Creato da gianor80 il 21/07/2009

CINEMA E LIBRI

Suggerimenti, opinioni e elucubrazioni varie riguardanti le mie due più grandi passioni, il cinema e la letteratura.

 

 

La moglie del cuoco

Post n°17 pubblicato il 19 Ottobre 2014 da gianor80

Locandina italiana La moglie del cuoco

Alle volte anche i francesi fanno film all’italiana, quelli in cui c’è una coppia benestante, c’è un elemento modaiolo (in questo caso l’alta cucina), c’è un tradimento e il tentativo di sondare la difficoltà del vivere moderno attraverso una girandola romantica per nulla vorticosa nè originale, tutta appoggiata sulle spalle degli attori. È così La moglie del cuoco, commediola leggera leggera in cui Emmanuelle Devos prende subito le redini di ogni interazione, oscilla tra emancipazione e tradizionalismo, tra manager e disoccupata donando da sola ritmo a quel che ritmo non avrebbe.

Si tratta di un cinema che sembra affermare il massimo della libertà (vivere la vita che si vuole, cambiare coppia, scegliere per se stessi, non rimanere vincolati a nulla) e invece è il massimo della chiusura, perchè ripetendo se stesso perpetua sempre i medesimi luoghi comuni. Personaggi, situazioni e idee che lentamente escono fuori moda, non sono più in grado di parlare del tempo in cui vivono gli spettatori (ammesso e non concesso che l’abbiano mai fatto) e rappresentano di fatto il nuovo conservatorismo. Gli stili di vita che 40 anni fa erano nuovi e liberi, oggi a furia di essere ripetuti, istituzionalizzati e narrati sono diventati la regola, dunque il sistema. Per questo continuare a narrarli equivale a continuare a mettere in scena il più tradizionalista degli scenari senza l’allure del vero classico, della vera tradizione.

Ecco perchè alla fine in un film come La moglie del cuoco, ineccepibile sotto molti punti di vista, scritto con decenza (sebbene privo di qualsiasi ombra di guizzo), recitato con mestiere e condotto con abilità, si confonde nella massa di suoi simili, incapace di emergere, incapace di farsi ricordare se non per la potenza della sua protagonista. Emmanuelle Devos non la scopriamo infatti oggi, è una delle interpreti più calamitanti del panorama francese, capace di donare complessità a qualsiasi personaggio interpreti e dotata di un’innato senso del dramma che le consente di eccedere nella macchietta senza per questo mai risultare fuori tono o compromettere il delicato melange che dona onesta umanità ad ogni suo personaggio.

 
 
 

Persona informata sui fatti

Post n°16 pubblicato il 18 Ottobre 2014 da gianor80

Il buon momento delle nostre lettere non accenna a fermarsi, e costringe a verificare con stupore quanto la nostra letteratura sia più avanti della critica (e della politica). Arrigoni non è un ragazzo, è un milanese che sa tutto del jazz, e che ha costruito un romanzo polifonico ricchissimo e mai stucchevole dove epoche e vite si accavallano. Si parla della Storia con la s maiuscola, cercandone le chiavi nascoste secondo i punti di vista “informati sui fatti” di chi la storia l’ha vissuta e ne ha sofferto, o di chi ha creduto di dominarla e/o spiegarla.

Certo, anche il falso, l’immaginario, il visionario, “la fantasia dell’Autore ed eventualmente del Caso” hanno il loro peso in questo accavallarsi di scene, apparizioni, evocazioni, vicine e lontane e anche lontanissime. Si comincia nella Creta di Minosse e si conclude a Manhattan in un clima di fantacatastrofe, si passa dalla Cina del Kuomintang ai vampiri di Praga, dai cetacei di Melville al Concilio cattolico di Recife-Brazzaville del 2029-30. Ma è il novecento il punto nodale, partenza obbligata perché esperienza vissuta, la riflessione necessaria. Se una morale c’è, sta forse alla fine della quarta parte: “La vita è costruita in modo da distribuire negli anni i suoi interrogativi, le sue domande astruse e ironiche: non so darmene ancora un spiegazione credibile. E non riesco a interpretare la lezione”.

 
 
 

Cristiada

Post n°15 pubblicato il 17 Ottobre 2014 da gianor80

Locandina italiana Cristiada

È un’operazione di pura propaganda cattolica quella portata avanti da Cristiada, film che rimette in scena i tumulti messicani di inizio novecento, quando i cattolici vennero perseguitati dal governo e un generale ateo si mise al servizio della ribellione. Puntando su alcune star appannate (Peter O’Toole e Andy Garcia) più un idolo del pubblico latino (Eva Longoria), il film non esita di fronte a niente pur di muovere lo spettatore dalla sua parte, non si ferma nemmeno di fronte allo sfruttamento del sentimentalismo legato ai bambini.

In questo film fiume che non scorre impetuoso come si addice a simili produzioni ma si ferma ogni dieci minuti per inseguire dialoghi ad altissimo tasso di melassa, tutto sembra procedere indisturbato verso la grande tesi di fondo, una sorta di fatalismo cristiano in cui la provvidenza regola le vite di ognuno verso un giusto martirio. Morire per la giusta causa, morire con onore, morire urlando “Viva cristo”.

Eppure, nonostante i suoi intenti dichiarati, Cristiada avrebbe potuto ugualmente essere la grande cavalcata cui ambiva, un misto tra il western della redenzione sociale e il cinema di rivendicazione dei propri diritti, ispirare e appassionare proiettando figure mitiche (nasce così il generale di Andy Garcia). Poteva insomma essere cinema d’altri tempi al servizio di propaganda d’altri tempi per ideologie d’altri tempi, e anche il tentativo di dipingere buoni e cattivi con i toni del cinema italiano di genere anni ’70 è abbastanza evidente nell’espressionismo della recitazione e dell’illuminazione (più il personaggio siede in alto nella scala gerarchica della sua fazione più la sua enfasi è calcata), invece Dean Wright si limita alla superficie, sfruttando gli elementi più evidenti senza poi usarli al momento opportuno.

Così Cristiada non è altro che un lunghissimo trailer, un accenno di qualcosa che non arriva mai, una lunga serie di scene madri affiancate senza che ne sia mai costruito il senso. Piacerà a chi desidera vedere ritratta la propria filosofia di vita, meno a tutti gli altri che vorrebbero un buon film. Per nulla a chi cerca cinema d’altri tempi.

 
 
 

Il popolo degli abissi

Post n°14 pubblicato il 16 Ottobre 2014 da gianor80

Jack London, Il popolo degli abissi
Mondadori, 274 pagine, 14 euro

Grande narratore di uomini, animali e natura, Jack London fu anche giornalista e per un periodo teorico e militante socialista (Il tallone di ferro, gli scritti politici). Questo Popolo degli abissi è certamente uno dei suoi libri migliori, è un'inchiesta e una narrazione che merita un posto centrale tra i classici di un genere divenuto con il tempo tra i più vivi e produttivi, anche in Italia. Viene dopo Dickens e La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, prima di Senza un soldo tra Parigi e Londra e della Strada di Wigan Pier di Orwell, e ha la stessa forza dei grandi lavori della scuola di Chicago.

A 26 anni, nel 1902, London è già celebre e si traveste da vagabondo, da disoccupato, vivendo per tre mesi nell’East End di Londra a contatto con una condizione sociale estrema. Racconta ciò che vede, ascolta storie e lamenti, vede lo sfruttamento, prova la fame, legge documenti ufficiali ma l’indignazione non gli basta: riflette, dimostra. Insiste sulle colpe dei ricchi, sulla ipocrisia loro e delle istituzioni che essi dominano, constata cosa la miseria può fare dell’uomo, della donna, del bambino, ma è del capitalismo che parla, della sua brutalità, della sua ipocrisia. Un grande libro, curato da Mario Maffi, accompagnato dalle foto scattate da London.

 
 
 

Fratelli unici

Post n°13 pubblicato il 15 Ottobre 2014 da gianor80

Locandina italiana Fratelli unici

Sembrava un sicuro successo: unire i due belli del cinema italiano in un film in cui interpretino “i belli”, in cui siano fratelli, in cui l’uno insegni all’altro a rimorchiare. Un colpo facile facile che magari poteva anche dar vita ad una commedia di respiro un po’ più internazionale.
Invece il problema di Fratelli Unici è che su quel canovaccio eterno che è la perdita di memoria di un personaggio e la sua rieducazione alla vita (soprattutto sentimentale) viene girato un film che non costruisce nulla ma presenta solo i risultati finali. Non vediamo lente trasformazioni, non vediamo il nascere di una motivazione, non conquistiamo da soli la fiducia o sfiducia in un personaggio. Ogni cosa accade come se non avesse motivazioni o al massimo viene spiegata a parole. Come mai il personaggio di Argentero comincia a credere nell’amore? Non si sa, lo fa e basta. La tentazione di appoggiarsi alla scena madre, al dialogone strappalacrime è tale da far dimenticare l’esigenza di costruire un percorso che la renda plausibile. I demeriti del film diventano ancora più gravi se si considera che la coppia di protagonisti funziona davvero! Argentero e Bova hanno una chimica tutta loro che è indubbia e il film sembra ignorarlo. I due sono per tutto il tempo opposti come la strana coppia, uno in una maniera e l’altro in un’altra, interagiscono sempre con toni diversi (quando uno è triste l’altro è allegro, quando uno è calmo l’altro no e via dicendo) e con finalità diverse (perchè uno è affettuoso e l’altro no, uno vuole fare qualcosa l’altro invece no, uno desidera una donna l’altro gliene propone di diverse) fino a che nel finale per poche scene non si associano davvero. A quel punto si capisce che la forza dei due sta nel fare squadra, Argentero e Bova potevano essere una vera forza ma accoppiati, come due soci, e non messi in contrasto come due amici/nemici. Eppure il film sembra non capirlo.

Anche volendo andare oltre le pure questioni di interazione e rimanendo invece legati alla sceneggiatura di Miniero e Elena BucaccioFratelli Unici non funziona, non prende mai il volo, soprattutto non fa ridere. Non è mai intenzione del film cercare quel tipo di commedia che con una risata dica o sveli qualcosa, e non c’è nulla di male in questo, tuttavia non trova mai nemmeno la risata di cuore, cioè non riesce a imbastire quel ritmo e quella fluidità che dia vita a situazioni divertenti, che porti ritmo anche lì dove ce n’è meno e instradi lo spettatore in un flusso narrativo d’effetto.
Si potrebbe anche passare sopra la decisione di farne un racconto pieno di bontà e privo di un minimo di forza meschina o anche solo di un po’ di divertimento a discapito di qualcuno, ma non si può davvero tollerare la sciatteria con la quale è messo in scena (perchè due genitori romani hanno cresciuto a Roma una figlia che parla con accento del nord?) e la trascuratezza con cui è montato.

 
 
 
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Ciao!
Inviato da: gianor80
il 12/10/2014 alle 21:03
 
Saluti
Inviato da: cp2471967
il 11/10/2014 alle 12:09
 
Assolutamente nn condivido , film un pò lento rispetto alle...
Inviato da: francesca632
il 07/10/2014 alle 11:28
 
 

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