Ambarabà

A mia moglie (ed ai fantasmi della mente)


Io non lo sapevo che sotto la testa riccia, alla Angela Davis o Marcella Bella, fate un po’ voi,c’era un cesto di serpenti e vipere che avvelenavano la mente, più la sua che quelle altrui.Io non lo sapevo che i denti cristallini aperti nel sorriso, nascondevano l’intrico della malattia, appena sopra, nella testa.E non lo sapevo che il lenimento per la mie mani fredde, sulla cinquecento carica di neve “mettile qui, è il posto più caldo che ho” sarebbe diventato supplizio di anni, senza colpa per l’aguzzina.E nemmeno sapevo che il grande seno bianco sul mio petto era l’imbocco di un tunnel infinito, senza luce né speranza  e non sapevo, disteso fra le sue gambe che quello “stai dentro di me” avrebbe avuto un prezzo che nessuno può pagare.Ragazza tutta bianca dai grandi occhi neri della mia giovinezza, che mi passavi le dita fra i capelli allora folti, quanto mi sei costata, quando poi, libera di farlo, trasformavi il viso dolce in una maschera di rabbia e vomitavi parole che non potevano stare nella tua mente e dietro le labbra sbiancate dalla furia.Chissà cos’era, paura, sospetto, immotivato odio, che ti trasformava nell’idra rabbiosa che è rimasta, dentro gli occhi e la mente di tuo figlio e mio.Ed io, che avevo per missione di salvare il mondo, non ho salvato nemmeno te.E lui, solo un po’.Se mi fossi fermato alla cinquecento carica di neve quanta sofferenza e non solo la mia, non sarebbe stata.