I compañeros

L'INFERNO DELLE GUERRE


Afghanistan, sempre più vittime civiliOltre 250 civili afgani uccisi dalla Nato dall’inizio dell’anno               
        Durante una conferenza stampa tenutasi domenica a Kabul, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Sir John Holmes, ha denunciato che nella prima metà del 2008 il numero delle vittime civili della guerra in Afghanistan è cresciuto del 62 percento rispetto allo stesso periodo del 2007: settecento morti – contro i 430 della prima metà dell’anno scorso – di cui oltre 250 vittime dei bombardamenti aerei e delle truppe Nato. Un dato, quest’ultimo, in linea con quello del 2007, che vide circa cinquecento civili afgani morire sotto le bombe alleate. La Nato nega ma non spiega. I comandi Nato hanno reagito con fastidio. “Già lo scorso maggio l’Onu ci ha accusato di aver ucciso duecento civili, e già in quell’occasione avevo detto che questi numeri sono di molto superiori ai dati in nostro possesso”, ha dichiarato Mark Laity, portavoce dell’alleanza a Kabul, concludendo che “vale lo stesso questa volta”. Peccato che la Nato non abbia mai fornito numeri alternativi dei civili uccisi nelle proprie operazioni, limitandosi a ripetere il solito ritornello sulla estrema difficoltà di evitare ‘danni collaterali’ a causa del fatto che i talebani si nascondo nei villaggi tra i civili e sparano dalle case. I caccia della Nato effettuano in Afghanistan una media di cinquanta missioni di bombardamento ogni giorno. Secondo le squadre militari di verifica a terra della Nato (le Jtac, joint terminal attack controller), le vittime dei raid aerei sono sempre ‘insorti’, e se non lo sono ce li fanno diventare. Le morti civili vengono alla luce solo quando quando le autorità locali afgane hanno il coraggio di contestare la versione ufficiale della Nato. Quindi I dati ufficiali, come quelli diffusi dall’Onu, sono solo la punta dell’iceberg: la maggior parte delle vittime civili non vengono riportate perché, in base alle direttive alla stampa diramate il 12 giugno 2006 dal governo Karzai, I giornalisti afgani – gli unici ad avere accesso alle informazioni sul campo – non possono scrivere articoli che mettano in cattiva luce le forze militari straniere.***Gli iraniani fanno il conto dei costi della guerraI veterani disabili non sentono riconosciuto il loro ruolo durante il conflitto Iran-Iraq               
        Ventidue anni fa Keyvan perse entrambe le gambe, sotto il ginocchio, durante un attacco degli iracheni con i mortai vicino alla città di Abadan, nell'Iraq meridionale. Era minorenne quando si arruolò per combattere nella guerra Iran-Iraq, ed oggi ripete che combatterebbe ancora per il suo Paese in caso di necessità.Keyvan è solo uno dei 300mila iraniani rimasti disabili dopo la guerra combattuta fra il 1980 e il 1988, che ha causato quasi 200mila vittime. I dati ufficiali sostengono che circa 36mila delle vittime erano minorenni. Keyvan, oggi quarantenne, ricorda come si arruolò volontario e partì per il fronte dalla sua città natale di Esfahan solo pochi mesi dopo che suo fratello Mehran, allora sedicenne, era stato ucciso in uno scontro sull'isola di Majnoun. “Non ero abbastanza grande per poter prendere parte al conflitto, così fui costretto a falsificare i miei documenti per dimostrare che avevo più di 15 anni”, dice Keyvan. Malgrado la sua mutilazione, dice, “non rimpiango di essere stato in guerra. Se un'altra nazione attaccasse l'Iran nelle stesse circostanze, senza dubbio io sarei fra i difensori della nostro Paese.” Eppure Keyvan non è contento della mancanza di riconoscimento dato alle persone che, come lui, hanno messo la loro vita in gioco al fronte per la patria. “Di questi tempi la gente crede che era nostro dovere prendere parte al conflitto e che, come ricompensa, otteniamo denaro e privilegi, ma le cose non stanno così”, racconta. “Naturalmente non hanno torto sul fatto che alcuni ufficiali e funzionari della classe dirigente abbiano strumentalizzato la guerra e i suoi combattenti, e questo ha avuto un impatto negativo sulla visione della gente riguardo alla guerra”. Keyvan è particolarmente scontento del modo in cui le organizzazioni si prendono cura dei veterani di guerra. “Molti dei mutilati, ed in modo particolare le vittime di attacchi chimici, oggi non vivono secondo uno standard di vita decente”, dice. “La Fondazione per le Vittime e i Mutilati di Guerra oggi non si prende cura di loro come dovrebbe, ed è in gran parte interessata solo ai propri programmi”.La sedia a rotelle di Keyvan non è di quelle moderne, e deve far girare le ruote a mano. “Non avrei mai pensato che le mie mani potessero essere così potenti. Le mie mani devono servirmi anche da gambe”, dice con un sorriso.Anche un altro intervistato, Ebrahim, ha servito come volontario da minorenne. Aveva 14 anni quando entrò nell'esercito con suo padre e il fratello più grande. Ora ha 38 anni ed ha perso quasi completamente l'udito a causa della guerra.Oggi studia per una specializzazione post-laurea nel campo delle comunicazioni e dice che in una società che sta affrontando prezzi in continua crescita ed altre pressioni di tipo economico c'è poco posto per la compassione verso gli eroi dei giorni passati. “Le difficoltà economiche sono tali che ognuno sta lottando per superarle, così i veterani di guerra non trovano tempo né opportunità per narrare le loro memorie”, dice. Ebrahim è scosso dalla rabbia alla percezione popolare che i veterani e i mutilati di guerra beneficino di sussidi e privilegi. “Nessuna delle grandi organizzazioni e fondazioni che sono state create in nome dei combattenti e dei veterani di guerra si sta di fatto occupando di queste persone”, inveisce. “Sono talmente preoccupate ed aggrovigliate nei propri problemi economici interni che si sono completamente dimenticate la ragione per cui sono state costituite. Non riescono neppure a ricordarsi se un certo mutilato di guerra sia ancora vivo oppure no”. Guardando la capitale dalla sua finestra dice: “La gente immagina che a casa nostra dai rubinetti scorra olio [abbondanza], ma la realtà è che i veterani di guerra sono vittima degli slogan degli uomini di stato. Ogniqualvolta un politico cerca di mostrare che il proprio governo pensa al popolo, cita i veterani e i mutilati di guerra, ma le parole e le azioni non coincidono”. Ebrahim ricorda una predizione fatta da Mahdi Bakeri, un rinomato comandante militare ucciso in guerra, circa l'effetto della fine del conflitto sugli ex-combattenti. Secondo lui si sarebbero divisi in tre gruppi: quelli dominati dal rimorso, coloro che dimenticano il passato ma non riescono a gestire la loro nuova vita e quelli che rimangono ancorati al passato e continuano lottare con il trauma della guerra. Come molti altri iraniani che considerano di lasciare l'Iran per continuare gli studi, Ebrahim dice: “Forse dovrei andarmene per prendere un dottorato all'estero, chi lo sa?”. Eppure come Keyvan, Ebrahim conclude: “Malgrado tutte le ingiustizie nei nostri confronti, se l'integrità territoriale della mia nazione fosse ancora in pericolo io sarei pronto a difenderla in ogni istante”.Morteza è un ufficiale in pensione dell'esercito iraniano, 55 anni, che soffre di numerose malattie, fra cui il morbo di Parkinson, insorte in seguito ad un attacco chimico iracheno subito durante la guerra. Entrò nell'esercito ancora sotto lo Scià, negli anni Settanta, e seguì un corso di addestramento negli Stati Uniti. Dopo la rivoluzione iraniana nel 1978 si arruolò nelle nuove forze armate e servì nel corso degli otto anni di guerra contro l'Iraq. “La guerra è un male per qualsiasi nazione ed il risultato finale è sempre costituito da perdite e distruzioni”, dice. “Ma questa guerra ci fu dichiarata nel settembre 1980 e non ci fu altra scelta che difendere il nostro paese”. Nel 1986, durante l'operazione Valfair nella penisola di Al-Faw, Morteza fu avvelenato da un attacco chimico che lui ritiene responsabile dei sintomi che sono apparsi negli ultimi otto anni. “Dopo che fui ferito dagli agenti chimici fui trasportato all'ospedale e le ferite si rimarginarono in poco tempo”, ricorda. “Ma pochi anni dopo la fine della guerra, all'età di 47 anni, ho iniziato a soffrire di morbo di Parkinson. Secondo tutti gli esperti e specialisti ciò è stato causato dalle armi chimiche, ma gli ufficiali incaricati di occuparsi dei mutilati di guerra in Iran non hanno mai accettato questo come un fatto”. Le mani e le gambe di Morteza tremano, così come la sua voce, a causa del morbo di Parkinson che progressivamente peggiora. Sebbene sia un membro dell'associazione Parkinsoniani in Canada, che gli invia alcuni dei medicinali necessari, dice: “Negli ultimi anni ho avuto problemi per ottenere i miei medicinali a causa delle tensioni nelle relazioni fra Iran e Canada ed anche per le sanzioni imposte all'Iran”. Parlando del modo con cui le altre persone si relazionano a lui dice: “La gente mi tratta bene ed a volte mostra particolare rispetto, ma io cerco sempre di sfuggire i loro sguardi di pietà; è una cosa che odio”. Malgrado i suoi problemi Morteza è d'accordo con gli altri combattenti intervistati, nel dire che se l'Iran venisse attaccato lui vorrebbe difenderlo. “Io sono stato un membro delle forze armate ed era mio dovere partecipare alla guerra, ma in ogni caso io non sarei mai in grado di tollerare un'aggressione da parte di un'altra nazione contro la mia patria”, dice.Molti di coloro che non sopravvissero al conflitto riposano nel cimitero di Beheshte Zahra, in una sezione speciale riservata alle vittime di guerra. Una tomba appartiene ad un giovane di nome Morteza, e la data testimonia che fu ucciso all'inizio della guerra, nel 1981, a Chazzabeh, nell'Iran sud-occidentale.Alcune donne siedono accanto alla tomba. “Che cosa dovrei dire? Si dicono molte cose eppure non c'è segno di azione”, dice una donna che ha perso due figli nel conflitto. “Noi siamo state in silenzio per lungo tempo. Il silenzio è più forte di qualunque grido”. Vicino alla tomba di Morteza ce n'è un'altra di un giovane chiamato Abbas. “Venga qui che le racconto!”, grida un vecchio, basso e incurvato, che risulta essere il padre di Abbas, Mashhadi Mahdi. “Il mio Abbas era un esperto di telecomunicazioni. Il mio Abbas, la cosa migliore della mia vita, se n'è andata”, dice. “Perché nessuno si occupa delle persone? Quando passo vicino ai parchi sono sconvolto dall'odore delle droghe che vengono assunte dai giovani. Il mio Abbas era il capo del centro telefonico di Qolhak. Si era appena sposato”. Quando chiedo dove sia ora la vedova di Abbas, Mahdi replica: “Oh signora, si è risposata ed è andata in Italia”. Il vecchio mette una mano in tasca e cerca di mostrarmi qualcosa nel suo portafogli di plastica, dicendo: “Sono un pensionato della compagnia telefonica”. La sua pensione di 120mila toman sguscia fuori dal portafogli e rimango sconvolta dal ricordo del funzionario governativo che mi ha detto come il limite di povertà sia al di sotto dei 600mila toman al mese. Dopo aver detto queste cose il vecchio si calma, come se avesse solo voluto parlare con qualcuno. Si mette a pulire lo specchio e i porta candele sulla tomba di suo figlio con un pezzo di giornale, come ha fatto ormai per molti anni.Molte altre nazioni hanno grandi monumenti commemorativi dei propri morti e la gente mostra rispetto per esse e per le loro famiglie. Ma in Iran l'attitudine sembra un po' differente, anche se la guerra è stata imposta all'Iran da un attacco iracheno supportato da molte nazioni occidentali ed arabe ed ha lasciato ferite profonde sia nella società nel suo complesso che nelle città direttamente coinvolte nel conflitto.Secondo le parole di Keyvan: “In tutto il mondo la gente si leva il cappello in segno di rispetto per coloro che hanno difeso la propria patria – o anche attaccato altre nazioni – e come risultato hanno perso gli arti o la vita stessa... Eppure la società iraniana oggi ci è ostile”. Il popolo iraniano oggi combatte con molti problemi interni, accresciuti dalle difficoltà economiche create dalle sanzioni internazionali.Malgrado ciò vi è un senso di appartenenza alla nazione, di essere iraniani che ancora appare essere una forza unificante del paese. Le interviste che ho effettuato per questo articolo suggeriscono che quasi tutti quelli che hanno combattuto per la loro terra durante la guerra Iran-Iraq sarebbero pronti a combattere un aggressore nell'eventualità di un attacco futuro. Quel che è meno chiaro è se lo stesso valga per le generazioni di giovani più recenti, quelli nati dopo la rivoluzione. Sembra che ci sia una linea di divisione fra le nuove generazioni ed i veterani, non ultimo a causa del solco profondo che esiste fra i giovani e i leader politici attuali. Questo rende più difficile dire con certezza che gli iraniani più giovani mostrerebbero la stessa risolutezza dei veterani a resistere ad un aggressore esterno. ***Date un'occhiata anche qui per favore... Lettera da un carcere del MozambicoFabio