cinzia guidetti

L'ULTIMO CAPITOLO DELLA SERIE "IL JAZZ" DI GUNTHER SCHULLER


Uscirà nelle librerie giovedì 13 Maggio l'ultimo libro della serie "Il Jazz" di Gunther Schuller. Il libro che si intitolerà "L'era dello swing. Le orchestre bianche" arriva in Italia dopo essere uscito nel 1989 in America.Di seguito l'articolo estratto dal sito dell'Edt che ne parla (fonte):Quando nel 1957, durante una conferenza alla Brandeis University, Gunther Schuller teorizzò una 'terza corrente' - Third Stream appunto - in cui jazz e musica classica si parlassero a livello compositivo ed esecutivo, aveva sicuramente in mente anche un rapporto tra musicologia 'colta' e 'jazz', all'epoca pura utopia. Schuller ha dedicato gran parte della propria esistenza di musicologo alla dignità del suono afroamericano nella sua totalità, dalla scrittura alla performance: i suoi due (culturalmente) ponderosi volumi Early Jazz e The Swing Era, editi tra i '60 e gli '80, soppesano la storia di un genere troppo spesso sottovalutato nel suo apporto non solo musicale, ma anche sociologico. Fraintendimenti e pregiudizi hanno tagliato i rapporti tra la musicologia accademica e un genere musicale che nasce sì dal basso e per via improvvisativa, ma si sviluppa e continua a svilupparsi con un linguaggio altamente contagioso a tutti i livelli della comunicazione sonora. Schuller, da compositore e musicologo, lavora di bisturi su orchestrazioni, cellule melodiche, fraseggio: gli obiettivi erano da un lato colmare questa lacuna, dall'altro dimostrare che non esiste 'jazz tradizionale', ma 'jazz classico'; che la fiaccola dell'innovazione, come scrive Marcello Piras nell'introduzione all'edizione italiana, passava di mano in mano a «vestali della tradizione, come Joe Oliver, e fuochisti della rivoluzione, come Don Redman [...] Tutti insieme, essi gettarono le basi formali e sintattiche del codice-jazz». La curatela di Piras per edt ha ridato vita all'opera schulleriana, nei sei volumi in cui è stata divisa per l'edizione italiana: peraltro solo ora, dopo un duro lavoro di confronto delle fonti, vede la luce il sesto e ultimo testo, Le orchestre bianche e gli altri complessi. Inevitabile quindi immaginare un lavoro che non sia di semplice traduzione e minima revisione, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui ancora molto c'è da fare in quest'ottica di avvicinamento.In un dialogo con il curatore questi ed altri punti chiave emergono chiari, ora che la serie è finalmente completa.
"Early Jazz" fu pubblicato nel 1967, "The Swing Era" nel 1989, la concezione delle due opere è persino antecedente: quali sono le principali difficoltà con le quali ha dovuto confrontarsi come curatore?«Una: l'aggiornamento dei dati. Il boom della musicologia jazz nelle università statunitensi è posteriore a entrambi i libri. Migliaia di fatti storici spiccioli, ad esempio date di nascita, a lungo accettati come pacifici, in realtà provenivano da giornalisti o dal sentito dire: una volta controllati con metodologia rigorosa si sono rivelati imprecisi o addirittura falsi. Non aspiro ad averli trovati tutti, per carità; ma di sicuro l'edizione italiana è molto più corretta delle due originali, specie la seconda. Tanti studiosi della mia generazione hanno preso le distanze da Schuller proprio perché ritenuto non abbastanza 'scholarly'. Uno di loro, Lewis Porter, una volta mi ha detto: beato Gunther che ha te come traduttore! Esagerava, ma cogliendo un grano di verità».In occasione della prima edizione di "Early Jazz" lei temeva l'effetto che avrebbe fatto il libro su una musicologia italiana asfittica e disinteressata al jazz; per la nuova edizione a cura di EDT auspicava una risposta più significativa: "un briciolo di ottimismo è lecito", scriveva nell'introduzione. Ora che la serie si chiude, quell'ottimismo era giustificato? Le premesse sono state esaudite?«L'ottimismo era giustificato, ma la situazione oggi non è per niente buona. In primo luogo, ancor oggi quasi tutti gli studiosi di musica europea colta non toccano un libro se vedono la parola 'jazz'. Sono decisissimi a rimanere analfabeti dell'argomento, molti ancora credono che il jazz sia Gershwin, come ottant'anni fa. Non capiscono che studiare il jazz migliorerebbe la loro visione della musica europea scritta. Solo tra le nuove leve le cose stanno a fatica cambiando. Un discorso simile vale per la maggioranza degli etnomusicologi: sanno che il jazz esiste ma lo guardano con la coda dell'occhio. Tra coloro che si occupano di popular music, invece, molti acquistano questi libri, e certo li sfogliano, ma non so se li capiscano. Il pregiudizio del jazz come musica 'popolare', 'non colta', 'extracolta', acceca molte persone, anche se portiamo un milione di prove contrarie. Ovviamente coloro che si occupano di jazz comprano i volumi di Schuller, ma molti sono giornalisti, e la distanza tra giornalismo e musicologia è troppo grande per valicarla d'un balzo. Alla fine, ad apprezzare davvero quest'opera rimangono pochi eletti. Più che quindici anni fa, ma meno di quel che occorrerebbe».Dal punto di vista della metodologia, come quest'opera è a tutt'oggi attuale? Quali sono i suoi punti di forza?«È attuale anzitutto perché le sue analisi sono per lo più uniche, non trovano equivalenti altrove, né come approccio, né (spesso) come oggetto analizzato. Molte persone che passano per 'esperti di jazz' sono in realtà gente impreparata, quando non decisamente ignorante, che si lascia ipnotizzare dagli assolo strappandoli dalla cornice formale in cui sono incastonati. Schuller invece è un compositore, quindi percepisce, soppesa e giudica i valori compositivi. Già questo è un punto di superiorità colossale. E poi è un direttore: quando ascolta una sezione tromboni si accorge di difetti - e ne deduce cause e rimedi - che nessun altro al mondo percepisce. In certe pagine sembra di vedere l'orchestra ai raggi X. Oserei dire che l'analisi dell'esecuzione ha spesso il sopravvento sull'analisi della forma. E con il jazz questo è un approccio possibile e utile».Quali sono i nomi cardine intorno a cui si snoda la storia del jazz secondo Schuller? Quali artisti di scarsa fama hanno invece grande importanza, a giudizio suo e di Schuller? In linea di massima, in cosa concorda e in cosa si trova in disaccordo con la visione del jazz dell'autore?«Sul canone dei maestri del jazz vi è ormai un'ampia convergenza, non solo tra Schuller e me, ma tra tutti gli studiosi. È il canone che per primo, decenni fa, aveva delineato Arrigo Polillo, e che richiede solo di essere allargato via via, non rivoluzionato. Se proprio vogliamo sottolineare le differenze, io considero James P. Johnson più importante di quanto non paia a Schuller: ma questa è materia ancora fluida, i manoscritti di Johnson sono stati inaccessibili fino a poco fa. Per il resto, la mia visione del jazz è piuttosto lontana da quella di Schuller, ma solo nel senso in cui le foglie sono lontane dalle radici: c'è di mezzo una generazione, dopotutto. Io sono partito da una visione simile alla sua, poi l'ho sviluppata, con l'apporto di altre discipline musicologiche, umanistiche e scientifiche (come la linguistica o la biologia molecolare) in un modo che, peraltro, egli stesso ritiene valido, tanto che mi ha incoraggiato a pubblicare tali sviluppi. E tra poco lo farò: se sarà possibile, con la sua prefazione. Così si potranno vedere e misurare sia la continuità, sia la distanza».