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Post N° 71


“Veniamo da lontano”, era lo slogan del Pci che i suoi attuali e confusi eredi, sotto qualsiasi sigla, non hanno rinnegato arrivando ogni tanto a borbottarlo o ripeterlo con sfrontatezza. Peccato che non abbiano mai voluto dire fino in fondo da dove venivano, che percorso avevano fatto, se luminose e diritte strade o tortuosi, oscuri e innominabili sentieri. In “Appunti per un libro nero del comunismo italiano”, edizioni Controcorrente 081 5520024 - 421349 ) ARMANDO DE SIMONE E VINCENZO NARDIELLO, giornalisti dalla robusta formazione storica e passione civile, vanno alla ricerca di questi sentieri, delle tappe che li hanno segnati, spesso sanguinose, frequentemente equivoche, sempre menzognere: sotto il fascismo, combattevano contro la dittatura allo scopo di instaurarne un’altra, la loro; nella resistenza, combattevano nell’immediato contro l’occupante nazista, ma con il fine ultimo della rivoluzione per instaurare un regime che sarebbe stato vassallo dell’Unione Sovietica, potenza parimenti straniera e con un sistema feroce come quello nazista; dopo la guerra hanno partecipato alla costruzione del sistema democratico, ma con l’obiettivo proclamato di arrivare a una “società altra”, mantenendo per lunghi anni organizzazioni clandestine paramilitari in ferreo legame con l’Unione Sovietica. Al partito come tale, di massa, fatto d’appassionati militanti, si affiancava il “partito interno”, quello dell’apparato, dei nomenklaturisti che sapevano tutto il doppio gioco, che ricevevano fondi da Mosca, potenza avversaria dell’Italia negli schieramenti internazionali, per l’imponente macchina organizzativa palese e occulta. Nel quadro della guerra fredda che ha segnato la seconda metà del secolo trascorso, l’Italia ha avuto la sua guerra fredda interna, con un partito comunista ufficialmente integrato nell’assetto democratico ma, al tempo stesso, opposto ad esso: e basterà su questo punto ricordare Enrico Berliguer e la sua teoria della “fuoriuscita dal sistema capitalista”, cioè dalla democrazia liberale, per capire quanto quell’integrazione fosse tattica e strumentale in vista di altri fini. Personaggio centrale di questa storia, e che ha segnato il partito per sempre, comunque esso si chiami, è Palmiro Togliatti, a cui un tempo apertamente e ora con discrezione, i suoi eredi si richiamano, se non altro nella tecnica dell’esercizio del potere. Si sa che Massimo D’Alema ha tenuto a lungo il suo ritratto alle proprie spalle nel suo studio (lo tiene ancora, o anche lui si è adeguato secondo le buone tradizioni bolsceviche nel cambiare i santini, a seconda delle circostanze?) e di lui gli stessi avversari, il più delle volte con intenzioni laudative, rimarcano che è di scuola, appunto, togliattiana. Nella storia umana e politica di Togliatti c’è la quintessenza di ciò che è stato il comunismo italiano: c’è l’amico e compagno che fa il vuoto attorno a Gramsci rinchiuso nel carcere fascista e nulla fa per salvarlo, ben sapendo che Gramsci dissente da Stalin nelle sue lotte di vertice al Cremlino, salvo, poi trasformarlo in un santino; c’è il plenipotenziario del Comintern in Spagna, supervisore delle stragi degli anarchici e degli antifascisti democratici non comunisti compiute dai comunisti e dalla polizia segreta sovietica; c’è il liquidatore del partito comunista polacco; c’è il filo-titino complice delle stragi di italiani nella foibe istriane, che vorrebbe dare Trieste alla Jugoslavia, e l’antititino inflessibile dopo che su Tito è caduto l’anatema di Stalin; c’è il pieno sostegno a Krusciov per la repressione della rivolta ungherese ma anche il dispregiatore di quello stesso Krusciov per la sua denuncia dei crimini stalinisti. E c’è infine, per quanto riguarda l’Italia, il Togliatti ministro della Giustizia che organizza la fuga in Cecoslovacchia di comunisti assassini e stragisti, come rivela Massimo Caprara, (che fu suo segretario per vent’anni e che, da oltre trenta si tormenta interiormente scrivendo libri su queste vicende del partito comunista “interno”, per capire come possa egli essere stato comunista, senza riuscire ancora a perdonarselo). E’ Caprara che nel suo “L’inchiostro verde di Togliatti” rivela come il Togliatti Guardasigilli, già fine giurista del Comintern, raffinato intellettuale in scambi di colpi di fioretto con Vittorio Gorresio sul congiuntivo, era lo stesso che faceva portare in salvo all’estero volgari assassini. In linea, con ciò, con quel che è sempre stato: complice dei delitti più efferati, dagli applausi alle condanne a morte nei processi di Mosca nel ’38, Bucharin in testa, già suo protettore, alla fucilazione dei dirigenti polacchi. E una spietata messa a fuoco di Togliatti e del Pci e della loro storia è efficacemente sintetizzata qui, con grande acutezza politica, nelle conversazione degli autori con Ugo Finetti, personaggio che troppo a lungo ha sacrificato la sua sensibilità culturale alla militanza politica. Le pagine di vergogna della storia comunista in Italia, specie nell’immediato dopoguerra, con le stragi di Schio e del triangolo della morte in Emilia, con le efferatezze della Volante rossa a Milano, coperte di oblio per in una storiografia egemonizzata dai comunisti o succube per comodità politica nel regime consociativo, sono nell’opera di De Simone e Nardiello recuperate e ricostruite nel loro svolgersi e nel loro carattere di genesi di ciò che avrebbe potuto essere un regime comunista in Italia se il Fronte popolare avesse vinto nel ’48, e di ciò che di fatto il partito è stato negli anni successivi: l’apparato clandestino in armi, la “Gladio rossa” la funzionalità del partito nel suo insieme e nella costanza della linea politica ai disegni egemonici dell’Unione Sovietica. Quel Berlinguer che, nell’effimero vento eurocomunista, dichiara di sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello della Nato” è lo stesso che conduce nel medesimo tempo l’aspra battaglia parlamentare e con manifestazioni di piazza contro l’installazione, da parte dell’Alleanza Atlantica, di missili in Europa che fronteggino quelli già installati dall’Unione Sovietica. Si suol dire -come ha fatto più volte un mullah dell’antifascismo quale Norberto Bobbio (e sorvoleremo qui sul suo fascistissimo sentire nel ventennio, ammesso solo dopo che era stato scoperto) che i comunisti italiani sono stati diversi dai comunisti al potere negli altri paesi. Diversi in che? Quando hanno potuto, nell’Italia dell’immediato dopoguerra, hanno proceduto a stragi, puntualmente ricostruite da De Simone e Nardiello, come gli altri facevano altrove. Hanno applaudito tutti i processi ignobili degli anni Cinquanta a Praga e altrove contro comunisti per i quali chi non lo è può provare umana pietà, mentre loro neanche questo hanno provato. Nel ’56, si sono “messi” virtualmente sulle torrette dei mezzi corazzati che massacravano Budapest e l’Ungheria, dispiaciuti di non poterlo fare realmente. Non hanno fatto i gulag e non hanno riempito le galere per il solo motivo che non erano al potere. Non hanno potuto: ma erano pronti a farlo. La loro apparente diversità non corrisponde a una scelta ma è stata imposta dall’impotenza: hanno formalmente “riprovato” l’invasione di Praga nel ’68, continuando, però, a considerare il Pcus quale partito guida; non hanno approvato l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, ma hanno detto di capire le ragioni di questa iniziativa. Insomma: pietà per la vittima, comprensione per il carnefice. E perfino in questa circostanza un loro esponente di primo piano, Giorgio Amendola, considerato il “liberale” del partito - figuriamoci gli altri - proclamò con fermezza: “L’Armata Rossa ci sta bene ovunque essa vada”. “Appunti per un libro nero del comunismo italiano” è molto di più di quel che si dichiara nel titolo. Esso si affianca a quella ricerca poderosa, implacabile e inoppugnabile di Valerio Riva sui finanziamenti di Mosca alla Botteghe Oscure, “L’oro da Mosca”. Ma è solo l’inizio di un libro nero tutto da scrivere e che non ha ancora fine, comunque si chiamino gli eredi del Pci. giornalista e saggista, è stato nel gruppo fondatore del "Giornale", per il quale è stato corrispondente a Pechino (1980-1983) e a Mosca (1983-1987). Passato a fine 1987 alla "Stampa", ne è stato corrispondente da Tokyo, ed è ora inviato speciale. Tra i suoi saggi, "Borgese e il fascismo", (1978) "Gorbaciov, la trama della svolta" (1988), "I giapponesi giorno per giorno", (1992), "Da Mao a Deng. La trasformazione della Cina" (1995). Alcune sue opere sono state tradotte in giapponese, spagnolo, coreano, portoghese. Ha collaborato a "Die Welt", e alcuni suoi scritti sono apparsi su "Washington Pos"t e su "Asian Wall Street Journal". Si occupa di affari internazionali, soprattutto di questioni russe e dell'Estremo Oriente.