Ambarabà

Anch'io ero torinese, una volta.


Torino è una città bellissima nella quale a 16 anni ho preso il tram numero dieci cha da Barriera di Milano andava a Mirafiori. Alla Fabbrica. I binari del tram in Corso Vercelli erano due rette che sembravano toccarsi, all'orizzonte di Porta palazzo e del Balun. Alle sei di mattina di una mattina d'inverno e le luci erano rossastre in mezzo alla nebbia. Era il tempo in cui c'erano ancora le latterie e ci potevi entrare dentro a prendere un caffelatte col croissant (grasie, neh, madamin!) Torino è la città violenta che ha mandato i suoi cellerini a malmenarmi quando in piazza facevo le manifestazioni. A vederlo in televisione sembra un film ma i manganelli erano duri. Torino è la città pacata e colta, che mi ha annichilito con Pavese e aperto la mente con Calvino. E mia madre leggeva dietro di me, per capire i miei sproloqui di diciottenne inquieto. Torino è la città severa che mi ha accolto, me, ferrarese della padania più piatta e mi ha fatto passare dalla fabbrica dai rimbombi ferrosi (ho ancora nel naso l'odore del ferro), alla scrivania di metri quadrati e biglietti in business class. Torino è la città gentile che mi ha guardato stupita e ammirata quando da giovane padre sono andato a star da solo con un figlio piccino (era il mio tempo da eroe ma io non lo sapevo). E quando ha potuto mi ha dato una mano. Torino è la città ingrata che mi ha scaricato, nel mezzo dei miei possenti quarant'anni. E le mie basette avevano i primi fili grigi. Torino è la città rimbellita da lifting costosi nella quale faccio il turista, di tanto in tanto, nei caffè storici sulle cui poltrone ancora si vede il segno delle chiappe di Cavour. E anche se mi apre i suoi ristoranti odorosi il sabato e mi offre i cioccolatini del caffè Torino, la domenica mattina, ormai vive la sua vita senza di me. Ma ero anch'io torinese, una volta. Torinese Olivetti, della sinistra sognante. Non Fiat.