(SENZA TITOLO)

kilkenny- prima parte


Piove. Una pioggia strana, così tropicale da innervosire. E’ qualche anno che Luglio fa così: scarica una settimana di pioggia sana sana, sempre a casaccio durante il mese. Sarà il buco dell’ozono, l’effetto serra, mutazioni del clima: vallo a sapere cosa sarà. Mio fratello ci si è rassegnato. Ha un uliveto e un agriturismo. La pioggia non serve all’uliveto e gli manda via i clienti dall’agriturismo. S’è rassegnato, dicevo. Ma i primi tempi non era così. Il primo Luglio così annacquato gli arrivò tra capo e collo il secondo anno di apertura dell’agriturismo. Aveva ancora tanti di quei debiti che la pioggia gli sembrò una catastrofe. Io all’epoca gli davo una mano, in attesa di trovare qualcosa da fare. M’ero laureato durante l’inverno e adesso speravo in un contratto a tempo come guida turistica al comune. Ma l’estate era già a buon punto e non avevo visto nulla, così me ne stavo alla reception dell’agriturismo.Davo informazioni turistiche, prendevo le prenotazioni, facevo i conti. Quel mese non c’era molta gente: una coppia di ragazzi francesi, un gruppo di vecchi tedeschi e la moglie di un professore con il figlio. I francesi uscivano presto e tornavano solo per cena, mentre i tedeschi andavano via a mezzogiorno e tornavano alle sei per mangiare e bere. Bere soprattutto, che il vino di mio fratello è sempre stato buono.  Insomma non avevo granchè da fare. Leggevo e navigavo. Scrivevo agli amici, a quelli del forum soprattutto. Il forum era quello del sito della facoltà. Gli iscritti erano studenti e laureati della Facoltà di Lettere. Era un modo per scambiarsi informazioni e tenersi in contatto anche dopo la laurea. Mi ero iscritto durante la tesi per cercare materiale, ma poi ci ero restato per le persone che avevo trovato. Il mio nick era kilkenny, come ero chiamato in facoltà per l’usanza di offrire birra ogni volta che superavo un esame.Sul forum ho ritrovato qualche ex compagno di corso, come Peppe Barone. E c’erano persone che conoscevo solo per quello che scrivevano, ma sentivo altrettanto care. Mi sorprendevo a pensare a loro durante il giorno, chiedermi cosa stessero facendo in quel momento. Immaginavo le loro facce, le voci. E che emozione quando trovavo un messaggio personale, diretto solo a me! Il senso di mancanza quando per giorni e giorni nessuno si faceva vivo.Il forum era diventato il mio ‘bar degli amici’, il posto dove ascoltare in silenzio o raccontare in libertà.Scrivere era diventato così naturale che anche a Peppe non telefonavo quasi più, malgrado conservassi il suo numero dai tempi in cui studiavamo insieme.Oltre a lui, la persona cui tenevo di più era Lele66. Faceva l’insegnante in un professionale, da qualche parte su al Nord. Ci raccontava dei suoi ragazzi, del loro mondo e di come lui ci si affacciava piano. Forse perchè in lui specchiavo il mio futuro o lui vedeva il suo passato in me, diventammo amici. Se amicizia si può chiamare lo scambio di parole senza voce. Di sicuro c’erano affinità nei modi di guardare e sentire. Ci emozionavano le stesse cose, amavamo gli stessi libri e pensavamo l’uno all’altro quando non ci trovavamo in rete.Durante il periodo più cupo, quando mi sembrava che la tesi non dovesse mai finire, Lele mi raccontava di quando era toccato a lui: e ce l’aveva fatta, come tutti prima o poi.E poi successe che s’innamorò. Lei era una supplente da poco laureata. Lui si tormentava, non sapeva cosa fare. Ne aveva bisogno e paura. Lei così più giovane, lui così solo. L’amore s’era fatto aspettare troppo e ora s’era rovinato il gusto. Mi raccontò tutto in un messaggio personale lungo e frammentato, scritto di getto come per scaricarsi l’anima. Mi sentii lusingato di quelle confidenze, ricambiato nell’importanza che davo alla nostra amicizia. Ricordo quando mi scrisse che s’era dichiarato, l’emozione con cui lessi il messaggio mi fermò quasi il respiro. E poi mi raccontò di come ogni cosa fosse rinnovata insieme a lei. Di come il tempo si fosse allungato d’improvviso.Ero felice per lui, sorridevo pensandolo appagato. Certo, da allora ebbe meno tempo per le nostre discussioni, ma solo io sapevo che valide ragioni avesse. E sorridevo al pensiero.Pioveva tanto, quel mese di Luglio. La moglie del professore si avvicinò per dirmi che il marito sarebbe arrivato solo l’indomani, quindi anche quella sera avrebbero cenato in due. Era una donna  esile, con i capelli lisci a caschetto e l’espressione attenta. Quando s’accollava il figlio sembrava sparire sotto quella massa scomposta e agitata. Il bambino era down, non completamente autosufficiente. Più grosso dei suoi dieci anni, capace come uno di quattro.Quando la vidi arrivare caricandoselo addosso mi avvicinai per darle una mano. Lei non me lo permise, dicendo ‘No grazie, so io come fare’  con un tono da millesima volta. Non era sgarbata, ma sembrava che tenesse tutta la dolcezza da parte per il figlio.M’impressionava la pazienza che trovava di fronte agli eccessi del bambino, alle urla, ai piatti lanciati per aria. Andavano al mare la mattina presto, ma in quei giorni di pioggia erano restati in casa e il bambino s’era fatto più nervoso. Aspettavano il padre come un sollievo l’uno dall’altra.Smise di piovere proprio il giorno del suo arrivo. Parcheggiò la macchina nel cortile bagnato e scese con un borsone in  mano. Lo guardavo dalla reception, incuriosito dall’attesa. Venne subito da me, disse chi era, si fece indicare la stanza dei suoi. Portava occhiali da sole di quelli col magnete. Togliendoli scoprì una faccia che non dava subito confidenza, ma nel complesso cordiale. Salì in camera e dopo un po’ uscirono tutti e tre. Il bambino sembrava contento, rideva e scherzava col padre.Quella sera erano previsti altri ospiti a cena. Succedeva sempre più frequentemente, soprattutto il sabato. L’agriturismo si stava facendo conoscere anche come ristorante, il che non guastava. Mio fratello aveva preso una cuoca ucraina, perchè sua moglie non era proprio capace. Era già tanto se riusciva a servire a tavola, come me del resto. I tedeschi erano già seduti a svuotare le brocche di vino. Nel pomeriggio erano stati al  mare e avevano saltato lo spuntino delle sei, ma per il momento non sembravano troppo affamati. Il professore e la famiglia erano seduti nel salone. Moglie e marito leggevano in poltrona mentre il bambino giocava ai loro piedi. Mi avvicinai per chiedere se potevo apparecchiare anche per loro; lo sguardo mi cadde su un libro, poggiato aperto sul tavolino davanti alle poltrone. Era un vecchio intonso del Cyrano de Bergerac. Spuntavano i bordi verdi della copertina, un po’ rovinata. Il professore staccò lo sguardo dal libro per rivolgerlo a me. Ero paralizzato: aveva in mano il Cyrano in una edizione recente. Riuscii solo a chiedere ‘Apparecchio?’ con la voce strozzata. Mi sentivo le gambe di cera, il volto in fiamme: avrei voluto sparire. E invece stavo lì ad aspettare una risposta che mi mandasse via, sperando di potermi muovere senza cadere. Mi dissero di sì, ma non andai a prendere la tovaglia. Corsi al PC e mi collegai in rete. Mia cognata mi guardava con disappunto, farfugliai di una prenotazione da controllare . Entrai nel forum e cercai il post. Sì, mi ricordavo bene. Nella sezione ‘Cosa leggiamo’ Lele76 raccontava di aver trovato su un banchetto una vecchia edizione del Cyrano, risalente al 1925 e ancora intonsa, anche se la copertina verde era un po’ danneggiata. Non aveva resistito,l’aveva comperata e adesso per non rovinarla leggeva una pagina ogni quattro; il resto lo leggeva dalla copia che già possedeva: scomodo ma emozionante.Non potevo crederci, ma per andare fino in fondo presi il registro degli ospiti e controllai il nome del professore: Emanuele Casaletti, nato il 12/2/1966. Emanuele, Lele. Lele66.Ma no, non poteva essere. Coincidenze. Coincidenze. Moglie e figlio ... no , non poteva essere. Coincidenze, perchè no. Ma più me lo ripetevo, più mi sentivo patetico a volerlo credere .Le mani mi tremavano. Le mani e il cuore. Lo guardavo, lo guardavo e non sapevo più se la realtà era quella che avevo sotto gli occhi o quella che per mesi mi aveva fatto compagnia.  Mia cognata mi stava parlando e non me ne ero accorto: ‘Valerio, ma che ti è preso? La sala è piena e tu giochi al PC? Guarda che ci sono tre tavoli da preparare, datti una mossa’.Mi avvicinai alla cassettiera delle tovaglie. Dio sa quanto avrei voluto non essere lì in quel momento. Presi la tovaglia più nuova che c’era, tovaglioli e posate. Piatti e bicchieri. E andai da lui. Apparecchiai in silenzio, senza smettere mai di osservarlo. Aveva occhi grigi, l’espressione distante. Io pensavo ‘ora gli dico ciao Lele, sono kilkenny’. M’immaginavo la faccia sua e quella della moglie. E poi ‘come va con la supplente?’Sentivo crescermi dentro la rabbia per essere stato così ingenuo da fidarmi di un mucchio di parole.‘Ora chiamo Peppe e gli racconto tutto, che razza di stronzo!’.