Uniti in Cristo

Sant'Egidio ultima spiaggia di tante crisi


Qualcuno l'ha definita "l'Onu di Trastevere", altri "la diplomazia parallela". Ma in Italia, e nel mondo, è nota come la Comunità di Sant'Egidio. Fondata da Andrea Riccardi nel 1968, all'indomani del Concilio Vaticano II, oggi è un movimento laico a cui aderiscono oltre 50 mila persone ed è presente in 70 paesi di diversi Continenti. Nel panorama complesso e così diverso della comunità internazionale, delle Ong, della grande Cooperazione, Sant'Egidio rappresenta una realtà a parte. Assiste i poveri, aiuta i diseredati, distribuisce cibo, vestiti, medicine. Ma svolge soprattutto un ruolo decisivo nella crisi internazionali. E' una sorta di ultima spiaggia, l'ultimo baluardo a cui affidare le speranze di un negoziato. E di una pace. Gli uomini delle "missioni impossibili" lavorano nel cuore di Roma, nella piazza che ha dato il nome al loro movimento. Li abbiamo incontrati nell'ex convento delle Carmelitane, abbandonato, recuperato dal ministero dell'Interno che lo ha affidato alla comunità di Sant'Egidio quarant'anni fa. Oggi il quartiere generale dell'Onu parallela è un antico e prezioso monastero, immerso nei vicoli della vecchia Trastevere. Perfettamente restaurato, dipinto di fresco, si snoda tra corridoi, stanze, saloni e giardini dove si confrontano, spesso, nemici che hanno conosciuto solo le armi e che qui, protetti dall'anonimato, lontani dai riflettori dei media, riprendono un dialogo fallito in tutte le altre sedi. Gli ultimi sono del Niger. I militari che hanno appena rovesciato il vecchio potere con un golpe e le opposizioni costrette al silenzio. Il paese è pieno di uranio, al Qaeda è presente, controlla gran parte del territorio, si susseguono i sequestri dei cooperanti. Tutto questo ha reso il Niger instabile e la sua precarietà politica rischia di estendersi ad altri paesi della regione. Decine di incontri si erano risolti nel nulla. Le delegazioni sono sedute attorno ad un tavolo, nella massima segretezza. Un miracolo della diplomazia parallela. Trattano da dieci ore. Dalla stanza vicina arriva lo scroscio di un applauso. E' il segno di un accordo. Il primo passo, ma importante. Marco Impagliazzo, nuovo presidente della Comunità di Sant'Egidio irrompe nel salotto in cui siamo stati relegati. E' sorridente. Ascolta gli applausi che continuano. "Siamo riusciti a farli parlare. Adesso trattano", conferma soddisfatto.Cosa vi rende così credibili, presidente?"I risultati. La soluzione della terribile guerra civile in Mozambico, nel 1992, ci ha fatto conoscere sul piano internazionale.  Ma il nostro successo sul piano della credibilità lo abbiamo conquistato sul campo".Qui, nel cuore di Trastevere?"In questo luogo, dove ci troviamo adesso, si sono svolti due anni di trattative per la pace in Mozambico. Certo, le condizioni internazionali erano favorevoli. Cessava la guerra fredda, cambiavano gli equilibri geopolitici. Ma si doveva trattare sempre su una guerra che aveva prodotto più di un milione di morti".Ma cosa ha consentito a voi di vincere là dove altri avevano fallito?"La nostra forza si basa sul fatto che non siamo una struttura né politica né economica. A noi interessa la pace tra gli uomini e la libera convivenza tra i popoli. Una convivenza pacifica".Un'affermazione di principio. Ma la credibilità si basa su altri fattori."Il fatto di essere a Roma è senz'altro un vantaggio. E' una città universale. Un'universalità che non si impone, non colonialista. Ecco: tutto questo, assieme alla presenza della Chiesa cattolica che raccoglie il mondo intero, imprime al nostro lavoro una marcia in più".La stessa forza vale anche per le vostre mediazioni nei paesi musulmani?"Bisogna uscire dalla valenza politica e ideologica impressa alle religioni".Il peso delle religioni condiziona e genera gran parte dei conflitti del nuovo secolo."Dopo le stragi dell'11 settembre le religioni cono state caricate di motivazioni e tensioni estranee alle loro culture. In realtà, se si analizzano le crisi, i negoziati, le soluzioni dei conflitti, il valore delle religioni è molto più importante e serio di quello che viene loro attribuito".La guerra delle religioni è stata alla base della dottrina Bush e dei settori cattolici più conservatori negli Usa."Per noi è stato esemplificativo mediare, qui a Roma, nel cuore della Chiesa cattolica, la crisi della Guinea Conakry. Per la prima volta, grazie al lavoro che abbiamo svolto, si terranno delle elezioni libere e democratiche. E questo in un paese a maggioranza musulmana. Per noi è stato qualificante essere dei cristiani veri, persone che credono in quello che fanno e pensano. Non degli ipocriti, come sostengono molti musulmani. Tutte le persone che si rivolgono a noi non vengono subito messe attorno ad un tavolo e costrette a trattare. Ci facciamo prima conoscere, spieghiamo loro cosa facciamo, dove e nei confronti di chi agiamo".E questo è sufficiente per conquistare la fiducia?"Non abbiamo fretta. Spesso nelle trattative internazionali il fattore tempo, oltre ai luoghi fisici, diventa un elemento fondamentale. Così come la scelta degli interlocutori: a volte chi media non parla neanche la lingua dei contendenti".Ricorrete a mediatori stranieri?"Ci serviamo di esponenti della nostra comunità internazionale. In Africa, dove siamo molto presenti, abbiamo preti, responsabili amministrativi, persone stimate e di peso che intervengono. Nel caso della Guinea Conakry la mediazione è stata condotta da un medico del paese. Tutto questo aiuta molto".In Ruanda i rapporti con la Chiesa sono difficili. Molti sacerdoti sono stati accusati di aver partecipato attivamente al genocidio del 1994. Non rappresenta un ostacolo per delle mediazioni?"In Ruanda non siamo intervenuti direttamente. Abbiamo stabilito dei contatti quando abbiamo mediato per il Burundi dove era in corso una guerra civile. Il presidente Paul Kagame ci ha conosciuti e ci ha accolto con favore. Il nostro mediatore è stato don Matteo Zuppi, parroco della chiesa di Santa Maria in Trastevere. Come vede l'essere vicini alla Chiesa non è negativo neanche in quei paesi che possono avere motivi di risentimento nei confronti dei cattolici. Con Kagame siamo andati oltre. Il suo ministro degli Esteri è un cattolico e questo ha favorito i contatti. Abbiamo lavorato insieme per l'abolizione della pena di morte. Oggi il Ruanda è tra i paesi africani ad aver cancellato la pena capitale. Mi sembra un buon successo per la Comunità di Sant'Egidio".Ci sono molti conflitti dimenticati. Come si muove Sant'Egidio su questa realtà?" Ci consideriamo il Commonwealth dei paesi in difficoltà. Vediamo il mondo attraverso le sue crisi e notiamo che, almeno in Africa, i conflitti stanno diminuendo. I veri problemi dell'Africa oggi sono l'Aids, la fame, le malattie".Sull'Aids, da tempo, avete un ampio programma di intervento. Funziona?"Il discorso della cura agli africani sta passando. Questo lo consideriamo un risultato. Nel Duemila eravamo soli. C'è maggiore coscienza a livello internazionale: prevale l'idea che l'Aids si può curare con le terapie. I soldi ci sono, anche tanti. Ma vengono spesso dilapidati. Più che sulle cure bisognerebbe discutere sul livello di preparazione e di sensibilità delle classi dirigenti africane".Molti paesi africani considerati poveri si sono sviluppati in modo sorprendente, altri più ricchi sono sprofondati nella crisi. Colpa della recessione mondiale o dei diversi modelli economici?"Molti paesi hanno conquistato l'indipendenza solo da mezzo secolo. Da noi ci sono voluti duecento anni e facciamo ancora i conti con una democrazia imperfetta. Resto positivo sull'Africa perché è stata in grado di costruire l'Unione africana, sul modello della nostra Unione europea. La presenza cinese ha smosso qualcosa nel Continente. Ha creato concorrenza e questo produce movimenti, attira interessi economici. Per gli europei è diverso: non hanno una politica estera comune. Gli africani si sono accorti di aver bisogno di un partner con cui dialogare, scambiare, lavorare. Per Sant'Egidio la costruzione di una partnership resta una punto di battaglia. Solo in questo modo si possono cambiare le cose in Africa. Confrontarsi sullo stesso piano per avviare forme di scambio, di sviluppo e di business".In che modo?"Trovando dei compagni di strada".Dove pescarli?"Nei paesi ricchi. La globalizzazione ha i suoi vantaggi ma anche le sue regole".In Italia abbiamo ancora difficoltà ad accettare gli stranieri."Il tema dell'immigrazione si imporrà sempre di più nel futuro. Bisogna evitare la fuga dei cervelli dall'Africa. I medici del Malawi oggi vivono a Liverpool. Nel paese ne saranno rimasti una decina, forse. Questo è il problema attuale dell'Africa. Registriamo una preoccupante emigrazione di uomini e donne che hanno studiato all'estero. Tornano a casa e se ne vanno".Non ci sono strutture e risorse in Africa. C'è miseria e violenza."E' vero ma solo in parte. La violenza e la miseria la registriamo ovunque. E' una grave emergenza in America centrale e latina. Guardi il Messico, l'Honduras, la Colombia. In Salvador è stato ucciso un nostro aderente, William, per il solo fatto che insegnava in una scuola per bambini di strada. Le maras, le gang giovanili, hanno ereditato l'esperienza delle bande statunitensi".L'Italia non sembra immune a questa emergenza."Il nostro paese  è preda di un vuoto di valori impressionante.  Abbiamo perso la nostra identità, non sappiamo più dire chi siamo. La globalizzazione ha allargato il mondo, lo ha reso troppo grande. Ci ripieghiamo su noi stessi, ci chiudiamo, cerchiamo di proteggerci e questo genera aggressività. Uno dei grandi esempi è il caso dei rom. L'accanimento usato nei loro confronti è sintomatico del clima che si vive nel mondo occidentale. Ce la prendiamo con l'unico popolo che non ha uno Stato. Diventa un capro espiatorio, è debole, è facile attaccarlo".Colpisce che siano proprio gli italiani i più insofferenti agli immigrati. L'Italia è stato un popolo di immigrati."La presenza degli stranieri ci ha creato problemi che non avevamo mai avuto. Il modello olandese, ripreso dagli inglesi, è superato. Per noi il modello è vivere insieme. Non in un grande albergo, ognuno nella propria stanza; ma in una casa comune. Ognuno con la propria cultura, i propri valori, rispettando il fatto che ci troviamo in Italia, con le sue tradizioni e le sue abitudini".E' un modello di cui dovrebbero farsi carico le Istituzioni. Incapacità o ignoranza?"Il grande vuoto dell'Europa è stato quello di non investire sulla cultura. Se tu non conosci l'altro non puoi trasmettergli i tuoi valori e non puoi costruire una casa comune. Noi insegniamo ai rom che devono iscrivere i propri figli a scuola, perché è un loro diritto. La politica oggi è diventa un grande circo mediatico , non è più quella dei pensieri lunghi. L'immigrazione è un problema globale. Non può essere affrontato in modo estemporaneo. I soldi ci sono. Ne fornisce tanti anche il nostro paese. Vanno investiti bene e meglio. E al primo posto, se vogliamo un Italia più moderna e se vogliamo riappropriarci dei nostri valori, ci deve essere la cultura".