ZORRO E' VIVO

Pino Scaccia: "Non ho mai avuto paura di dire qualcosa"


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I reporter uccisi dall'inizio del 2009 sono 44. L'ultimo è stato assassinato circa una settimana fa, in Messico: il settimo di una lista nera dall'ultimo capodanno, l'ennesimo di un elenco ancor più triste, e più lungo, dall'inizio del secolo. A raccontarlo, nella brezza di mercoledì sera in Piazza D'Albenzio, a Spoltore, è Pino Scaccia, reporter storico I volto ormai familiare a milioni di italiani. Il noto giornalista è stato infatti ospite di "Abruzzo Film Festival", rassegna di cinema di guerra organizzata da Tusio De Iuliis, dell'associazione umanitaria "Aiutiamoli a vivere". Pubblico raccolto, atmosfera colloquiale, la cornice rassicurante della piazza in una bella serata d'agosto: questo lo sfondo di una manifestazione che da anni affronta con crudezza e coraggio le aberrazioni della guerra, il dolore della sconfitta, l'odore pungente del sangue. Ma anche la vivace curiosità dei bambini, la devozione delle missionarie, l'audacia dei reporter, la pazienza dei medici: tutti volti, questi, che sulle pagine dei giornali, e negli spazi stretti delle dirette, spesso non trovano posto. Lo sa bene Pino Scaccia, testimone da anni degli scenari più apocalittici del nostro secolo, osservatore attento, reporter forse prima per passione che per lavoro. Lo abbiamo incontrato per porgli qualche domanda. Pino, tu sei stato nei luoghi maggiormente lacerati da eventi bellici e naturali: quanto è stato difficile, se lo è stato, separare l'esperienza umana dall'aspetto professionale? "Questo è un nodo centrale del nostro mestiere: devi emozionarti, se vuoi che anche chi ti ascolta si emozioni. Devi essere coinvolto, devi sentire, vivere appieno l'esperienza... ma attenzione, è proprio qui che entra in gioco la professionalità, cioè la capacità di gestire le emozioni, la determinazione di raccontarle senza soccombervi". Non è sempre facile... "Assolutamente no, ma è ciò che bisogna fare se si vuole essere dei veri testimoni. Ricordo bene quando, ad esempio, sono stato al centro di un agguato in Iraq: 90 colpi sulla nostra macchina, quattro kalashnikov sulla troupe Rai. Ci siamo salvati, e appena fuori pericolo sai cosa abbiamo fatto? Abbiamo pianto. Fatto sta che nell'edizione successiva del Tg raccontavo per filo e per segno quello che ci era successo poco prima, come se parlassi di un evento ormai estraneo. In fondo poi è proprio questo che noi giornalisti dovremmo fare: essere un tramite fra l'evento e la gente che, a casa, lontana kilometri, ti guarda, ti ascolta. Devi testimoniare con professionalità, che, attenzione, è molto diversa dalla mera freddezza". In situazioni estreme come quelle che hai vissuto è difficile conciliare il rispetto per la dignità delle persone con la necessità di dare la notizia? Un esempio che potremmo fare è quello di quanto accaduto qui in Abruzzo durante il terremoto.... "Succede spesso, purtroppo, che in situazioni come queste la ricerca sfrenata dello scoop porti a non avere rispetto delle persone. Ma si badi bene, è chiaro che quel che accade in questi casi non ha nulla a che vedere col giornalismo. E' un modo di fare notizia che è semplice gossip. Tanto è vero che nel caso del terremoto all'Aquila si trattava spesso di presentatori o intervistatrici che non erano giornalisti. Né io né i miei colleghi abbiamo mai mancato di rispetto a qualcuno. Sono errori, questi, che la stampa vera non fa". Che dire... è un dato di fatto, purtroppo, che i media sono diventati lo specchio della società. Allora non è più un problema della tv o dei giornali: è un problema nostro, di tutti noi. "Oggi, per esempio, è opinione diffusa che con una scuola di giornalismo si possa diventare bravi giornalisti. Io credo, però, che ci sia qualcosa che nessuna didattica possa mai insegnare. E' l'esperienza del mestiere, quella che si impara a bottega, prima, seguendo un buon mastro, e, poi, andando nelle strade, parlando con la gente, allenandosi nella palestra della cronaca. Se vuoi fare l'inviato, per esempio, non puoi solo sapere astrattamente che sarà un lavoro duro: devi arrivare nei villaggi, non mangiare per tre giorni, ascoltare il rumore delle bombe. Quando nonostante tutto avrai ancora voglia di testimoniare, raccontare ciò che vedi, allora sarai un buon reporter". Quindi per essere un buon inviato, cosa si deve fare? "E' una domanda che mi fanno spesso, specialmente i ragazzi. Sai cosa rispondo? Che l'80% è fatica, un 10% è tecnica, mestiere, un altro 10% è talento. Il nostro è un lavoro faticoso, in cui devi essere sempre disposto a rischiare. Spesso neanche ci pensi, quando rischi davvero grosso, perché se ti fermassi a pensare a quel che potrebbe accaderti forse non faresti un passo. Anche se la paura serve. Ho visto colleghi morire perché una granata cadeva su di loro, piuttosto che sulla mia troupe. Sono pochi secondi, è fortuna, forse destino. Ero con Baldoni la sera prima del suo sequestro, ma non mi fidai di quel che stava accadendo, e al posto di passare la notte a Najaf tornai in albergo a Baghdad. Fu una diffidenza, una paura... provvidenziale. Quel che è chiaro è che devi esserci. Quando qualcosa accade, tu devi esserci. Sai perché sono stato il primo a lanciare la notizia di Farouk? Perché non stavo a Porto Cervo in albergo come gli altri, ma andavo a cercare nelle vie della Barbagia". La tua più grande rinuncia? "Moltissime rinunce, questo è ovvio. Quando ti dedichi così tanto al tuo lavoro, e con tale passione, non sei più tu che governi, ma la notizia. Devi essere sempre pronto a partire, anzi, tu devi partire quando tutti gli altri scappano. E i rapporti sociali, quelli sì, un po' si allentano. E' un rischio, siamo d'accordo, ma è soprattutto una scelta. E naturalmente quel che perdi lo ritrovi in altra veste. Provi emozioni fortissime, sotto le bombe è tutto più forte. Ma vedi ciò che nessun altro vede, ascolti storie e percorri strade che mai avresti immaginato. Quanti cinema, quante cene andate perse... potevo sedermi, forse, dopo tanti anni, ma non l'ho fatto". E nel tuo lavoro ti sei mai dovuto scontrare con logiche che non condividevi? "Devo dire onestamente che ormai da un bel po' di anni ho ottenuto una credibilità tale da potermi imporre e potermi difendere. Gli scontri peggiori, credo, sono quelli che si verificano se tiri in ballo interessi soprattutto nazionali. E' per questo che ho una grande stima per i colleghi di cronaca di certe province difficili. Io come reporter ho sempre detto tutto, anche quando in tanti mi remavano contro, come nel caso di Farouk. Ciò che conta è essere sicuri della notizia. Nel giornalismo non deve esistere il condizionale. Non devi accettare i compromessi, ma certo la mia posizione è diversa da tante altre, perché ho lavorato per un telegiornale popolare, non ad esempio per la stampa schierata politicamente. Devi sempre sentire le due campane quando cerchi di dare una notizia. Ma se mi stai chiedendo se ho avuto paura, a volte, di dire qualcosa, la risposta è no". Carlotta Giovannucci