Creato da cinb6 il 27/05/2010
 

AMORE-AMICIZIA!!!

PER RIFLETTERE........

 

Ultimi Commenti

AMMICIZZIA2
AMMICIZZIA2 il 21/07/11 alle 10:44 via WEB
Nei momenti di difficoltà, invece di iniziare a disperarti ecc,"fatti" di musica e vedrai ti guarirà! <<<<<>>>>>> Buona giornata cara Cintya un'affettuosissimo abbraccio Anna non sognare troppo!!ahahah ciao clicca
 
AMMICIZZIA2
AMMICIZZIA2 il 18/07/11 alle 20:14 via WEB
scusami No giusy ,Cintya uffy ogni tanto vado in tilt un bacioneeeeee Anna
 
AMMICIZZIA2
AMMICIZZIA2 il 18/07/11 alle 20:12 via WEB
Con te non c'è differenza tra sogno e realtà. Con te le lacrime e i sorrisi hanno lo stesso colore. Con te so vedere anche al buio. Non mi lasciare sola, tienimi per mano, la tua amicizia è la favola più bella che mi abbiano raccontato, il desiderio più prezioso che abbia affidato alle stelle.Con queste belle parole ti auguro una lieta e serena serata ,un grandissimo abbraccio ,cara grande e dolce Giusy Anna clicca
 
AMMICIZZIA2
AMMICIZZIA2 il 16/07/11 alle 19:55 via WEB
Scusa Cintya Dimenticavo !! TVB clicca e un kissssss
 
AMMICIZZIA2
AMMICIZZIA2 il 16/07/11 alle 19:54 via WEB
Buona sera rieccomi ,però non sono stata in ferie credetemi !ho appena finito di fare l'imbianchina ora la casa è a posto ,mi manca solo la sala ,ma mi devono arrivare i nuovi mobili ,allora non vale la pena che smonti tutto un mese e mezzo prima !! Buon Fine settimana e buona serata!un'abbraccio ciao Anna attenta a ...clicca
 
Illywirin
Illywirin il 14/07/11 alle 15:37 via WEB
Rieccomi dopo le vacanze. Un abbraccio Vittorio
 
paoloroiter
paoloroiter il 01/07/11 alle 19:45 via WEB
BELLISSIMO POST, BUON FINE SETTIMANA
 
paoloroiter
paoloroiter il 01/07/11 alle 19:40 via WEB
ANCHE SE TRISTE LA STORIA DI PAOLO E FRANCESCA E' MOLTO SIMILE A QUELLA DI GIULIETTA E ROMEO. IO PENSO DI ESSERE NATO NELL'EOPCA SBAGLIATA. LA DONNA E UN DIORE E COME TALE VA TRATTATO, CON DOLCEZZA E RISPETTO. A ME PIACE SPEDIRE LE LETTERE, IN CARTA ROSA, INPROFUMARE LA LETTERA E CHIUDERA CON IL TIMBRO IN CERA LACCA.. UNA DONNA VA CONQUISTATA, CON DOLCEZZA. A ME PIACE ANDARE IN GIRO IN GONDOLA E SENTIRE IL GONDOLIERE CHE CANTA CANZONI D'AMORE.PER PRANZO IN UN RISTORANTE, TAVOLO PER 2. PER PRIMA SI FA' SEDERE LA DONNA,,POI SI PRENDE, LA , GIACCA, IL PALTO E LI SI MI METTE A POSTO. PER PRIMI SEMPRE ALLE DONNE , UN BUON VINO, SPUMANTE O CHAMPAGNE. PER LA SEA CENA A LUME DI CANDELA, SOPRA IL TAVOLO 3 ROSE ROSSE, ALLA FINE LA SI ACCOMPAGNA A CASA , PER SALUTARLA, UN BACIAMANO. KISSSSSSS, PAOLO ROITER
 
paoloroiter
paoloroiter il 01/07/11 alle 19:28 via WEB
Dall'Inferno V CANTO PAOLO E FRANCESCA Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia, e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte. «O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, «guarda com'entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?». «La prima di color di cui novelle tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell'è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussuriosa. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. I' cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri». Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno». Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!». Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov'è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettuoso grido. «O animal grazioso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. Quand'io intesi quell'anime offense, china' il viso e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!». Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?». E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangea; sì che di pietade io venni men così com'io morisse. E caddi come corpo morto cade. Così discesi dal primo cerchio (limbo) al secondo, che racchiuso in meno spazio e più dolore, induce ai lamenti. Vi stava a ringhiare l'orribile Minosse, che all'ingresso esaminava le colpe, giudicava e con la coda condannava. Quando l'anima dannata gli andava innanzi, confessava tutto, e lui, giudice dei peccati, decideva il giusto cerchio infernale, cingendosi la coda tante volte quanti erano i gironi in cui far precipitare. Davanti a lui ve n'erano sempre molte: l'una aspettava il turno dell'altra, che confessava, ascoltava e piombava giù. Quando Minosse mi vide interruppe le sue funzioni e disse: "Ehi tu ch'entri in questa desolazione, sta' attento a come ti muovi e a chi ti guida, che non t'inganni il facile ingresso!". Ma la mia guida gli rispose: "Che hai da gridare? Non puoi impedire la sua visita, perché là dove volere è potere, s'è deciso così e tu lascia fare". A quel punto cominciai a udire voci lamentose; là dov'ero molto pianto mi colpiva. In quel luogo privo di luce si urlava come il mare tempestoso, agitato da venti contrari. Una bufera mai doma travolgeva nel turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza. Quando giungevano sul ciglio del dirupo, urlavano piangevano singhiozzavano, bestemmiando la virtù divina. Dal tipo di pena capii che lussuriosi erano i dannati, la cui ragione è schiava dell'istinto. E come le ali portano gli stornelli d'inverno in schiera ampia e compatta, così quel vento gli spiriti perversi agita su e giù, di là e di qua e nessuna speranza li conforta mai, né di una pausa né di uno sconto della pena. E come le gru emettono i loro lamenti, disposte nell'aria in lunghe file, così vidi venir, gemendo, le ombre sconvolte dalla tormenta. Sicché domandai: "Maestro, chi son quelle genti così castigate dalla bufera?". "La prima di cui vuoi sapere - lui mi rispose - fu sovrana di molti popoli. Era così concupiscente che una sua norma legittimò la libido, togliendo il biasimo sulla sua condotta. Si chiama Semiramide, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: dominò sulle terre ora governate dal sultano. L'altra invece s'uccise per amore, tradendo la promessa fatta al defunto Sicheo, e l'altra ancora è la sensuale Cleopatra. Là vedi Elena, che tanto infelice tempo fece trascorrere, e vedi anche il grande Achille che la passione condusse a morte. Vedi Paride, Tristano", e più di mille ombre m'indicò chiamandole per nome, che la voluttà aveva strappato alla vita. Com'ebbi compreso dal mio maestro chi erano quelle dame e quegli eroi, fui come sgomento e smarrito. Poi gli chiesi: "Poeta, vorrei parlare a quei due che vanno insieme e che paiono più leggeri nella bufera". "Aspetta che siano venuti più vicini a noi - mi rispose -, poi pregali per quell'amor che li lega e loro verranno". Appena il vento li piegò verso di noi, esclamai: "Oh anime tormentate, venite a parlarci, se nessuno lo vieta!". Come colombe, chiamate dai piccoli, con le ali levate e ferme al dolce nido vengono per l'aria, spinte dall'istinto, così quelle anime dalla schiera di Didone si staccarono attraverso l'aria maligna, sentendo il mio affettuoso grido. "Oh uomo cortese e benigno, che vieni a visitare, in quest'aria tenebrosa, chi ha macchiato la terra del proprio sangue, se ci fosse amico il re dell'universo, lo pregheremmo per la tua pace, avendo tu pietà della nostra perversione. Quel che a voi piacerà dire e ascoltare piacerà anche a noi, almeno finché il vento lo permetterà. La mia città natale lambisce il mare ove sfocia il Po, che coi suoi affluenti trova pace. L'amore, che subito accende i cuori gentili, fece innamorare quest'ottima persona, che mi fu tolta in un modo ch'ancor m'offende. L'amore, che induce chi viene amato a ricambiare, mi prese così forte per le maniere di costui, che, come vedi, ancor non m'abbandona. L'amore ci portò a una stessa morte: Caina in sorte attende l'assassino". Ecco le parole che ci dissero. E io, dopo aver ascoltato quelle anime travagliate, chinai il viso e rimasi così mesto che il poeta a un certo punto mi chiese: "A che pensi?". Io gli risposi: "Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al tragico destino!". Poi mi rivolsi direttamente a loro e chiesi: "Francesca, le tue pene mi strappano dolore e pietà. Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri, come faceste ad accorgervi che il desiderio era reciproco?". E quella a me: "Non c'è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia; cosa che sa bene il tuo maestro. Ma se tanto ti preme conoscere l'inizio della nostra storia te lo dirò unendo le parole alle lacrime. Stavamo leggendo un giorno per diletto come l'amore vinse Lancillotto; soli eravamo e in perfetta buona fede. In più punti di quella lettura gli sguardi s'incrociarono, con turbamento, ma solo uno ci vinse completamente. Quando leggemmo che il sorriso di lei venne baciato dal suo amante, costui, che mai sarà da me diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Traditore fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno finimmo lì la lettura". Mentre uno spirito questo diceva, l'altro piangeva, sicché ne rimasi sconvolto, al punto che svenni per l'emozione e caddi come corpo morto cade. Ascolta la lettura del canto (mp3) - Fonte: www.recitarleggendo.com ________________________________________ AMORE E ADULTERIO NEL CANTO V DELL'INFERNO: PAOLO E FRANCESCA Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johannem Zottum causa luxuria Ciò che più sconcerta nell'Inferno di Dante è l'eternità della colpa, l'impossibilità del pentimento, secondo la teologia cattolica più intransigente. Eppure Dante non era un fanatico integralista, ma, semmai - diremmo oggi - un "cattolico democratico", e per un certo periodo della sua vita fu persino un ghibellino, cioè un laico anticlericale. Il Dante dell'Inferno non sottomette le ragioni cristiane a quelle umane, ma si sforza di trovare un compromesso. Lo sconcerto diventa ancora più forte quando si legge nel canto V la vicenda dei due cognati Paolo e Francesca, anche se proprio essa, per come poeticamente viene descritta, lascia pensare che Dante non fosse del tutto convinto delle verità teologiche della fede cattolica. La chiesa infatti qui appare nei panni di Minosse, che fa confessare ogni singolo dannato, lo giudica e gli assegna il cerchio corrispondente alla colpa più grave. Minosse si comporta come un inquisitore senza pietà, che si limita ad applicare alla lettera la legge divina, senza remore morali, senza cercare attenuanti di sorta. Di fronte a quel consumato "conoscitor de le peccata", le anime, d'altra parte, non possono che sottomettersi spontaneamente al loro destino. La procedura della confessione e dell'assegnazione irreversibile della condanna non ricorda solo i processi inquisitoriali del tardo Medioevo, ma anche quelli delle molte dittature della storia (la dinamica processuale è stata ripresa da Orwell in 1984, ma la si ritrova anche nei processi farsa delle grandi purghe staliniane). Dante è costretto a considerare quelle anime come "dannate", in quanto hanno sottomesso la coscienza alla concupiscenza (la ragione al "talento", cioè all'istinto incontrollato, al desiderio smodato). Quei disgraziati non possono ottenere (e lo sanno) alcuno sconto sulla pena, alcun patteggiamento e soprattutto alcun riposo. Infatti la frenesia della passione sulla terra trova qui il suo contrappasso nel vento vorticoso che sbatte le anime come fuscelli. La pena, in sostanza, è l'ansia, l'assenza di pace interiore. Tuttavia quando la bella Francesca, figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, appartenente a quella nobile famiglia che per circa duecento anni dominò la città romagnola, inizia a parlare, il senso della libido perde la sua ragion d'essere. Appare infatti ben strano che dalla bocca di una lussuriosa escano parole così dolci e mansuete: "se il re dell'universo ci fosse amico, lo pregheremmo per la tua pace, poiché ti commuovi sul nostro male perverso". Qui la contrapposizione non è più astratta, tra il bene della teologia e il male dei peccatori, ma è concreta, tra le bestemmie dei dannati di questo cerchio e la mitezza dei due amanti romagnoli, che paiono trovarsi lì loro malgrado. Non sembra esserci risentimento nelle parole di Francesca, anzi molto fair play, molto tatto... Se non volessimo apparire esagerati diremmo che qui si è in presenza di un tête-à-têtes tra due filosofi o letterati classici, con la differenza che nella donna la sapienza è incarnata in una tragedia personale. Francesca, è vero, si sente offesa per essere stata eliminata, col suo amante, in modo violento e repentino, ma non usa parole forti, malevoli, anche se certo non prova pietà per il suo assassino, che qui non viene neppure ricordato per nome ma solo per il luogo ove dovrebbe risiedere: la prima zona dell'ultimo cerchio dell'inferno, quella Caina ove giacciono i traditori dei parenti e dei congiunti. Dante tuttavia non conferma, su questo, le parole di Francesca, né lo farà al XXXII canto, il che ha fatto pensare che il riferimento alla Caina si trattasse soltanto di una convinzione di lei o di una propria speranza, oppure Dante non l'ha citato semplicemente perché lo riteneva irrilevante nell'economia del suo discorso etico e poetico. La realtà purtroppo non ci è di molto aiuto. Sappiamo che l'Inferno fu iniziato nel 1306, concluso nel 1309 e pubblicato nel 1314. Gianciotto Malatesta (Gianni o Giovanni + ciottus, zoppo), nato circa nel 1247-9, era morto nel 1304, per cui Dante avrebbe anche potuto sentirsi libero di metterlo all'inferno, non foss'altro perché egli non era mai stato tenero nei confronti dei Malatesti. Dunque perché non citare Gianciotto tra i dannati della Caina, lasciando nel contempo credere, con le parole di Francesca, ch'egli era destinato proprio lì? E' forse stato un atto di opportunità nei confronti dei Polentani, strettamente legati ai Malatesti? La tradizione di guelfismo che caratterizza i Malatesti a Rimini, e che fece tanto indignare "il ghibellin fuggiasco" cominciò con Malatesta da Verucchio, detto anche il Centenario o il Vecchio per la sua longevità (1226-1312), che gettò le basi di un potere reale e ufficiale sulla città di Rimini (ne divenne podestà nel 1239) e su tutto il suo territorio: prima sposando Concordia dei Pandolfini (figlia del vicario imperiale messer Arrighetto o Enrichetto), che aveva una ricca dote di possessioni nella Romagna meridionale, e poi abbandonando, subito dopo la sconfitta di Federico II di Svevia a Parma (1248), la fazione imperiale per abbracciare la causa papale: un cambio di parte sottolineato nel 1266 da un nuovo matrimonio, questa volta con la ricca nipote del rettore e legato apostolico della Marca e del ducato di Spoleto. Malatesta da Verucchio aveva decretato l'espulsione di tutte le famiglie ghibelline da Rimini nel 1295. Una tradizione di atroci tradimenti e di efferati delitti per molti decenni segnò - in un quadro di contrasti fra papato e impero e di confuse rivalità locali - la lotta per accrescere o difendere il potere del casato malatestiano, che ha trovato appunto nel ghibellino Dante un preciso accusatore e divulgatore. Con pochi versi famosi Dante ha delineato efficacemente la situazione riminese e malatestiana all'aprirsi del Trecento: "E il Mastin vecchio e il nuovo da Verucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d'i denti succhio" (Inferno, XXVII, 40-57). Come noto il Mastin vecchio è Malatesta da Verucchio, il Mastin nuovo è suo figlio Malatestino dall'occhio cieco e Montagna è il vecchio Parcitadi, di antica nobiltà riminese, capo dei ghibellini locali, fatto prigioniero e trucidato nel 1295. Malatestino viene definito "tiranno fello" da Dante, che lo ricorda come "quel traditor che vede pur con l'uno" e gli attribuisce l'uccisione di Iacopo del Cassero e di Agnolello da Carignano, due maggiorenti fanesi (Inferno, XXVIII, 76-90). Questo delitto spianò la strada al possesso malatestiano di Fano e di buona parte delle Marche. La vita dei componenti delle famiglie malatestiane era completamente assoggettata alla politica; la sola "ragion di stato", dunque, regolava anche i matrimoni (da cui dipendevano alleanze e accrescimenti di ricchezza e di potere), che spesso, naturalmente, fallivano. Per i maschi della famiglia non era un problema: per essi infatti l'infedeltà era contemplata quasi come una regola; le amanti - più o meno ufficiali - erano rispettate e si organizzavano una loro corte, mentre i figlioli bastardi venivano considerati una potenziale ricchezza della famiglia e spesso venivano legittimati: anche Galeotto Roberto, Sigismondo e Domenico Malatesta, per esempio, erano figli bastardi (di Pandolfo III). Ma la questione era molto diversa per le femmine e in questo canto Dante, in un certo senso, le riabilita, anche perché è fuor di dubbio che a quel tempo Francesca veniva fatta passare per una poco di buono meritevole di morte, avendo tradito il marito col cognato. La mette, è vero, nel girone dei lussuriosi, ma riduce questo peccato a ben poca cosa, di fronte all'amore travolgente ch'essa provò per Paolo. Da notare peraltro che quello di Francesca da Rimini non fu l'unico incidente sentimentale occorso alle donne malatestiane, che in parecchi casi si dimostrarono ribelli ai comportamenti pretesi dalla politica familiare (e dalla morale nobiliare corrente): basterà appena ricordare il celebre caso di Parisina Malatesta, fatta decapitare a Ferrara nel 1425 dal marito Nicolò d'Este perché divenuta l'amante del figliastro Ugo; o quello della prima moglie di Andrea Malatesta, Rengarda Alidosi, ripudiata perché infedele e uccisa dai fratelli nel 1401. Guardando un po' indietro si troverà inoltre una Isotta degli Atti, amante e poi terza moglie di Sigismondo, in una medaglia di Matteo de' Pasti (c. 1453), sempre a Rimini, Museo della Città. Costanza, figlia di Malatesta Ungaro, accusata di impudicizia e scostumatezza e fatta giustiziare dallo zio Galeotto nel 1378. Ma a queste figure di donne "traviate" la storia della famiglia ne oppone molte altre, di grande virtù e coraggio: come Polentesia da Polenta, moglie di Malatestino Novello, che nel 1326 salvò il marito da una congiura di parenti; come Gentile Malatesta, vedova di Galeazzo Manfredi, che resse il governo di Faenza per i figli e lo difese combattendo nel 1424 contro i fiorentini; come la saggia Elisabetta Gonzaga, moglie di Carlo Malatesta, che allevò i nipoti Galeotto Roberto, Sigismondo e Domenico (Malatesta Novello); o come la sposa di quest'ultimo, la dolce e pia Violante da Montefeltro; o la bella Isotta degli Atti, amante e poi moglie di Sigismondo, animatrice di una corte raffinatissima; o, infine, la caritatevole Annalena Malatesta, che dopo l'uccisione del marito Baldaccio d'Anghiari (1441) mise a disposizione dei poveri i suoi averi e aprì la propria casa fiorentina a tutte le donne bisognose d'aiuto e d'asilo. Senonché egli si recherà dai da Polenta di Ravenna come profugo nel 1318, restandovi sino alla morte. I Polentani erano imparentati coi Malatesti: è dunque probabile che solo per opportunità egli non abbia citato Gianciotto tra i dannati della Caina, lasciando però credere, con le parole di Francesca, ch'egli fosse destinato proprio lì. Tutto ciò però non ci fa capire affatto il motivo per cui proprio Gianciotto, tradito dalla moglie e dal fratello, fosse destinato a finire fra i traditori. Uccidendo Paolo, Gianciotto non aveva forse difeso il proprio onore? Nessuna teologia cattolica, di fronte all'attenuante dell'adulterio, avrebbe mai messo Gianciotto nella Caina, al massimo l'avrebbe punito in un qualche cerchio del purgatorio. Tant'è ch'egli non ebbe alcuna difficoltà a risposarsi: secondo gli antichi canoni avrebbe dovuto chiedere l'assoluzione papale per il duplice omicidio, ma, se mai c'è stato, dov'è finito l'atto che annullava l'impedimento proibitivo? Non vi sono riscontri di tale assassinio neppure nelle relazioni dei rettori della Santa Sede e negli atti pontifici da Niccolò III a Bonifacio VIII, vale a dire tra il 1277 e il 1294. E non s'è neppure trovata l'autorizzazione del vescovo diocesano o del legato pontificio a seppellire in luogo sacro i due amanti. Non esiste una sola carta d’archivio e neppure un documento incontrovertibile sulla relazione adulterina di Paolo e Francesca. Senza chiarire questo background, l'interpretazione del canto può portare a risultati diametralmente opposti. All'apparenza infatti Francesca non passa per "adultera" ma solo per "lussuriosa", cioè per una donna che ha ceduto alla passione, non per una moglie che ha tradito il marito col proprio cognato. Ma allora perché metterla all'inferno: non bastava il purgatorio? A quanto pare per Dante non bastava e il fatto di non aver neppure rammentato il matrimonio di lei, può far pensare ch'egli volesse dare per scontato che la presenza di Francesca in quel girone non era semplicemente dovuta alla lussuria, ma proprio alla correlazione di questa all'adulterio; il che diventava allora colpa grave, anche quando - come spesso succedeva tra le famiglie altolocate - il matrimonio veniva fatto per una semplice ragione d'interesse, in cui la volontà della donna contava assai poco ("donna" poi per modo di dire, poiché al momento del matrimonio Francesca non aveva più di 15 o 16 anni). Né, a discarico di questa adolescente, Dante ha mai sostenuto che il comportamento o il carattere di Gianciotto fosse riprovevole o insopportabile. I commentatori danteschi del Trecento si sono alquanto divertiti a fantasticare sulla natura dei personaggi di questa tragedia. Quelli di parte guelfa tendevano a giustificare Gianciotto e a considerare Francesca una meretrice; quelli di parte ghibellina preferivano al contrario vedere nell'adulterio l'amore sincero dei due amanti. E Dante certamente non parteggia né per gli uni né per gli altri: infatti, pur dovendola mettere come cristiano all'inferno, è disposto, come uomo, a perdonarla. Il primo creatore della leggenda romanzata di Paolo e Francesca fu Andrea Lancia, che scrisse la sua esegesi della Commedia nel 1333 e che sarà la vera fonte di Boccaccio, quando questi commenterà il canto V. Sarà proprio il Lancia a creare gli stereotipi di Gianciotto come militare coraggioso, ma crudele e rozzo; di Paolo, come uomo bellissimo, educato, un vero damerino; di Francesca, come donna bellissima ma leggera: una sorta di Ginevra italiana, piegata dalla forza del destino e della passione. Tuttavia va detto che, anche considerando i cronachisti medievali come meri adulatori dei potenti, poco avvezzi a mostrarne in pubblico le colpe, se Francesca risultò suggestionata dalle "maniere gentili" di Paolo, che nel canto prevalgono nettamente sulle sue "attraenti fattezze", è da presumere che l'opinione allora dominante, che vedeva in Gianciotto un uomo piuttosto rude, non fosse priva di fondamento. Nel 1373-74 passarono alla storia i commenti del Boccaccio, che aggiunsero al mito di Francesca un particolare che col tempo si diede per acquisito, e cioè il fatto che nel matrimonio per procura (storicamente dato) Francesca venne ingannata, avendo essa un carattere tale (un "animo altero") per cui non avrebbe mai accettato di sposare un uomo rude e sciancato; lei in sostanza sarebbe stata convinta di sposare Paolo. Una tesi, questa, della vittima innocente, sacrificata sull'altare della ragion di stato, condivisa da Foscolo, De Sanctis, Pellico, D'Annunzio, ecc. In realtà Francesca non poteva non sapere che suo padre reputava Gianciotto il vero successore del padre Malatesta Malatesti (detto il Vecchio da Verucchio, 1226-1312), essendo nato prima di Paolo, che era del 1250-2. Inoltre sapeva certamente che Paolo, l'esecutore materiale della mediazione politico-matrimoniale, era già sposato da 15 anni. Destinato dal padre a fondare e gestire un ramo minore del casato, Paolo s'era sposato nel 1270 con una figlia del conte di Ghiaggiolo, Orabile Beatrice, da cui aveva avuto due figli: Uberto e Margherita (Orabile, dopo la tragedia del marito, non si risposerà più e resterà nel castello di Ghiaggiolo sino alla morte). Questa contea del forlivese, nella valle del Bidente, oggi frazione del Comune di Civitella di Romagna, resterà ai discendenti di Paolo sino al 1471 (da notare, en passant, che negli anni 1263-71 il ghibellino Guido da Montefeltro aveva fatto di tutto per impedire ai Malatesti di ereditarla). Paolo non era affatto un effeminato (come si è voluto far credere chiosando l'espressione "cor gentil") ma un valente militare, esattamente come il fratello, con l'aggiunta di una maggiore abilità politico-diplomatica, tant'è che papa Niccolo III, per premiare i Malatesti dei servizi resi alla causa guelfa, gli offrì nel 1282 la carica di capitano del popolo a Firenze, allo scopo di conciliare le tensioni tra guelfi e ghibellini. Avvertendo tuttavia che il suo operato non riscuoteva la fiducia dei fiorentini, egli diede le dimissioni dopo neppure un anno: esattamente nel febbraio 1283, col pretesto di dover sistemare cose molto urgenti nel riminese. Quali cose però non è dato sapere. Alcuni storici hanno sostenuto che Paolo non ebbe mai l’audacia politica che infiammò suo padre e i suoi fratelli Malatestino e Gianciotto, pur non appartandosi del tutto dagli affari pubblici; altri invece hanno congetturato che Gianciotto volesse prendersi il controllo della contea di Ghiaggiolo: cosa in realtà molto improbabile, in quanto la fortuna di Gianciotto era destinata a svilupparsi nelle Marche, dove poté consolidare il dominio malatestiano. Su Gianciotto va detto che nel 1275, al fianco del padre, si era scontrato a Ponte San Procolo, sul Senio, nei pressi di Faenza, con le truppe ghibelline di Guido da Montefeltro e tentò di andare al soccorso del castello di Roversano, assediato dai Forlivesi. Nello stesso anno, a capo di cento fanti, aiutò Guido da Polenta ad affrontare i Traversari e ad impadronirsi, con un colpo di mano, di Ravenna. Nel 1288, dopo che i Malatesti furono dichiarati ribelli e scacciati da Rimini (vi rientreranno nella primavera del 1290), attaccò e prese Santarcangelo. Gli fu ripetutamente affidata la podesteria di Pesaro: nel 1285, nel 1291, nel 1294 e dal 1296 al 1304, ultimo anno della sua vita, dopodiché gli succederà il fratello Pandolfo, mentre il figlio Malatestino diverrà podestà di Cesena, Bertinoro e Faenza negli anni 1290-93. Secondo la leggenda Gianciotto sarebbe stato avvelenato nel castello di Torriana da qualche suo vassallo. Considerando ch'egli fu anche podestà di Faenza (nel 1293) e forse di Forlì (nel 1276 o 1278), si può dire ch'egli restò in politica attiva per ben 26 anni. Oltre a Francesca - che gli diede Concordia e un maschio, morto ancora in fasce -, Gianciotto sposò, non più tardi del 1286, Zambrasina, figlia di Tibaldello Zambrasi di Faenza e vedova di Tino Fantolini, da cui ebbe cinque figli, tutti citati nel testamento di Malatesta da Verucchio. La notizia che abbia avuto una terza moglie, Taddea, è alquanto dubbia. Il fratricidio-uxoricidio dei due amanti avvenne tra il 1283 (ultima testimonianza di Paolo in vita) e il 1286 (anno in cui Gianciotto si risposa con Zambrasina, donna bella e benestante, vedova anch'essa, da cui ebbe cinque figli). Gianciotto aveva sposato Francesca intorno al 1275-6, da cui ebbe una sola figlia, Concordia, nel 1280; probabilmente il matrimonio fu celebrato l'anno dopo in cui i Malatesti aiutarono i Polentani a superare l'attacco militare del ghibellino Guido da Montefeltro, che già aveva posto sotto di sé buona parte della Romagna, dopo aver sbaragliato l'esercito guelfo a San Procolo, occupando Cesena e Cervia, e, per completare l'opera, minacciava da vicino sia Rimini che Ravenna. Alcune fonti sostengono che il matrimonio fu deciso dal padre di Francesca (contro il volere della madre), semplicemente per gratificare i Malatesta che lo avevano aiutato a imporre il proprio dominio su Ravenna. La situazione comunque per le casate guelfe era divenuta così preoccupante che i Malatesti e i da Polenta mandarono a chiedere alla curia papale nel 1277 che la Romagna venisse incorporata nell'ambito degli stati pontifici. Pur essendo storicamente rivali, le due casate guelfe, attraverso la mediazione dell'arcives
 
Illywirin
Illywirin il 25/06/11 alle 11:06 via WEB
Spero che la vita possa dare uno spazio di gioia anche a te, in quest'estate. ti abbraccio Vittorio
 

GRAZIE ANNARè,AMICA MIA!

 
So che l'amore è come le dighe:
se lasci una breccia dove possa infiltrarsi un filo d'acqua,
a poco a poco questo fa saltare le barriere.
E arriva un momento in cui nessuno riesce più a controllare
la forza delle barriere.
Se le barriere crollano,
l'amore si impossessa di tutto.
E non importa più cio' che è possibile o impossibile,
non importa se possiamo
continuare ad avere la persona amata accanto a noi:
amare significa perdere il controllo.

Paulo Coelho, Sulla Sponda del Fiume Piedra
 

  Grazie Lucio!

 

L'AMICIZIA

 

L'AMORE!

-L'amore: il più sublime degli autoinganni, ci innamoriamo di quello che noi “vediamo” nell'altro. Calma non può esserci nell'amore, perché quel che si è ottenuto è sempre e solo un nuovo punto di partenza per desiderare di più.
Marcel Proust

 

 

"voglio non dire mai
è tardi! oppure peccato!
voglio che ogni attimo sia sempre meglio
di quello passato".

 

AMORE!

A volte basta un sorriso,
uno sguardo rubato,
un gesto.
A volte bastano poche parole,
una musica lontana,
un’illusione.
A volte basta sapere che ci sei.....................

 

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...In quella notte all'improvviso mi ero accorta di una cosa e cioè che tra la nostra anima e il nostro corpo ci sono tante piccole finestre, da lì, se sono aperte, passano le emozioni, se sono socchiuse filtrano appena, solo l'amore le può spalancare tutte insieme e di colpo, come una raffica di vento............ Susanna Tamaro

 

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UN PENSIERO PER TE!

Ho sfiorato più volte la felicità
E ho capito che non dura mai
Ho cercato risposte e anche la Verità
Per capire che ognuno ha la sua
Ho sprecato più amore di quanto ce n?è
Ho parlato da solo e con Dio
Ho bruciato i rimpianti e anche le lettere
Il dolore non fa più per me
Tieni un pensiero per te
Se fuori piove
Tieni un pensiero per te
Se non senti amore
Tieni un pensiero per me
E va via il male, anche il dolore
E non si muore, poi torna il sole
Hai capito a tue spese che è difficile
Stare in piedi in un mondo così
Come sempre se hai tanta sensibilità
Poi c?è chi si approfitta di te
Tieni un pensiero per me
Se fuori piove
Tieni un pensiero per te
Se non senti amore
Tieni un pensiero per te
Che passa il male, va via il dolore
E non si muore, poi torna il sole
Amati e proteggiti
Da ogni male ma soprattutto da te stessa
Poi respira a fondo


 

 
 
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