ZORRO E' VIVO

quale futuro ?


Questa volta non è colpa dei comunistiNatale a Mosca DOSSIER 2009, manuale di sopravvivenza
La crisi economica e i conflitti in corso nel mondo chiamano gli Stati Uniti a maggiori responsabilitàMIKHAIL GORBACIOVIl 2008 è stato segnato indelebilmente dalla crisi finanziaria globale. Nessuno ne aveva previsto l’arrivo né le proporzioni; credo che nessuno sappia come e quando possa finire. È anche chiaro che le iniziali dichiarazioni di rassicurazione erano irresponsabili. Nei prossimi mesi la politica mondiale sarà sottoposta a un test severo.Cercare strade per uscire dalla crisi sarà un compito difficile. Non tutti gli sforzi iniziali si sono rivelati efficaci. In base a quel che leggo adesso sui resoconti del summit G-8 di luglio in Giappone, è sbalorditivo constatare che appena un paio di mesi prima che la crisi esplodesse i leader mondiali apparivano inconsapevoli delle scosse premonitrici. Il vertice fu di routine. La sua stessa formula - la maniera in cui è stato preparato e condotto - è sembrata superata. Abbiamo bisogno di una nuova visione delle leadership politica globale. Invece i leader arrancano dietro agli eventi.Prendiamo la crisi del Caucaso al principio di agosto. Qualunque guerra, per quanto breve, rappresenta un fallimento della politica. La disavventura militare della leadership georgiana è sfociata in un disastro per migliaia di osseti, georgiani e russi e ha evidenziato la mancanza di un effettivo sistema di sicurezza europeo per prevenire e risolvere i conflitti. I problemi affliggono svariati continenti. Le guerre civili in Congo, Sudan e altre parti dell’Africa sono costate migliaia di vite. L’attacco di Mumbai è stato più che un tragico monito dei pericoli del terrorismo: ha sollevato la questione della responsabilità degli Stati sul cui territorio gli attentati vengono pianificati. La situazione dell’Afghanistan è scoraggiante. Il Medio Oriente continua ad essere una polveriera. Come se non bastasse, è tornata la pirateria, direttamente dai secoli bui.I flussi di immigrati, il dissesto sociale in parecchi Paesi (inclusi alcuni che non sono affatto poveri), i recenti problemi con forniture di alimenti contaminati, le estese violazioni dei diritti umani: la lista dei problemi che il mondo deve affrontare potrebbe essere ancora più lunga. C’è una sensazione crescente che il mondo stia sprofondando in un disordine che viene ulteriormente aggravato dalla crisi economica globale. Parlando con persone di diversi Paesi, mi sento porre ripetutamente queste domande: che cosa sta succedendo? Che cosa succederà? Perché i leader politici mondiali non sono riusciti ad affrontare con successo né le vecchie né le nuove minacce? Sono domande legittime. Per rispondere, dobbiamo guardare alle cause sottostanti ai recenti eventi.Sono convinto che la radice profonda dell’attuale e diffuso scompiglio stia nell’incapacità o nella mancanza di volontà dei leader politici di valutare correttamente la situazione dopo la fine della guerra fredda e di instradare concordemente il mondo su una nuova via. Il «complesso del vincitore», la fanfara trionfale suonata dall’Occidente dopo che l’Unione sovietica è scomparsa dall’arena internazionale - ha oscurato il fatto che la fine della guerra fredda non è stata la vittoria di una parte o di un’ideologia. È stata invece un risultato comune e l’avvio di una comune sfida, la chiamata a un grande cambiamento. Ma perché cambiare, hanno pensato i politici occidentali, se tutto va bene così com’è? Avrebbero continuato a governare il mondo con la loro infallibile dottrina del libero mercato e con alleanze tipo la Nato, che era pronta ad assumere la responsabilità della pace in Europa e altrove.Lo scotto è arrivato nel 2008. È probabile che continueremo per un bel pezzo, negli anni futuri, a pagare il prezzo di queste strategie mal concepite, a meno che non abbiamo il coraggio di guardare alle cose onestamente e di ripensare il nostro approccio agli affari mondiali.In tutto il mondo si avverte l’ansia di voltare pagina. Il desiderio si è manifestato con evidenza in novembre, in un evento che può essere preso a simbolo della volontà di cambiare e che può fare da catalizzatore al cambiamento stesso. Dato il ruolo speciale che gli Stati Uniti continuano a esercitare nel mondo, l’elezione a presidente di Barack Obama può avere conseguenze ben al di là del suo Paese.Il popolo americano ha avuto l’opportunità di dire la sua; adesso tutto dipende da come il nuovo presidente e la sua squadra risponderanno alla sfida. Le elezioni politiche americane hanno già sortito una prima conseguenza: il summit G-20 a Washington ha lanciato la formula di una nuova leadership mondiale, raccogliendo tutti i Paesi responsabili del futuro dell’economia globale. E in gioco c’è anche più dell’economia.Di per sé, il fatto che ai Paesi del G-8 si siano aggregati su un piano di parità la Cina, l’India e il Brasile e altri nove Paesi ha rappresentato il riconoscimento (benché forse riluttante) che gli equilibri politici ed economici del mondo sono cambiati. Adesso è un fatto accettato che una singola potenza centrale, in qualunque modo concepita, non è più possibile. La sfida dello tsunami finanziario ed economico globale può essere affrontata solo lavorando insieme.Sta emergendo l’idea di un nuovo modo di affrontare la crisi a livello nazionale e internazionale. I passi ora contemplati sembrano più confacenti ai bisogni del mondo globalizzato rispetti al precedente approccio, fondato sulla speranza che il mercato avrebbe preso cura di se stesso. Se le idee attuali di riforma delle istituzioni finanziarie ed economiche saranno realizzate con coerenza, vorrà dire che ci saremo finalmente resi conto dell’importanza della «governance» globale. Una governance che renda l’economia più razionale e più umana. La sfida è gigantesca, non solo per l’economia mondiale. Tuttavia può essere vinta. Dobbiamo incoraggiare un dialogo equo, democratizzare le relazioni fra le nazioni e respingere le tendenze militaristiche nella politica e nel modo di pensare. È questa la nuova agenda della politica internazionale.Copyright The New York Times Syndicate