Docenti Inidonei e +

Rondolino


Da “Micromega” Rondolino e il tiro al piccione contro gli insegnanti Marina Boscaino  “Il gatto nello stivale” è il blog di Fabrizio Rondolino. Uno che – come tanti, e in uno dei più amati giochi di società market oriented – pratica il tiro al piccione contro gli insegnanti. Già responsabile dello staff di comunicazione di D’Alema, ai tempi prima della segreteria di Pds/Ds, poi della presidenza del Consiglio, oggi transitato su più garantite e fruttuose postazioni (consigliere nientepopodimeno che della Santanché, editorialista de “Il Giornale”), Rondolino è colui che, in un tweet del 25 giugno, si chiedeva – indignato dalle proteste dei docenti che a migliaia bloccavano Roma, in occasione dell’approvazione forzosa del DDL sulla scuola con voto di fiducia al Senato – per quale motivo “la polizia non riempie di botte ‘sti insegnanti e libera il centro storico?” Come tutti coloro che si sono fatti da sé – è figlio di Gianni, uno dei massimi critici cinematografici di tutti i tempi –, poiché se ne intende, ama il refrain della richiesta intransigente di valutazione e merito punitivi ai danni dei suoi bersagli prediletti, i docenti della scuola italiana, di cui (s)parla appena se ne presenti l’occasione. Confermando che la formula renziana alletta i novelli castigamatti.  I barconi degli insegnanti è il post del 2 settembre, seguito di una serie di interventi televisivi contro i docenti, che per virulenza fanno impallidire i già proverbiali editoriali di Ichino e Panebianco; coloro che, nel lontano 2007, dettero la stura all’epica del docente fannullone. Insomma, il nostro self made man si colloca con pieno merito nel filone denigratorio che ha creato l’humus fertile per togliere di mezzo nel tempo svariate decine di migliaia di posti nella scuola; per gettare discredito, feccia e menzogne su un’istituzione dello Stato italiano, la scuola pubblica; e, infine, aprire trionfalmente all’ingresso della valutazione come strumento punitivo e di classificazione delle scuole italiane. Perché Rondolino jr. – anziché continuare a scagliare strali violenti in solitudine e dai compiacenti microfoni delle TV, altra attività nella quale servizio pubblico e privato concedono di esercitarsi con il medesimo zelo ai soloni nostrani – non voglia confrontarsi direttamente con i docenti italiani rimane (per modo di dire) un mistero. Altrettanto recondito – a mio avviso – è il motivo per cui la scuola italiana (a me nota certamente meglio e più approfonditamente che al sig. Rondolino e da me giudicata senza isterie iconoclaste e sommarie acquiescenze ad una percezione collettiva situata più nella costruzione mediatica che nella realtà effettiva) continui ad offrire il destro all’implacabile opera di demolizione non solo della sua natura di pubblica istituzione formativa, ma anche dell’immagine di tutti coloro che vi lavorano. Mi spiego. Rondolino ha buon gioco nell’avanzare un antifrastico paragone tra la condizione concreta dei migranti che vengono effettivamente “deportati” dai barconi verso lidi apparentemente più sicuri e più accoglienti e l’uso che – del tutto inopportunamente e nel tentativo in buona fede, ma evidentemente improprio, di costruire uno slogan di impatto certo – si è fatto della parola “deportazione” a proposito delle modalità di reclutamento del personale precario. Proprio perché per vincere battaglie politiche che coinvolgono l’opinione pubblica è necessario ristrutturare i linguaggi, in casi come questi la retorica andrebbe tenuta a freno, soprattutto se tende ad attingere – sia pure in modo iperbolico – a situazioni della storia che hanno letteralmente sconvolto il mondo e prodotto milioni di vittime innocenti. Detto questo, il nostro tuttologo opinion maker non rinuncia a individuare la condizione intermedia, quella tra la deportazione attraverso i barconi della morte (vera) e quella dei precari (falsa): la situazione dei giovani ricercatori e lavoratori – pizzaioli o impiegati delle multinazionali – che ogni anno lasciano casa per andare all’estero. Non evitando – ovviamente – di toccare il cuore del lettore con la condizione dell’emigrante del primo ‘900, una pagina importante della storia nazionale. Il punto: una critica in sé legittima (impariamo: mai speculare – neppure per escamotage retorico – su tragedie epocali, accostandole a problematiche non altrettanto crudeli e luttuose!), è infarcita di tante castronerie, omissioni, forzature, invenzioni, che – in un Paese atrofizzato da venti anni di berlusconismo e da due di renzismo – non possono non far presa direttamente sul lettore profano, impedendogli di riconoscerle come tali, in virtù di quell’infelice metafora: il termine “deportazione” è davvero e soltanto inopportuno. E non lo è perché la maldestra organizzazione del piano di assunzioni non faccia acqua da tutte le parti e anzi abbia innanzitutto determinato ideologicamente allentamento di tutele e rimozione di diritti acquisiti. Lo è perché il suo uso è un oltraggio storico, linguistico ed etico. Che offre agli aggressivi soloni, con le tasche piene e con un curriculum da nobili genere natu, la possibilità di indignarsi e di pontificare, sciorinando tutto il repertorio – mendace, ma ormai permeato nella coscienza collettiva – del fannullonismo, dei ricchi stipendi, dei 3 mesi di vacanza, addirittura dell’ignoranza. Rimuovendo intenzionalmente che coloro che saranno costretti a muoversi non sono “giovani di bottega”, ma prevalentemente donne, con spesso un decennio di insegnamento, titoli di studio significativi, uno stipendio di 1300 euro, diritti acquisiti, più di 40 anni di età. Questi sono errori che non possiamo permetterci se desideriamo che la nostra battaglia acquisti credibilità presso la società della quale chiediamo comprensione e solidarietà. Sono troppi quelli che – da posizioni di privilegio socioeconomiche, mediatiche e politiche – hanno interesse a gettare discredito su di noi.