I
riflettori puntati sulla città si sono spenti. Ma l'emergenza è
cronica. E Napoli, caricatura dell'Italia, è vittima di un romanticismo
malsano.
Giornali
pieni di notizie, riflettori accecanti. Reporter di tutto il mondo
sbarcavano dall'aereo a Napoli, chiedendo: "Ma qui siamo in Europa?".
Una serie di omicidi e tutti a parlare di "emergenza Napoli", con
titoli tipo: "Addio Napoli", "Napoli muore". Come già due, cinque,
dieci, vent'anni fa.
E
ora? Ora è tornato il silenzio. I riflettori si sono spenti, senza
iniziative serie per uscire dall'emergenza: un programma per
l'occupazione, i primi segnali di una svolta culturale, un tentativo
dello stato di occuparsi con decisione della "piaga aperta" nel sud.
Napoli è diversa.
All'incirca a metà strada tra Foggia e Napoli, ti prende quella fitta
al petto, un dolore che è come pregustare una gioia che viene
romanticizzata senza ritegno. Ti prende quella malinconia di Napule, del suo golfo, della luce, del rumore, della vita di strada.
Napoli
è intensa: fuori tutta colori sgargianti, dentro tutta nera o tutta
bianca. Niente mezze misure, niente grigi, mai. Non lascia nessuno
freddo. Napoli non può solo "piacere": o la ami o la odi. Io la amo.
Napoli è un mondo esagerato, drammatico. È splendida e orrenda, e le
due cose quasi sempre convivono, in una metafora unica della vita. E
perciò anche della morte.
In
verità l'emergenza è il momento migliore per Napoli, per la Napoli dei
temerari che si oppongono al "pizzo" rischiando la vita, per gli
impavidi rapper di Scampia, per il coraggioso parroco di Forcella. Per
Roberto Saviano che, a 28 anni, a causa del successo della sua opera
prima Gomorra vive nascosto e rimpiange di averlo scritto. I
riflettori accesi sono una benedizione per tutti quelli che si battono
contro l'indifferenza nazionale, che sognano un po' di normalità e una
solidarietà autentica, al posto dell'amore o dell'odio romanticizzati.
La
cosa più agghiacciante l'ho letta in queste settimane sull'Espresso, in
un'intervista al procuratore antimafia Marco Del Gaudio, che ha detto:
"Se il nuovo piano di sicurezza della polizia funzionasse, sarebbe un
disastro". In altre parole, la magistratura non potrebbe reggere la
mole di lavoro che seguirebbe a un'ondata di arresti. Nei tribunali
manca tutto: la carta per le fotocopie, i raccoglitori, la benzina, i
registratori per gli interrogatori. Qui si sgonfia ogni retorica, ogni
chiacchiera sulle emergenze, ogni pubblica professione di fermezza.
Lo
stato di diritto è fragile, la volontà politica debole. La legge non fa
da deterrente: processi urgenti durano un'eternità o non cominciano
mai. Se e quando si concludono con una condanna, ci sono buone
probabilità di uno sconto di pena, un errore di forma, un'amnistia.
Le cose non stanno così
solo a Napoli. Napoli è una caricatura dell'Italia, una gigantografia
delle debolezze del paese. È un monumento alla più vistosa sconfitta di
uno stato, che non mette ordine, non protegge, o lo fa solo in modo
selettivo. Ecco perché in Italia sono sempre tutti contenti di guardare
dall'altra parte, quando i riflettori si spengono. E tutti a dire:
Napoli è un caso limite! Ma così ci si inganna da soli.
Napoli
non può aiutarsi da sé. È una metropoli postindustriale che vive di
denaro pubblico, senza una forte borghesia illuminata. Malinconica e
nostalgica, è rimasta ferma nel passato, sospesa tra re borbonici e il
divino Maradona. A creare l'immagine romantica di Napoli sono proprio
quelli che l'hanno lasciata. Come Erri De Luca, secondo cui Napoli vive a dispetto dei suoi assassini, espone le sue ferite al sole, che è sveglia fino all'insonnia permanente: "Napoli non dorme mai. Napoli è". Quanto pathos, quanta romantica afflizione, quanto orgoglio. È il riflesso di un nostalgico.
Dario Tudisco |
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il 07/02/2014 alle 01:18
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