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Messaggi del 09/12/2018

 

populismo: la rivoluzione fittizia

Post n°100 pubblicato il 09 Dicembre 2018 da claudionegro50
 

 

La jaquerie francese sta levitando rispetto alle sue motivazioni iniziali e si propone come la summa e l'estrema manifestazione del populismo: l'insurrezione contro lo Stato. Inutile azzardare paragoni storici: quello con le Grandi Rivoluzioni è ridicolo. Difficile identificare le motivazioni: quella iniziale (il caro benzina) è ormai dimenticata anche dal movimento stesso. Se date un'occhiata al Manifesto dei 25 punti diffuso in rete, ci trovate un delirio onirico: perfino lo Statuto del Carnaro di D'Annunzio e De Ambris pare realistico al confronto. Eppure tanta gente ci si identifica: è l'esplosione del rancore, della cattiveria, della voglia di vendetta di chi si sente povero, emarginato, trascurato, senza speranza.

Ma davvero il popolo francese è alla fame? Ai livelli minimi di sussistenza? A naso no, ma se andiamo a verificare vediamo che reddito e consumi dei francesi si collocano decisamente nella fascia alta dell'UE. Sono disoccupati i francesi? Non molti: il tasso di occupazione è al 70% (in Italia il 58,1%). Hanno bassi salari i francesi? No, sono superiori alla media UE e nel periodo 2000-2017 sono cresciuti del 20,4%, pari a 6.000 € annui. Non possono permettersi consumi dignitosi i francesi? No: i consumi individuali sono superiori dell'11% alla media UE, e addirittura di un punto superiori a quelli della Svezia. Allora il reddito sarà distribuito in modo estremamente diseguale? Neanche: l'indice di Gini, che misura appunto il "tasso di eguaglianza sociale", colloca la Francia tra i Paesi più egualitari con un indice di 29,3, migliore perfino di quello della Germania. I francesi sono spolpati dalle tasse? Vediamo: la tassazione sulle persone fisica è alta con l'aliquota teorica al 51,4%, comunque inferiore a quella svedese, danese e belga; ma il gioco delle detrazioni e altri strumenti analoghi fa sì che il reddito netto, detratte le imposte, sia inferiore soltanto a quello della Norvegia, Lussemburgo, Austria e Islanda, e perfino un filo superiore a quello tedesco.

E questo sarebbe il paese dove una moltitudine cenciosa, stanca di chiedere invano il pane e versare il sangue per mantenere al lusso lor signori, afferra falci e forconi e si ribella, avendo da perdere solo le proprie catene?

E' ovvio che non è così: è soltanto l'immagine che una parte della società proietta per dare forma e motivazione al proprio rancore e all'odio, generando una furia cieca e vandalica che si cerca di nobilitare attribuendole intenti rivoluzionari. Una rabbia che ha bisogno di un nemico a tutto tondo, che in Francia è stato individuato nelle elites, nell'Inghilterra della Brexit negli "esperti", in molti Paesi Europei negli stranieri, in Italia (non ci facciamo mancare nulla) sia negli stranieri che nei "burocrati di Bruxelles); in Spagna sapremo tra un po'...

Il disagio che sta alla base di tutto ciò è "percepito" e spesso non ha riscontro nei fatti reali: tuttavia è chiaro che l'insicurezza e l'arretramento economico che buona parte delle società occidentali ha provato durante gli anni della crisi hanno lasciato un segno psicologico profondo, che si materializza essenzialmente nella crisi delle aspettative: l'attesa di guadagnare di più, l'aspettativa di andare in pensione alle stesse condizioni della generazione precedente, la previsione di migliorare la condizione economia e sociale rispetto a quella di partenza.

In un Occidente abituato dalla fine della guerra ad una crescita continua, per la prima volta si deve fare i conti col fatto che la crescita può fermarsi, e/o che si manifesterà in forme nuove, tali da generare un nuovo modello di rapporto tra la società e il lavoro, nuovi paradigmi per la redistribuzione del reddito, forme nuove di mobilità sociale.

Il rischio che una parte della società resti emarginata da questi processi esiste; in qualche modo gilets gialli e simili lo sentono e reagiscono con il riflesso pavloviano dei luddisti: spacco tutto perchè nessuno goda del nuovo mentre io ne soffro, spacco tutto perchè si possa tornare a come si stava prima. Questo vagheggiamento del passato è presente in generale nei populismi ma in particolare a quelli "di sinistra", in cui sono presenti anche fisicamente i dirigenti politici che ascrivono alla propria storia il merito degli oltre 50 anni di crescita e benessere dell'Occidente (anche se a quei tempi lo combattevano perchè "compromesso di classe").

Ma le jaqueries non servono: non sono neanche fascismo (anche se ne mutuano linguaggio, aggressività, intolleranza e violenza: gli squadristi avevano alle spalle ben altro consenso sociale, e tra l'altro avevano una certa professionalità in materia di violenza avendo fatto la guerra...).

Servono le politiche per il lavoro, la formazione, gli investimenti. Ma i tempi, e neanche i contenuti, non possono essere quelli della jaquerie: i gilets gialli sapranno aspettare? E se no, sapremo obbligarli ad aspettare? Perchè anche questa, in un contesto nel quale l'Occidente è aperto alle scorrerie dei populismi fin dalla sua Istituzione più prestigiosa, la Presidenza degli Stati Uniti, può diventare un'opzione da considerare.

 

 
 
 
 
 

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