spesso esiste solo in quel momento: intuiamo che è nel loro istante di massima leggerezza e velocità che le cose entrano a far parte di figure più ampie, dove noi riconosciamo la pregnanza di una scrittura, e dove abbiamo imparato a leggere il mondo. Così deambuliamo piuttosto smarriti, rimpiangendo il tempo in cui i gesti erano autentici, e vivendo quello in cui l'inautenticità è divenuta sinonimo di esistenza.

Non che sia una posizione particolarmente comoda.

9. Differenza.

E già che siamo in una puntata difficile, liquidiamo anche 'sta faccenda della differenza. Che facile non è. Ma importante, sì. Anche qui è utile il riferimento alla civiltà pre-barbara. E prendiamo ancora una volta la musica classica, come esempio più chiaro di altri. Qual era il modello di sviluppo di quel mondo? Voglio dire, il suo modo di crescere, di perfezionarsi, di divenire? In genere, ciò che determinava il movimento era un passo avanti: un miglioramento, un superamento, un progresso. Mozart porta il sinfonismo di Haydn a nuove vette espressive. Beethoven traghetta il sinfonismo mozartiano oltre il Settecento. Schubert porta in superficie le implicazioni romantiche del sinfonismo beethoveniano. Ecc., ecc. Tutta la storia della musica è leggibile come un costante auto-superamento in cui ogni passo prosegue e completa quello precedente. La saldatura del nuovo al vecchio assicurava l'autorevolezza; lo sprigionare del nuovo dal vecchio assicurava il successo. In questo modo il movimento di un particolare gesto creativo veniva ad assomigliare a una progressiva fioritura che esprimeva, alla fine, tutta la ricchezza di un seme originario. A monte di un simile modello dinamico è riconoscibile una convinzione fortemente radicata nel DNA della civiltà borghese e romantica: l'idea che il bello sia indissolubilmente legato a una qualche forma di progresso. Il gesto creatore aveva un valore quando produceva un passo avanti, e il nuovo aveva un valore quando portava a compimento il vecchio. Evidentemente mutuata dalla cultura scientifica (totem indiscusso, per quella civiltà) una simile convinzione portava a interpretare lo sviluppo dell'umano come una ascesa quasi oggettiva, inarrestabile, di volta in volta rimessa in moto dal genio singolare di un individuo particolare.

E' utile capire che, probabilmente, per i barbari, questo modello di sviluppo non significa quasi niente. Non è loro congeniale. Probabilmente non credono più nel progresso tout court (e chi ci crede più?). Di sicuro hanno in mente un'altra idea di movimento. Il passo in avanti è una cosa che non capiscono: credono nel passo di fianco. Il movimento accade quando qualcuno è in grado di spezzare la linearità dello sviluppo, e si sposta di fianco. Non accade nulla di rilevante se non nella differenza. Il valore è la differenza, intesa come deviazione laterale dal dettato dello sviluppo. Prendiamo la moda, ad esempio. Si può dire che il pantalone a vita bassa è un superamento del Levi's 501? Non credo. O che l'ombelico di fuori è un passo avanti rispetto alla minigonna? Assurdo. La moda non si spiega con l'idea di un progresso lineare a cui di volta in volta singoli stilisti danno un'accelerata geniale. Se vai a vedere l'esatto punto in cui il sistema cambia, trovi poco più che uno spostamento laterale, la generazione di una differenza. Voi direte: va bè, la moda, cosa c'entra? D'accordo, prendiamo un altro esempio, e torniamo alla musica. Si può dire che i Red Hot Chili Peppers o Madonna o Björk siano il superamento di qualcosa, o un passo avanti rispetto a qualcosa? Magari lo sono anche, ma non è questo il punto. Il loro successo è più probabilmente fondato sulla capacità di compiere un passo di fianco, sulla loro capacità di generare una differenza, forte, ben strutturata, autosufficiente. Non è d'altronde quello che cercano ossessivamente le multinazionali della musica? Un sound differente. Mica cercano un superamento di Springsteen. Cercano qualcosa di diverso da Springsteen. Fanno una fatica tremenda a trovarlo, di questi tempi, e questo ci deve far capire come il passo di fianco sia tutt'altro che facile, e anzi, sia forse la cosa più difficile: quando molto più semplice sarebbe trovare uno Schubert, dopo Beethoven. Ma i barbari non sanno che farsene di uno Schubert. Cercano la differenza.

Ancora una volta: lo fanno perché è coerente con i loro principi. Se il crepitare del senso è inscritto nelle sequenze disegnate dalla gente attraverso la giungla delle cose fattibili, l'obbiettivo di qualsiasi creatività non può essere che quello di intercettare quelle traiettorie e diventare parte di esse: la vedete la necessità di muoversi nello spazio? Nel passo di fianco, qualsiasi tradizione creativa va a cercare il senso là dove esso accade. Nella differenza, e non nel progresso, lo trova. Se volete, proprio il giornalismo, che è ormai una forma d'arte, vi fornisce l'esempio più chiaro: esso non racconta il mondo ma produce news, cioè considera come evento solo ciò che si dà come differenza rispetto al giorno prima. Non ciò che ne è sviluppo, progresso o al limite regresso. La continuità del divenire è poi cautamente ricostruita nei commenti, o in rari reportage che cercano di riallestire narrazioni di mondo. Ma la tecnica di base del giornalismo è oggi una sequenza di passi di fianco che intercettano il senso del mondo registrandone tutti gli scarti laterali. Anche qui, è uno sviluppo orizzontale, nello spazio e sulla superficie, che sostituisce il cammino verticale dell'approfondimento e della comprensione. Apparentemente, una rovina: ma com'è che, poi, ogni mattina, è quel che cerchiamo?

 

 
 
 

Post N° 124

Post n°124 pubblicato il 18 Gennaio 2008 da simonepelo

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Sneocdo uno sdtiuo dlel'Untisverià di Cadmbrige, non irmptoa cmoe snoo
sctrite le plaroe, tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito, è
ipmtortane sloo che la prmia e l'umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il
rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao di decraifre tttuo
qtueso coas, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel
suo insmiee... vstio?

Sneodco voi, csoa czazo si funamo a Cadmbrgie?                                                                                     

 
 
 
 
 
 
 

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