Che fortuna!!!

DIRITTO PENALE DEL NEMICO, NO GRAZIE!!!


IL DIRITTO PENALE SECONDO LE SPIEGIUSEPPE D’AVANZOPoi affiorano i fatti duri, ostinati, inevitabili e la retorica politica di Berlusconi («Abbiamo arrestato duecento terroristi») mostra, una volta di più, la nervatura della favola propagandistica. Non tutti gli arresti trovano una ragione nel terrorismo, e spesso non trovano nemmeno una ragione legittima o accettabile in quanto, anche in Italia, si è fatta strada una dottrina che riconosce una natura preventiva alla difesa sociale dal terrorismo islamico. Declinata nella prospettiva amico/nemico, ha aperto l’uscio a comportamenti fondati sul sospetto e sul pregiudizio. Come accade a Mohammed Daki assolto ieri in appello a Milano. Il suo processo – lo si ricorderà – è stato trasformato dalla maggioranza in uno "scandalo".Nel condannare Daki a due anni e dieci mesi per ricettazione di documenti falsi (pena ora cancellata), il giudice Clementina Forleo osa distinguere il terrorismo dalla "guerriglia urbana" contro una forza occupante. Ne ricava insulti, calunnie, il consueto tentativo di distruzione personale. Il "rumore" mette la sordina a un altro rilevante aspetto di quel processo: l’utilizzo, nel formulare l’accusa, di deduzioni, voci correnti, fonti anonime, «segnalazioni da parte di organismi americani», «acquisizioni informative» senza padre, «investigative» senza madre, naturalmente nulle e inutilizzabili in un processo equo, corretto, degno di uno stato di diritto. Nella raccolta delle fonti di prova, il primo processo a Mohammed Daki già racconta il metodo di lavoro scelto dalla procura di Milano, e in particolare da Stefano Dambruoso (oggi esperto giuridico presso la rappresentanza italiana alle Nazioni Unite di Vienna). L’appello lo mette ancora di più a nudo. Mohammed Daki confessa di essere stato interrogato incappucciato in questura; svela di essere stato sentito il 6 e il 7 ottobre del 2003 al sesto piano del Palazzo di Giustizia di Milano da «gente americana». Chiede la presenza dell’avvocato. Gli rispondono che «non ce n’è bisogno». Gli dicono che «deve parlare, se non vuole finire per venti anni a Guantanamo». Ci si augura che la procura di Brescia si occupi dell’affare per accertare se Daki mente o se Dambruoso ha stravolto ogni diritto e garanzia dell’imputato lasciando campo libero agli agenti della Cia o dell’Fbi.Quale che sia la verità, l’invasiva, determinante, inquinante presenza dell’intelligence, fino al 2004, è ormai un fatto per le indagini antiterrorismo di Milano anche prima che 22 agenti della Cia, violando la nostra sovranità nazionale, sequestrassero Abu Omar, un cittadino egiziano ospitato in Italia con lo status di «rifugiato politico». Per lunghi anni la procura milanese ha inseguito (addirittura ipotizzando che avesse ereditato da Al Qaeda il ruolo di «cinghia di trasmissione») un piccolo gruppo curdo islamico, Ansar Al Islami. Insignificante sul piano internazionale, strategico nell’"operazione di influenza" pianificata dalla comunità dell’intelligence americana. Come sostengono nell’estate del 2002 Bush, Blair, i falchi della Casa Bianca, Ansar Al Islami deve dimostrare gli «ampi legami» tra Bin Laden e Saddam Hussein. In quella stessa estate, Washington studia la possibilità di lanciare un attacco contro «un impianto di armi chimiche gestito dal gruppo radicale Ansar Al Islami installatosi nell’Iraq settentrionale. Per l’amministrazione americana lo stabilimento è legato ad Al Qaeda». La notizia dell’esistenza del laboratorio di ricina, rilanciata da Abc e Cnn, mette presto in imbarazzo il Pentagono perché i leader dei movimenti curdi che controllano quell’area fanno subito sapere che, «è vero, in quella zona ci sono gruppi islamici, ma raccolgono non più di 100/150 elementi e non sono legati a Bin Laden». Gli stessi oppositori iracheni escludono, a loro volta, che «gli uomini di Ansar Al Islami abbiano rapporti con il rais di Bagdad». Chi crede ostinatamente, al di là di ogni evidenza, a quel «legame» è il pubblico ministero Stefano Dambruoso. Che inaugura un nuovo paradigma penale.Nel diritto penale non si inventa mai nulla di nuovo, e dunque non fabbrica ex novo alcunché nemmeno il Dipartimento antiterrorismo milanese. Quel che accade a Milano è la riproposizione modernizzata del «diritto penale e processuale di polizia» con cui il nostro Paese ha fronteggiato il terrorismo autoctono. La polizia chiese mani libere. Leggi e ordinamenti ne estesero e rafforzarono i poteri aggirando le prerogative dei giudici. Si produsse una «duplicazione» dei poteri istruttori di competenza della magistratura. Sommarie indagini, perquisizioni, interrogatorio entrarono nella "disponibilità" della polizia giudiziaria. La trovata astuta, e sbalorditiva, dell’ufficio giudiziario meneghino è di adeguare quel «diritto di polizia» ai tempi, proponendolo nelle forme di un «diritto speciale dello spionaggio». Perché il nemico è "globalizzato", le polizie non lo sono. Solo l’intelligence community può raccogliere informazioni in ogni angolo del mondo, selezionarle, organizzarle in un "prodotto", utile all’istruttoria. Come accade per Ansar Al Islami, però, il pubblico ministero non è in grado di verificare l’attendibilità e la fondatezza o addirittura la ragionevole congruenza delle notizie, ma è consapevole che quelle informazioni, con i nessi che svelano, sono manna per la sua indagine che, a sua volta, offre lavoro comodo all’intelligence in una circolarità che finisce per trasformare la funzione giudiziaria in un segmento della funzione spionistica.Dall’innovazione del paradigma emerge un altro sorprendente mutamento. Il «diritto penale di polizia» trovava la fonte della sua legittimazione al di fuori dello stato di diritto, ma ancora dentro la nazionale ragion di stato, nei dintorni del criterio pragmatico di proteggere la sicurezza della nostra collettività, Il «diritto penale dello spionaggio», al contrario, rintraccia la sua legittimità in un oscuro altrove; in un territorio sconosciuto a chi lo deve interpretare. Sempre, infatti, l’intelligence tratta il "sapere" come una proprietà. Il pubblico ministero, quindi, non è in grado di conoscere perché i curdi di Ansar Al lslami – proprio loro – debbano conquistare una priorità nella sua investigazione. Aggirata ogni regola dello stato di diritto intorno ai mezzi e ai vincoli garantistici, l’iniziativa penale diventa così pura giustizia politica che ha la sua ratio nelle decisioni di un altro Stato, in una dottrina – quella americana post 11 settembre – che si fonda su una concezione della legittima difesa così speciale da legittimare la forcible abduction ("prelevamento forzato") di Abu Omar. È il coerente esito del «diritto speciale dello spionaggio». Gli agenti segreti devono scovare il pericolo quando non è ancora riconoscibile; quindi, quando ancora non è possibile esprimere un giudizio sulla sua inevitabilità. È una concezione, priva di alcun fondamento giuridico, che precipita ogni mossa in un baratro pregiuridico dove anche il più flessibile concetto di legalità perde di senso. L’intelligence che Dambruoso ospita nei suoi uffici, e che riceve Dambruoso nei propri, ha soltanto la necessità politica e militare di colmare il profondissimo "buco" informativo. Ha bisogno di «confessanti» che sappiano offrire risposte (inevitabilmente c’è chi se le inventa). Chi sono davvero i nostri nemici? Come sono organizzati? Chi li comanda? Dove e come reclutano i combattenti? Come vengono trasmessi gli ordini? Che cosa preparano? Gli spioni non hanno bisogno di imputati. Vogliono informazioni. Ogni confessante è «una risorsa». È questo l’obiettivo del loro lavoro. Come può esserlo anche per un magistrato? Come è possibile che la magistratura non voglia guardare in faccia questa degradazione che l’ha afflitta? Come è possibile che, mentre il commissario europeo alla Giustizia, Franco Frattini, minaccia sanzioni contro i Paesi che ospitano le prigioni segrete della Cia, il presidente del Consiglio si vanti di arresti mai fatti e, se fatti, organizzati nella logica dell’illiberale «diritto speciale dello spionaggio»?La Repubblica, 29 novembre 2005Dove stiamo andando? Ho paura di andare verso Guantamano ma in realtà ce l'abbiamo ormai a piccole dosi nelle nostre frontiere.. Ho paura di questo nuvo sentimento di vendetta verso cittadini cosidetti "nemici" ..Ho apura di questo diritto penale di cittadini e nemici..Ho paura di gente come Bush.. Ho paura del ripristino delle torture come fonte di prova..In realtà vediamo Guantamano come tratto di un film ma accade tuti i giorni.. Un giorno ce l'avremmo anche noi..I politici si eccitano ogni volta che usano quella formula vuota di contenuto reale "Stato di diritto".. In nome della cosidetta sicurezza, io non voglio una giustizia di serie A  e altra di serie B..