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« debito pubblico e rispar...populismo: la rivoluzion... »

Indietro tutta: il Governo del Cambiamento abbandona le Politiche Attive del Lavoro e torna all'assistenzialismo.

Post n°99 pubblicato il 15 Ottobre 2018 da claudionegro50
 

 

Il Jobs Act aveva compiuto una rivoluzione in materia di politiche del lavoro, spostando attenzione e risorse dalle politiche passive (sostegno al reddito) a quelle attive (servizi al lavoro).

In primo luogo la Cassa Integrazione Straordinaria dura al massimo 24 mesi, contro una prassi consolidata negli ultimi 35 anni che, tra un escamotage e l'altro, consentiva di stare in CIGS anche un numero spropositato di anni perfino ad azienda chiusa da un pezzo.

Il lavoratore che perde il rapporto di lavoro percepisce la NASPI: un'indennità di disoccupazione. C'è un rapporto tra la percezione della NASPI e la partecipazione a politiche attive di ricollocamento, tramite l'istituzione dell'Assegno di Ricollocazione, che su base volontaria finanzia la partecipazione del lavoratore disoccupato a programmi di ricollocamento. E' il tentativo di portare il mercato del lavoro italiano a livello di quelli europei, in cui alla perdita del lavoro si risponde ovviamente con misure transitorie di sostegno al reddito, ma soprattutto di ricollocazione: le Politiche Attive

Si tratta di una rivoluzione prima di tutto culturale, per un Paese abituato a ragionare in termini di assistenza come misura sovrana contro la disoccupazione, e nel quale vige l'idea di un welfare fai-da-te, in cui all'indennità di Cassa Integrazione si affianca un po' di attività in nero.

Se ci sono punti deboli nel sistema istituto dal Jobs Act sono essenzialmente nel fatto che l'Assegno di Ricollocazione è volontario, e basta che venga attivato prima che scada il NASPI (24 mesi) cioè troppo tardi per rendere credibile una ricollocazione. Nella gran parte dei Paesi Europei la partecipazione a programmi di ricollocamento è obbligatoria, pena la perdita dell'indennità di disoccupazione.


Su tutt'altro orizzonte si muove il "Governo del Cambiamento": il primo obiettivo è il ripristino della Cassa per Cessazione per cessazione di azienda, ossia il prolungamento del periodo di sussidio al reddito (2 anni di GICS + 2 anni di NASPI). E questa pare essere la priorità: ridare centralità alle politiche passive come asse portante dell'intervento dello Stato.

E' stato anche ipotizzato (per ora solo a livello di dibattito, ma dà l'idea dell'orientamento culturale) di definire il Reddito di Cittadinanza come strumento universale di sostegno al reddito, facendogli assorbire funzioni e risorse di NASPI e AdR.

Ma siccome il Reddito di Cittadinanza non è presentabile come pura assistenza, si stabilisce che esso sia subordinato alla partecipazione a programmi di ricollocamento, che però dovranno essere rigorosamente gestiti dal Pubblico: i Centri per l'Impiego. Dove l'esperienza del ricollocamento funziona (come in in Lombardia) operano insieme i CPI e altri soggetti privati accreditati dalla Regione, con risultati molto buoni. Però evidentemente al Ministro non risulta, o se gli risulta guarda con sospetto a questa "privatizzazione del collocamento": del resto già ha provato a penalizzare il lavoro in somministrazione nel cosiddetto Decreto Dignità.


E non si tratta soltanto di un problema di risorse: sarebbe già uno sforzo enorme garantire a tutti l'Assegno di Ricollocazione, e chiaramente se si finanzia un allungamento della Cassa Integrazione lo si fa a spese delle risorse per il Ricollocamento. E' anche una questione culturale: il Paese ha bisogno di più occupazione, che non si crea con con decreti e divieti ma con un Mercato del Lavoro moderno, in cui a chi cerca lavoro lo Stato fornisce le risorse e gli strumenti di cui ha bisogno.

Ma il Reddito di Cittadinanza può assolvere a questa funzione? Certamente no, per una serie di ragioni:

  1. i CPI non hanno al loro interno le risorse umane necessarie; la scelta di scartare il modello di integrazione con gli Operatori Privati rende necessario un forte investimento che ovviamente potrà dare risultati non prima di un paio d'anni (a meno che un risultato non venga considerato l'assunzione stessa di nuovi dipendenti dei CPI)

  2. le norme di condizionalità sono addirittura più lasche di quelle in vigore da sempre: oggi in teoria si può perdere il sostegno al reddito se si rifiuta una sola offerta di lavoro "coerente", con il RdC arriviamo a tre (ma parliamoci chiaro: saranno sempre teoriche!). E comunque si pongono alcuni problemi cui non è stata neppure immaginata la risposta: se mi propongono un contratto part-time di 750 € al mese (del tutto realistico, corrisponde a 1.500 € del full-time) sarò portato a rifiutarlo, ovviamente (perchè lavorare per guadagnare meno di quanto mi danno se resto a casa?); in questo caso che mi succede? Mi levano il RdC? Altra ipotesi: accetto ma lo Stato integra la mia retribuzione fino ai 780 €; ma se mi offrono un lavoro a 300 € mi integrano lo stesso? E per quanto tempo? E nel combinato disposto di proposte dubbie, mancate proposte, rifiuti discutibili, quanto tempo posso restare a carico del RdC?
    Se lo Stato garantisce a tutti di integrare il reddito da lavoro a 780 sarà la festa della sottoccupazione e del lavoro grigio.

  3. Sembra che esista in Italia un oggettivo, tanto inaccettabile quanto radicato, conflitto tra il percepimento di un sussidio di disoccupazione e la ricerca attiva di un nuovo lavoro. La sperimentazione dell'Assegno di Ricollocazione ha prodotto esiti impalpabili, e non soltanto per i problemi tecnico-procedurali: come pronosticato la discrezionalità senza sanzioni nell'attivarlo e la mancanza di vincoli temporali ha costituito un forte disincentivo per i percettori di NASPI.
    Ma c'è un altro dato, peraltro non "sporcato" da problemi tecnici, che ci restituisce lo stesso esito. Parliamo di Dote Unica Lavoro della Regione Lombardia, politica attiva funzionante con buoni risultati da alcuni anni: i lavoratori che chiedono da Dote vengono distribuiti in quattro fasce di aiuto a secondo del loro profilo di occupabilità. Soltanto la fascia 3plus, che raggruppa i candidati con maggiori difficoltà, prevede un sussidio, che viene pagato al candidato alla fine del Piano Individuale di Collocamento, positivo o no che sia stato l'esito.
    Esaminare i risultati delle quattro fasce è molto istruttivo: sul complesso dei candidati l'esito positivo è stato del 30%. Per la fascia 3, che evidenzia maggiori difficoltà di collocamento, l'esito positivo è comunque del 29%. Per la fascia 3plus, l'unica sussidiata, il risultato è il 2,46%. Il che non è spiegabile semplicemente con la maggiore difficoltà a ricollocare persone con bassa professionalità e con un lungo periodo di disoccupazione alle spalle: troppo netta la differenza con i risultati di fascia 3, che pure presenta profili analoghi anche se meno gravi. E' inevitabile vedere un rapporto inverso tra ricerca attiva del lavoro e percepimento del sussidio, che diventa il vero obiettivo di queste persone, mentre nelle fasce che non lo prevedono l'obiettivo è trovare un lavoro; questo genera un atteggiamento diverso tra i due gruppi, dove chi percepisce il sussidio sarà meno attivo e meno disponibile ad accettare proposte di impiego.


Nel Reddito di Cittadinanza il sussidio è l'elemento enfatizzato, e la Politica Attiva, che infatti non viene in alcun modo declinata in azioni definite e concrete, un effetto collaterale, poco più di una foglia di fico per celare una pura politica assistenziale.

 

 

 

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