Il costo del lavoro è il costo di produzione che comprende il salario corrisposto ai lavoratori e le spese ad esso connesse quali i contributi sociali a carico dell’imprenditore, i ratei della tredicesima ed eventuali mensilit aggiuntive, le rate del Tfr, le ferie e i permessi (maturati ma non fruiti, dunque monetizzabili) e ogni altro importo attinente alla prestazione lavorativa (per esempio gli straordinari). Ciò che le varie categorie professionali e le associazioni di imprese chiedono ciclicamente al Governo è una politica di riduzione della differenza fra il costo azienda e il netto percepito dal lavoratore, quantificabile nel 50% dell’effettivo lordo.
È nei costi indiretti del lavoro che si gioca la partita del rilancio dell’economia, non su quelli salariali. Il netto percepito dai lavoratori non può più essere toccato. Un ulteriore ribasso degli stipendi – fermi, in taluni casi, a vent’anni fa – porterebbe il sistema al collasso. Se, dunque, sul netto percepito non si può più intervenire, la zona d’azione deve essere quella degli oneri, contributivi e fiscali.
Anche se il premier Enrico Letta afferma in conferenza stampa che il nuovo pacchetto lavoro priva le aziende di ogni “alibi”, è allo Stato che spetta la scommessa di una maggiore flessibilit contributiva e fiscale. O si abbassa il costo del lavoro, o l’economia si spegne: tertium non datur.
Quante start up, per esempio, sono costrette a chiudere i battenti perché strangolate dagli oneri contributivi obbligatori anche in assenza di ritorni economici?
La strada intrapresa dal Pacchetto Treu e proseguita con la Legge Biagi avrebbe dovuto migliorare la flessibilit rendendo più competitive le imprese. Non è stato così: la flessibilit è degenerata nelle dinamiche ricattatorie del precariato. Invece di fare tesoro di una maggiore libert d’azione, le imprese hanno utilizzato la possibilit di stipulare contratti a progetto e co.co.co. come un mezzo per fare cassa, per limare sulle spese fiscali e contributive.
L’eccezione è diventata regola, minando la continuit e la qualit delle risorse umane, i moventi di una pianificazione di medio-lungo termine.
La riforma Biagi è stata lo spartiacque di un mercato del lavoro completamente spaccato: da una parte i lavoratori iper-protetti dall’altra i precari. La trasformazione ha scontentato tutti: l’auspicata flessibilit è diventata precariet malpagata e non tutelata, mentre i lavoratori protetti hanno assistito impotenti all’erosione del potere d’acquisto, prima con il passaggio all’euro, poi con la crisi.
Nel 2012 la riforma Fornero è nata con la premessa di bilanciare gli squilibri fra il lavoro flessibile e il lavoro a tempo determinato, per disincentivare il primo e incentivare il secondo. Sono aumentati i costi di utilizzo del lavoro flessibile, sia in termini di contributi previdenziali che dal punto di vista della rigidit di utilizzo delle forme contrattuali. Qualcosa sembra si stia muovendo in direzione di un maggiore consolidamento dei rapporti di lavoro, ma le numerose novit introdotte dal pacchetto lavoro e i precedenti invitano a un ottimismo più che cauto.
Se è vero che la principale misura del Decreto lavoro di recente approvazione risulta essere la riduzione del costo del lavoro di 1/3 per 18 mesi per in neoassunti, significa che il Governo ha ben chiaro come sia il costo del lavoro il vero ostacolo che impedisce l’aumento dell’occupazione. È in quest’ambito che occorre lavorare, sugli aspetti fiscali e contributivi. E se lo Stato non è in grado di reggere una riduzione delle entrate fiscali e contributive c’è un’interessante proposta fatta dal sito : 1/3 del costo del lavoro per un anno e mezzo corrisponde al 5% per dieci anni. A chi è disoccupato si potrebbe chiedere di rinunciare a un ventesimo dello stipendio pur di non restare fuori dal mercato del lavoro. Nell’arena mediatica avrebbe meno impatto ma è comunque una soluzione equilibrata, una sorta di “ammortamento” soft in attesa di mettere la crisi alle spalle.
Inviato da: alexpix1975
il 27/07/2014 alle 01:11