Creato da rtsindacato il 10/06/2010
Il verbo che ogni buon siciliano coniuga da sempre

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Tra i forzati di Ios

Post n°23 pubblicato il 07 Settembre 2010 da rtsindacato

Fonte : Corriere.it

Si balla dalle 3 alle 8. È meglio lavorare, parola di sedicenne. Mangiare? Non c'è tempo. In spiaggia? Neppure. Solo disco pub, alcol a poco prezzo e gente che vomita. E neppure un nuovo amico.


A Ios, si va per star fuori fino a tardissimo e per conoscere nuova gente. Io sono tornata a casa con gli amici con cui ero partita e l’indirizzo facebook di un australiano che faceva il butta dentro al My Way, uno dei bar dell’isola. E basta. Fuori fino a tardissimo, però, è stata la regola. La spiaggia l’ho vista il primo e l’ultimo giorno. Dieci giorni a ballare o ad aspettare che si iniziasse a ballare. Alla fine odiavo quell’isola. Ho 16 anni e con tre amici avevamo scelto la vacanza a Ios perché tutti dicono che è il paradiso dei ragazzi. Casette bianche e azzurre, zone desertiche e aride, e un centro città pieno zeppo di localini. Il bello di Ios, dicono, sta proprio nei locali che attirano ragazzi da tutto il mondo. Molti dai paesi anglosassoni, dal Nord Europa, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. E tantissimi italiani. Ios è frequentata da 16-20enni. I grandi non ci sono, quelli vanno a Mikonos. Le discoteche, due in realtà, lo Scorpion e l’Irish, aprono alle 3 del mattino e stanno aperte fino alle 8. Alle 8 si va a dormire. A Ios, non si dorme. Si balla. Si dorme fino alle 4 del pomeriggio. E non c’è tempo di fare niente perché bisogna ballare. Divertirsi. Qualche volta non ne potevo più. Mio cugino era il leader. Impossibile non seguirlo. Lui organizzava, decideva gli spostamenti. E noi lo seguivamo. Non è che non mi divertissi.

RITMO - Il ritmo che tutti inseguono all’isola di Ios è un inferno. Le giornate funzionavano, più o meno così: sveglia alle 4 del pomeriggio. Un panino alle 5 perché per mangiare non c’è tempo, appunto. Un incubo. Si passa un’oretta in spiaggia. Quella vicino al Far Out, bar e piscina dove alle 6 comincia la musica e si balla fino alle 9. Poi in albergo. Doccia, ci si prepara per uscire. Si aspetta. Tutta la giornata è un aspettare che inizi la serata. Alle 11 a cena, per aspettare mezzanotte, quando aprono i dico pub. E si balla. Si balla ore. È lo stesso ritmo che non ti fa smettere. La musica è bella, anche se è quasi sempre la stessa. Tutti i giorni e in tutti i locali. Tornavamo in albergo alle 8 di mattina con le orecchie tappate e le gambe doloranti. Le strade sono un fiume di ragazzi e di disco club con la musica a palla.

2 COCKTAIL 5 EURO -Avevamo affittato i motorini per muoverci meglio, molti li affittano ma per molti altri è un su e giù a cambiar locali, ballare per aspettare che aprano le discoteche per continuare a ballare. Noi, in realtà andavano sempre nello stesso disco club, il My Way, dove c’era l’australiano. Ci eravamo affezionati a lui. Un ventenne che aveva finito gli studi ed era da un mese e mezzo nell’isola. Una spugna. Lavorava tre ore al bar. Con la sua simpatia invitava i ragazzi a entrare: 2 cocktail 5 euro. C’era meno bolgia che dalle altre parti. Almeno per un po’, si ballava ma si stava nella calma. Qualche volta si passava pure dal Lemos. Stessa cosa ma più incasinata. Giri per i posti perché ci sono quelli frequentati da italiani e quelli frequentati da stranieri, che poi sono più divertenti, più strani sia come gente che come abbigliamento. E poi gli stranieri, e le straniere a differenza delle italiane che snobbano le altre italiane, quando entri in un locale ti vengono incontro, ti salutano. Per fare amicizia. Li conosci. Ma di parlare proprio non se ne parla. Fai nuove amicizie ogni sera. Ma le saluti lì. E sempre così frenetico perché devi correre a divertirti da un’altra parte. Davanti a ogni locale ci sono ragazzi che urlano le offerte, e i locali si fanno così concorrenza. Per 5 euro due cocktail ti danno una cosa leggerina. Se lo vuoi più forte sono 7 euro. Non ho visto offrire altro che non fosse alcol. Ma lo sballo musicale e alcolico è già devastante. Io non bevo molto, perché l’ho fatto una volta, sono stata male. E mi è bastato.

SIAMO MINORENNI - Chi arriva a Ios, arriva per bere. I vicoletti ai lati della strada sono pieni di gente che vomita. O vomitano o stanno sdraiati per terra. Una sera un inglese era così ciucco che ha preso per le gambe una ragazza svizzera che ballava sul bancone. Lei è caduta ed è rimasta ammaccata per il resto della vacanza. A me è andata bene. Non ho dovuto tenere la testa a nessuno dei miei amici. Cosa che invece mi capita con le mie amiche a Ginevra, dove abitavo. Lì i fine settimana sono organizzati all’insegna della sbronza. Comperano gli alcolici al supermercato, e poi organizzano feste in casa. Abbiamo 16 anni, siamo minorenni e non possiamo entrare in discoteca. Per questo avevo voluto andare a Ios: provare a stare in discoteca fino a tardi. L’ho provato. Basta così. Sarebbe stato meglio andare a lavorare. Mi sarebbe piaciuto di più: capire che significa e mettermi in tasca un po’di soldi per non dover chiedere sempre ai miei. Ma il prossimo anno farò così. Mio padre dice che potrei andare tutta l’estate da uno stilista a New York, così sto in negozio e imparo meglio l’inglese. Ma due mesi mi sembrano tanti. Io lavorerei un mesetto. Di giorno lavoro, la sera esco. E poi ho i soldi per pagarmi una vacanza. I miei amici in campagna lavorano tutti. E li vedo più felici. Io quest’anno non vedo l’ora di andare a scuola. Mi sono trasferita in Italia, a Genova. Magari potrei lavorare facendo un po’ di volontariato al Gaslini.

 
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I siciliani sono bravi ma debbono dimostrarlo

Post n°22 pubblicato il 02 Settembre 2010 da rtsindacato

Fonte : Quotidiano di Sicilia

Finiamola con questo comportamento disonorevole di chiedere e dipendere dal Governo centrale come se senza di esso noi siciliani dovessimo considerarci pezzenti. Si tratta di uno stato mentale che va ribaltato al più presto, per porre con grande chiarezza un bilanciamento fra doveri e diritti che debbono esservi tra il popolo siciliano e quello italiano. Né più nè meno di quello che Bossi sta facendo, avendo iniziato nel 1989 mentre noi lo indichiamo dal 1979, cioè dieci anni prima.
La popolazione della Padania, un territorio inesistente, non ha niente di più della Sicilia, un territorio ben circoscritto con una storia millenaria cominciata con i Sicani e i Siculi 800 anni prima di Cristo e il cui culmine è stata l’epoca federiciana del XII  secolo.
L’indipendentismo della Sicilia, proclamato alla fine della guerra, fu prontamente neutralizzato dai costituenti nazionali recependo, senza cambiare una virgola, lo Statuto siciliano nella Costituzione e per ciò stesso trasformata in una legge di rango costituzionale.

La classe politica siciliana nel dopoguerra, lo ripetiamo fino alla nausea, non ha preteso legalmente il rispetto integrale della nostra legge costituzionale, subordinando gli interessi dei siciliani a quelli dei notabili romani di tutti i partiti.
Con ciò estendendo un’immagine negativa su tutta la popolazione e sulla sua classe dirigente, come se noi tutti fossimo degli accattoni che hanno vissuto sulle spalle dell’economia del Nord, incapaci di produrre ricchezza e sviluppo.
Ci siamo sempre ribellati, e continueremo a ribellarci contro questa immagine non vera, perché sia all’interno della classe politica, sia nella classe dirigente (istituzionale, imprenditoriale, professionale e sindacale) vi sono numerosissimi bravi professionisti in grado di competere, anche in modo vincente, con professionisti di tutto il mondo. Ma le regole e le condizioni della competizione debbono essere uguali per tutti, perché non è pensabile di vincere una gara se nelle tasche vi sono delle pietre. E le condizioni di mercato, sociali e infrastrutturali, sono ormai molto diverse fra Padania e Sicilia, per effetto di una politica profondamente diversa che ha prodotto sviluppo al Nord e assistenzialismo da noi.
 
I siciliani sono bravi, ma debbono dimostrarlo. Certo, si tratta di avere la volontà di essere bravi, mettendocela tutta e acquisendo know how e competenze più avanzate, anche copiando modelli che funzionano molto bene.
Per le imprese, la questione della competitività è fondamentale, diversamente non stanno sul mercato e falliscono. I prezzi dei loro prodotti o servizi debbono essere concorrenziali, per qualità e quantità, diversamente le imprese chiudono i bilanci in perdita e, come risultato finale, portano i libri in tribunale. Per le istituzioni (centrale e locali) la questione è molto diversa perché i servizi non sono misurati dalla soddisfazione dei cittadini. Per conseguenza, possono raggiungere le peggiori inefficienze, senza che nessuno paghi.
Con la manovra d’estate (legge 122/10) sono stati imposti molti vincoli alla pubblica amministrazione, per cui Ministeri, Regioni e Comuni, devono immediatamente rivedere i loro bilanci che subiscono una cura dimagrante. 

La Sicilia avrà dei forti tagli a livello regionale e altri sui 390 comuni. La sua attuale politica di bilancio non è quella di destinare le risorse ad attività produttive ed infrastrutture, bensì continuare ad assumere inutile personale e pagare inutili stipendi (inutili perché non finalizzati alla produzione di servizi efficienti da rendere ai cittadini).
Occorre che la classe burocratica siciliana imbocchi la strada del merito, unico metro per diventare competitivi e concorrenziali. I soldi sono finiti. Unico mezzo per far bastare le risorse pubbliche, sempre minori, è quello di inserire nell’organizzazione degli enti siciliani forte innovazione e grande efficienza. Di modo che, con minori risorse si ottengano migliori e maggiori servizi. Chi si intende di organizzazione sa che questo è fattibile.
Non vorremmo annoiare gli affezionati lettori, che ringraziamo per i loro apprezzamenti, ma anche per le loro critiche, purché argomentate. Ma è nostro dovere ribadire continuamente le soluzioni indispensabili per fare diventare la Sicilia una regione con una classe dirigente brava e competitiva che punti allo sviluppo, misurato dall’aumento del Pil.

 
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Il siciliano e la parola "tascio"

Post n°21 pubblicato il 01 Settembre 2010 da rtsindacato

Fonte : SiciliaInformazioni

Nella gerarchia estetica dei siciliani il “tascio” occupa l’ultimo gradino. “Tascio” è un’espressione di derivazione inglese, la traduzione siciliana o, se vogliamo, l’italianizzazione di trash, spazzatura. A coniarla non a caso sono stati i palermitani, da sempre attratti, nel loro singolare snobismo, dagli anglicismi, tanto che diversi nomi di persona, soprattutto di donne, sono da loro adattati alla moda esterofila: quante le Mary, le Giusy,le Dany nel capoluogo dell’Isola! Per non parlare delle Rosy, omaggio alla Santa patrona, Rosalia, che di sicuro non gradisce la variante del suo nome ispirata dal made in England. “Tascio” si è poi diffuso in quasi tutta la Sicilia.

“Tascio” o “tasciu”? Prevale la versione italianizzata, quindi con la o e non la u finale, perché i palermitani –a cui, come si è detto, spetta il copyright del lessico-, nella maggior parte, amano parlare la lingua toscana per darsi più tono, intercalandovi idiomi dialettali e, soprattutto, rimarcando l’accento siculo e strascicando le parole.

Ma cos’è il “Tascio”? L’esatto equivalente del trash, cioè del brutto e del cattivo gusto? Non propriamente: è il trash in salsa sicula, l’orripilante specifico dei siciliani. D’altra parte, a ben riflettere, non potrebbe essere diversamente: il siciliano è geloso della sua esclusività, orgoglioso di essere diverso, e perciò il brutto siculo gode di una rivendicata autonomia.
Sicché  “tascia” è l’abitudine, così diffusa in tanti siciliani, di alzare il volume della radio o dello stereo, specie se in macchina, ancor più se questa è decappottata, a un livello di decibel tale da far stordire il prossimo, meglio ancora se la musica che vi fuoriesce sono canzoni della peggiore tradizione napoletana o motivi stucchevoli e vomitevoli accompagnati da dialoghi  della più volgare comicità sicula basata quasi sempre sui doppi sensi a sfondo erotico di spiccata banalità.

“Tascio” è il look vistoso dai colori sgargianti, tanto abbaglianti quanto sgradevoli alla vista, che ricordano quelli delle stampe e dei disegni, chiusi in orride cornici, dove il mare è così azzurro da essere irreale e il sole così giallo da accecare, stampe e disegni che tappezzano le pareti delle abitazioni dei siciliani “tasci”.

“Tasci” sono certi oggetti da mercatini rionali che, in ossequio a un folcl ore falso e convenzionale, vorrebbero costituire esemplari  della sicilianità: il ciondolino con le corna rosse, che si spaccia per amuleto, il pupazzetto con baffi e lupara, che raffigura il mafioso doc (quasi si fosse orgogliosi di esso, lo si trova pure in boutique per turisti).

A proposito di mafiosi, questi, anche quando sfuggono alle immagini da cartolina, sono pur sempre “tasci”: i loro volti dallo sguardo truce di cowboy rincoglioniti, i modi affettati, la parlata “duci”, i rolex ai polsi a ostentare ricchezza li identificano nel loro squallore, anche estetico.

“Tasce” sono diventate tantissime città siciliane, non solo per certe trovate architettoniche che, per gonfiare le tasche degli amministratori (in quali progetti sono stati sprecati i fondi comunitari...), hanno rovinato i centri storici con edifici che costituiscono autentici pugni negli occhi in piazze abbellite da palazzi e chiese di un antico che mai tramonta, ma anche per l’immondizia che si accumula ovunque, persino dinanzi a opere monumentali di elevato interesse storico-artistico.

Il “tascio” si addice più ai poveri o ai ricchi? Senza volerne fare una questione di classe o di ceto sociale, si può rispondere con sufficiente sicurezza che al “tascio” sia più votato chi può vantare un buon gruzzoletto in banca che chi affoga nella miseria. Il “tascio”, infatti, ha in sé una magniloquenza, un’esagerazione del becero che la sovrabbondanza di denari può meglio garantire. La misera baracca di un poveraccio con i panni stesi sui davanzali delle finestre, per quanto brutta, non potrà mai essere“tascia”quanto la villetta del milionario che l’architetto strapagato gli ha progettato in omaggio ai canoni dell’antiestetica, assecondando in pieno i suoi desideri. Eh sì, è proprio vero: tutto si può comprare –titoli nobiliari, onorificenze, lauree, benemerenze varie-, tutto tranne il buon gusto.

 
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Gheddafi, un circo che ci umilia

Post n°20 pubblicato il 30 Agosto 2010 da rtsindacato

Fonte: Repubblica.it

ANCHE ieri c'era il picchetto in alta uniforme ai piedi della scaletta dalla quale sono scese due amazzoni nerborute e in mezzo a loro, come nell'avanspettacolo, l'omino tozzo e inadeguato, la caricatura del feroce Saladino. Scortato appunto da massaie rurali nel ruolo di mammifere in assetto di guerra. E va bene che alla fine ci si abitua a tutto, anche alla pagliacciata islamico-beduina che Gheddafi mette in scena ogni volta che viene a Roma, ma ancora ci umilia e davvero ci fa soffrire vedere quel reparto d'onore e sentire quelle fanfare patriottiche e osservare il nostro povero ministro degli Esteri ridotto al ruolo del servo di scena che si aggira tra le quinte, pronto ad aggiustare i pennacchi ai cavalli berberi o a slacciare un bottone alle pettorute o a dare l'ultimo tocco di brillantina al primo attore.

È vero che ormai Roma, specie quella sonnolente di fine estate, accoglie Gheddafi come uno spettacolo del Sistina, con i trecento puledri che sembrano selezionati da Garinei e Giovannini, la tenda, la grottesca auto bianca, le divise che ricordano i vigili urbani azzimati a festa, e tutta la solita paccottiglia sempre uguale e sempre più noiosa ma, proprio perché ripetuta e consacrata, sempre più umiliante per il Paese, per i nostri carabinieri, per le istituzioni e per le grandi aziende, private e pubbliche, che pur legittimamente vogliono fare i loro affari con la Libia

Nessun'altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace - e lo diciamo sinceramente - anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell'eccesso, nella vanità, nel vagheggiare l'epica dell'immortalità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare.

Di nuovo ieri Gheddafi si è esibito davanti a 500 ragazze, reclutate da un'agenzia di hostess, che hanno ascoltato i suoi gorgoglii gutturali tradotti da un interprete, le solite banalità sulla teologia e sulla libertà delle donne in Libia, il Corano regalato proprio come Berlusconi regala "L'amore vince sempre sull'odio", quel libro agiografico e sepolcrale edito da Mondadori. È fuffa senza interesse anche per gli islamici ma è roba confezionata per andare in onda nella televisione di Tripoli. Il capotribù vuol far credere alla sua gente di avere sedotto, nientemeno, le donne italiane e di averle folgorate recitando il messaggio del profeta. Addirittura, con la regia dell'amico Berlusconi, tre di queste donne ieri si sono subito convertite, a gloria della mascolinità petrolchimica libica: "Italiane, convertitevi. Venite a Tripoli e sposate i miei uomini".
E di nuovo ci mortifica tutta questa organizzazione, il cerimoniale approntato dalla nostra diplomazia, con Gheddafi serio ed assorto che suggella la fulminea conversione di tre italiane libere e belle: un gesto di compunzione, gli occhi chiusi per un attimo, il capo piegato come un officiante sul calice. "L'Islam deve diventare la religione di tutta l'Europa" ha osato dire nella capitale del cattolicesimo, mentre l'Europa (con l'America) si mobilita per salvare la vita di una donna che rischia la lapidazione per avere fatto un figlio fuori dal matrimonio. Certo, l'Islam non è tutto fanatismo ma nello sguardo di Gheddafi c'è condensata la sua lunga vita di dittatore, di stratega del terrorismo, di tiranno che dal 1° settembre del 1969 opprime il suo popolo.

Ebbene, è a lui che oggi Berlusconi di nuovo bacerà la mano, come ha già fatto a Tripoli. Berlusconi, lasciandosi andare con i suoi amici fidati, ha più volte detto di invidiare Muammar perché comanda e non ha lacci, non combatte con il giornalismo del proprio paese, non ha bisogno di fare leggi ad personam ma gli basta un solo editto tribale, non ha né Fini né Napolitano, non ha neppure bisogno di pagare le donne... È vero che gli esperti di Orientalistica sostengono che la tribù in Libia è matriarcale e che dunque la moglie di Gheddafi sarebbe la generalessa del colonnello, ma questo Berlusconi non lo sa, la sua Orientalistica è ferma a quella dell'avanspettacolo, al revival di Petrolini: "Vieni con Abdul che ti faccio vedere il tukul".

E infatti ogni volta che Berlusconi va a Tripoli Gheddafi fa di tutto per stupirlo con gli effetti speciali del potere assoluto, gli fa indossare la galabìa e lo fa assistere alle parate militari delle amazzoni, organizza il caravanserraglio di Mercedes piene di farina, orzo e datteri da distribuire agli affamati recitando il ruolo del salvatore, proprio come Berlusconi all'Aquila... E ha pure imposto nei passaporti libici la foto di Berlusconi. Se lo porta nel deserto di notte per mostrargli la magia del freddo glaciale, tutti e due ad aspettare l'alba e il sole che torni ad arroventare la tenda. E ogni volta alla tv libica il viso di Berlusconi diventa in dissolvenza il viso di Gheddafi, e va in onda Berlusconi contrito nel museo degli orrori commessi dagli italiani, e c'è sempre il solito Frattini accovacciato fuori dalla tenda ad aspettare, aspettare, aspettare. E poi il tramonto, la luna...

Gheddafi a Roma fa quello che vuole non soltanto in cambio delle galere e dei campi di concentramento dove la polizia libica trattiene gli africani che vorrebbero fuggire verso l'Italia, e non solo perché i due fanno affari privati, come da tempo sospetta la stampa internazionale, e ora anche italiana. Il punto è che Berlusconi gli mette a disposizione tutto quello di cui ha bisogno l'eccentricità beduina perché con Gheddafi ha un patto antropologico. È una somiglianza tra capi che la storia conosce già, sono identità che finiscono con il confondersi: Trujllo e Franco, Pinochet e Videla, Ceausescu ed Enver Hoxha, Pol Pot e Kim il Sung... Non è l'ideologia a renderli somiglianti ma l'idea del potere, quello stesso che oggi lega Berlusconi e Gheddafi, Berlusconi e Chavez, Berlusconi e Putin. Ecco cosa offende e degrada l'Italia: l'Asse internazionale della Satrapia.

 
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Denis, ragazzo boomerang: «Studio, lavoro (poco) e combatto»

Post n°19 pubblicato il 25 Agosto 2010 da rtsindacato

Fonte : Corriere.it

«Vivo con 14 euro al giorno, sto dai miei e ceno alle sagre»
Per limitare gli sms ha creato un gruppo su Facebook. In vacanza sceglie il campeggio, «e a cena si va per sagre». All'università prende appunti su fogli bianchi A4, i quaderni sono stati aboliti. A casa, dove vive con i suoi, conserva gli scontrini e verifica tutte le spese. Ha fatto di necessità virtù, Denis Trivellato, studente risparmiatore, lavoratore part-time, aspirante psicologo. A 28 anni ha sperimentato che «si possono diminuire i bisogni, si può controllare la vis consumistica». Con qualche sacrificio e molta soddisfazione. «Faccio attenzione a quello che spendo per non pesare sulla mia famiglia». E per favore, «non chiamatemi bamboccione».

Ora la chiamano generazione boomerang, quella dei ventenni che rimandano ogni decisione, che tornano a casa dei genitori dopo la laurea. Ma c'è anche una minoranza «etica» nell'universo dei ragazzi sospesi tra infanzia e maturità. C'è un gruppo di giovani poco indulgenti con se stessi, che si sentono colpevoli del loro status, che entrano nella loro stanza in punta di piedi, cercando di essere inquilini invisibili di mamma e papà. E lo fanno risparmiando, tenacemente, su tutto. Con una premessa: non è tirchieria, ma senso del dovere, rispetto per i familiari. Questo ragazzo che vive alle porte di Milano è così: con un diploma all'istituto alberghiero poteva fare il barman «strapagato» e invece si è rimesso sui libri, scommettendo su se stesso. Imparando a contabilizzare la sua vita: «Riesco a starci dentro - retta universitaria compresa - con cinquemila euro all'anno». Sono 13,6 euro al giorno.  

A casa per necessità. «Appena dopo la maturità - racconta Denis - ho scelto Filosofia. Ho studiato, mi sono laureato. Ma, convinto che la mia strada fosse un'altra, mi sono iscritto di nuovo. Questa volta a Psicologia. Sto pagando questa scelta, ma ne vado fiero». Pagando come? Ecco i conti in tasca a Denis. «I miei, che sono entrambi artigiani, mi danno il necessario per l'abbonamento del treno (da Cormano a Milano, circa 15 chilometri) e il pasto di mezzogiorno. La sera mangio con loro, a casa». Tutto il resto, retta universitaria compresa, è frutto di lavori part-time. «Volantinaggi, serate nei bar come cameriere, collaborazioni con l'università. Adesso, per esempio, sto dando una mano a sistemare l'archivio della Bicocca. Sono 9 euro all'ora».

Un'attenzione quasi maniacale a tutte le spese: «Se non faccio così, sforo il budget in un attimo». E tanti piccoli trucchi salva tasche. Primo: in università solo libri usati. E per prendere appunti «trenta matite al prezzo di un euro in offerta al supermercato e una risma di fogli A4». Per mangiare, mensa universitaria o spesa, ancora una volta, al supermercato: «Tre euro per due panini al prosciutto, al bar te lo sogni». E il caffè alla macchinetta, 20 centesimi invece che 80 al bar. Fin qui il «diurno». Ma anche per il tempo libero e le uscite serali c'è un lungo ricettario del risparmio. «In macchina solo in quattro o cinque, e nei locali "fighetti" dove un cocktail costa 8 euro non ci mettiamo piede». Meglio comprarsi qualche birra, tenerla in frigo per un giorno e godersela con gli amici all'aperto. Stessa formula per le vacanze: «Sono stato con la mia ragazza a Castiglione della Pescaia con una tenda del '98. Ho messo via dieci euro al mese e comprato un materassino decente. La sera andavamo in giro per sagre: un primo, un secondo diviso in due. Spesa per 12 giorni: 450 euro».

Incuriosisce questo giovane risparmiatore che risponde con un sorriso a tutte le domande. I vestiti? «Solo in offerta. La maglietta che indosso ora, per esempio, è costata 4 euro e 90». Il cellulare? «Massimo 10 euro al mese di ricarica, per il resto uso Internet». Il computer? «È quello di sette anni fa, non sento la pressione tecnologica». Film e musica? «Si possono prendere in prestito in biblioteca». L'auto? «Di terza mano». Confessione: «Se devo comprare qualcosa penso: quante ore di lavoro vale?». Certo, non è tutto così semplice: «Vivere con i miei a volte mi pesa, ma non posso fare altrimenti». Ha trovato un suo equilibrio, Denis. Superando esami e contenendo le spese. «Quando sento parlare di bambinoni, però, divento una belva».

 
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