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I giudici: “Aziz è innocente”


I giudici: “Aziz è innocente”
L'ex vicepremier assolto dalle accuse per crimini contro gli sciiti. Ora deve difendersi da quelle sul coinvolgimento nella repressione dei curdi
«Grazie». Alzando la mano destra in segno di saluto verso i giudici, Tareq Aziz ha commentato con quest’unica parola la decisione del Tribunale speciale di Baghdad di assolverlo dall’accusa di crimini contro l’umanità per il coinvolgimento nella strage di sciiti seguita all’assassinio dell’ayatollah Mohammed al-Sadr nel 1999. Poche ore dopo l’ex ministro degli Esteri ed ex vicepremier di Saddam Hussein era di nuovo di fronte alla stessa corte per difendersi dall’accusa di essere co-responsabile dei massacri di curdi del 1983 ma, pur ancora detenuto e sotto processo, l’assoluzione ricevuta lo trasforma in un’eccezione nei processi contro i delitti compiuti dal regime del Baath. Tantopiù che la sentenza a suo favore è stata pronunciata nello stesso giorno in cui il medesimo tribunale ha ordinato la terza condanna a morte nei confronti di Ali Hassan al-Majid, l’ex generale di Saddam soprannominato «Alì il chimico» per aver gestito gli attacchi ai curdi con i gas che causarono migliaia di morti. Con i verdetti di ieri il Tribunale speciale ha sottolineato come Tareq Aziz e «Alì il Chimico» siano stati i volti opposti della dittatura di Saddam: entrambi fedelissimi ma con la differenza che il primo eseguiva disegni politici e il secondo assassinii di massa. Arrivato alla soglia dei 73 anni, nato a Tell Kaif in una famiglia assira-cristiana con il nome di Michail Yuhanna (Michele Giovanni) che cambia per proteggersi dall’ostilità dei musulmani, Aziz si lega a Saddam sin dagli anni 50, quando entrambi sono attivisti del Baath fuorilegge. Il nazionalismo arabo, di cui il Baath è portatore, diventa per Aziz l’ideologia nella quale annegare le ostilità ataviche fra cristiani e musulmani e al tempo stesso lo strumento per assegnare all’Iraq il ruolo di potenza regionale che Saddam aspira a concretizzare. L’essere cristiano e nazionalista arabo lo trasforma nel volto dell’Iraq che Saddam voleva presentare al mondo, facendone il protagonista di eventi che hanno cambiato il volto del Medio Oriente. Voce tenue, sigaro in bocca e occhiali grandi, gli tocca trattare con la Russia di Vadimir Putin per ottenere armi in cambio di greggio come incontrare Donald Rumsfeld, inviato di Ronald Reagan. E’ lui a giustificare l’invasione del Kuwait nell’agosto 1991, diventando il volto della più palese violazione della Carta dell’Onu ed è dunque sempre a lui che il Segretario di Stato americano James Baker si rivolge, durante un drammatico faccia a faccia a Ginevra, minacciando l’atomica contro Baghdad per impedire a Saddam Hussein di lanciare su Israele missili armati di gas. La disfatta nella Guerra del Golfo costa ad Aziz il posto di ministro degli Esteri ma Saddam continua ad averne bisogno, questa volta per rompere l’assedio delle sanzioni Onu. Insignito dei gradi di vicepremier alterna la divisa agli abiti civili, tratta per 12 anni con gli ispettori Onu, viaggia senza interruzione fra Mosca, Berlino, Parigi, New York e Roma (Vaticano incluso) in cerca di alleati politici, alcuni dei quali riesce a corrompere sfruttando le ambiguità della risoluzione «Oil for Food». La fedeltà assoluta per il Raiss gli impedisce di correggerne gli errori, continua a seguirlo anche nel braccio di ferro con l’Onu che porta all’attacco americano del marzo 2003 e quando il regime crolla si dilegua inseguito dalle voci che sta segretamente collaborando con gli Stati Uniti. Lui ha sempre negato di aver tradito il Raiss ed ora la sua assoluzione riapre le ferite di quell’epoca perché il figlio dell’ayatollah Mohammed al-Sadr è il giovane Moqtada, leader ribelle delle milizie sciite dell’«Esercito del Mahdi» ostili al governo centrale, che hanno trovato nel verdetto di Baghdad un’ulteriore prova del «tradimento consumato ai danni degli sciiti massacrati». Sarà l’esito del pendente processo per i delitti contro i curdi a segnarne la sorte ma a renderlo un potenziale attore politico nel nuovo Iraq è l’identità che per oltre mezzo secolo ha considerato una propria debolezza: essere cristiano significa poter ambire ad un ruolo super partes nel duello per il potere fra sunniti, sciiti e curdi che si apre con il ritiro delle forze americane.