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Il Classico del Ritorno.Intervista ad Antonio Sgroi.

Post n°15 pubblicato il 15 Ottobre 2007 da con_fine_arte
 

A cura di Francesca Conti

È come se fossi in una stanza: cerco qualcosa e continuo a cercarlo ovunque. Apro cassetti all’infinito.

Francesca Conti - Chi guarda all’iter del tuo lavoro spesso rimane disorientato dalla forte componente classicista che di tanto in tanto si apre a forme del tutto moderne ed innovative. Che rapporto c’è nella tua scultura tra tradizione e innovazione?

Antonio Sgroi - Non potrei prescindere dalla tradizione in cui sono cresciuto: il mio primo nutrimento fu la scultura, quella scultura con la S maiuscola, quella dei grandi maestri: non ho mai avuto particolari preferenze, ho amato tutti, amo la scultura in generale, sia classica che contemporanea… il tempo poi, a poco a poco, ha insinuato altri dubbi, spingendomi alla ricerca di una modernità che mi potesse identificare.

Credo ancora nella figurazione, ma non penso che il figurativo riesca ad esprimere tutto. La mia ricerca è orientata a fondere la forma figurativa con ciò che sta al di là del corpo, al di là del figurativo.

F.C. - Qual è l’opera in cui pensi di esserti avvicinato di più a questo intento?

A.S. - Ascolti interiori. Questa scultura è nata dal silenzio. Chiusi gli occhi e incominciai a modellare l’argilla. È nata questa forma in maniera inconscia, al di fuori da qualsiasi contaminazione. L’orecchio è la sede dell’equilibrio: ciò che percepisco attraverso l’udito, mi può sollevare o tormentare, mi può rasserenare o angosciare. È la parte del corpo più complessa ed anche la più plastica e lavora in maniera costante condizionando la nostra condizione psicologica.

Mi piace molto perché parla di me, non è solo forma ma raggiunge il mio inconscio: è classica ma anche molto moderna. La sua struttura tentacolare allude ad un diramarsi tentacolare verso l’interno, ma i diversi punti di vista svelano altre simbologie: la parte anteriore, più figurativa, assume una connotazione più sensuale e, se vogliamo, sessuale nella visione di due gambe che si intrecciano: è come un bulbo che si sviluppa, raccordandosi con le linee fetali dell’orecchio; nella parte posteriore, più astratta, invece, il tormento iniziale si raddolcisce in armonia attraverso questa fusione di elementi che nel loro insieme ricordano quasi una cornucopia o una conchiglia: uno strumento musicale pronto a far sentire le sue note melodiose.

F.C. - Flaubert sosteneva che non sono le perle a fare la collana, ma il filo. È in questo senso la tua ricerca…

A.S. - Quello che ho fatto fino ad ora lo ritengo iter della mia ricerca. Nella Metamorfosi quell’elemento sottostante la figura, che a prima vista potrebbe sembrare panneggio o carta, vuole essere un elemento non chiuso, bensì frazionato dalla luce: una crisalide dalla quale nasce questa “figura-insetto”. Anche qui, in una figura che può rimandare a canoni classici, la modernità sta proprio in questa posizione animale le cui linee rompono gli schemi accademici.

Non sono a caccia di un clichè che mi leghi ad una trovata geniale.

Il corpo è ormai stato illustrato in mille modi, in tutte le sue sfaccettature, in tutte le possibili soluzioni: ma c’è un universo dentro di noi e vorrei riuscire ad esprimerlo attraverso la materia.

F.C. - Come riesci a seguire questa tua strada interiore, del silenzio, dovendoti relazionare con il “chiasso” dei compromessi e delle committenze?

A.S. - Prima di essere un artista io sono uno scultore, esercito un mestiere e, indubbiamente, a volte, mi devo confrontare con le esigenze della committenza che non sempre rispecchiano il mio concetto.

Tuttavia, a volte, la committenza è anche qualcosa di stimolante.

Libera, per esempio è un buon lavoro in questo senso: ho immagazzinato e fatto mie tutte le esigenze derivanti dai fattori esterni come il tema, il luogo, il budget ecc. e, rimescolandole dentro, è venuta fuori l’idea che, in questo discorso d’insieme, può essere considerata un ottimo lavoro: sintetizza il compromesso fra momento creativo ed esigenza della committenza.

Penso che la qualità dell’opera sia nell’apparente classicità della figura ed il contrasto con la geometricità della vasca labirintica. È una fontana, ma soprattutto una scultura composta da due elementi: marmo ed acqua. Quest’ultima simboleggia la purificazione e nel contempo sommerge il labirinto che allude all’agire sommerso della mafia. La figura cerca la libertà, ma il discorso diventa più universale: è una liberazione dalle angosce umane in generale.

La donna infatti regge una melagrana, simbolo positivo dell’unione nella lotta.

La fenditura che lascia intravedere i semi contenuti, è esattamente il profilo della Venere preistorica ritrovata a Savignano sul Panaro: ho voluto unire e omaggiare questa terra con questo gioco surreale.

F.C. - Per te da dove nasce l’impulso necessario alla creazione?

A.S. - La creazione è il superamento di un’amnesia: è qualcosa che non ricordo che all’improvviso viene fuori. L’idea è già dentro di me, deve solo venire a galla. Io aspetto. E perché ciò accada è indispensabile l’esperienza del quotidiano.

F.C. - In Omaggio a Pascal che tu hai realizzato nel ’97 si è voluta vedere una sorta di premonizione di quello che è successo a New York nel 2001. Potrebbe essere stata un’amnesia del futuro, o credi che quanto ci sia di ‘profetico’ nell’opera d’arte sia soltanto una casualità?

A.S. - È difficile dirlo.

Quando ho fatto quell’opera pensavo a due forme geometriche che fossero simbolo di quella modernità che allontana l’uomo dai suoi valori.

Si, sarebbero potuti essere tanto dei palazzi quanto dei grattacieli, comunque qualcosa che appartiene a questi tempi che sembrano innalzare l’uomo, ma in realtà lo tengono distante dal frutto che tenta di raccogliere. Non è comunque un’opera pessimistica: i due volumi sono solo un ostacolo. L’uomo, pur nel suo abbattimento, in questa distanza che lo separa dal frutto che vorrebbe raggiungere, riesce comunque a mantenere integra la sua dignità.

F.C. - Che differenza c’è, quindi, fra questa modernità “fuorviante” e quella che cerchi nel tuo lavoro?

A.S. - Sono due facce della stessa medaglia: una è negativa, lontana dal mio modo di pensare, crea stress, tenta di allontanarci da noi stessi; quella che io cerco è positiva, ci stimola a crescere, ci induce alla ricerca.

F.C. - La critica, oggi, non si occupa molto del figurativo, tantomeno della scultura. Questo atteggiamento sembra quasi causato da una sorta di autocompiacimento che alcuni “scrittori d’arte” hanno verso se stessi ed il proprio lavoro. Si ha quasi l’impressione che sia più difficile parlare attraverso canoni riconoscibili e comprensibili che giocare con le parole su concetti informali e indefiniti…

A.S. - Lo posso capire… se la tua tendenza è di esprimere l’etereo puoi più facilmente farlo davanti ad un’opera astratta e, del resto, per fare ciò si ha bisogno di una terminologia più articolata. Un’opera figurativa è molto meno opinabile.

Ma non solo la critica non si occupa tanto di scultura, sono poche anche le gallerie che organizzano mostre e, tutto sommato, ci sono anche pochi scultori ed è difficile parlarne.

 

In alto: Antonio Sgroi, Ascolti Interiori - Marmo di Carrara - 2002

 
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h451
h451 il 16/10/07 alle 11:48 via WEB
Blog interessantissimo.Vi ho inviato un invito mostra (ELEVATION) via mail .Holden
 
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