DARK REALMS V2

Post N° 85


SYSTEM OF A DOWN: TOXICITY (2001) Micidiale tossica follia. Qual è il rischio più grosso nel bissare un successo? Il fallimento del bis. I System Of A Down non hanno fallito, sono venuti meno alla routine, hanno confezionato un piccolo miracolo incidendo Toxicity. Sono riusciti a tornare sulle scene con qualcosa di ugualmente potente e addirittura superiore confermando e soprattutto superando le aspettative. Spesso l’attesa dei fan, l’attenzione pressante dei critici, la paura di non riuscire ad eguagliare il primo successo, gli enormi carichi di responsabilità arrivati dopo esso, i tour e i vari nuovi e molteplici impegni portano a una seconda uscita di un album non degno di nota, cosa che invece non è stata per i System Of A Down, che sono riusciti a curare ogni piccolo particolare, un lavoro estremamente razionale nella sua irrazionalità più completa. Ricco di echi, suggestioni mediorientali e sfumature che nel primo non sempre si riuscivano a cogliere. Preciso in ogni piccola scelta, in ogni suono, anche se il miscelarsi di punk, metal, hardcore, folk e musica tribale potrebbero far perdere questo “equilibrio” razionale, ma è un mix incastrato alla perfezione. Alcuni critici lo hanno definito « un lavoro folle, deviato, malato, ma maledettamente intelligente ». Anche se gia nei primi tour, con il primo album fecero da spalla a degni gruppi del mondo metal, come gli Slayer, anche dopo la loro definitiva consacrazione nell’ambiente metal sul palco dell’Ozz Fest nel 1998, anche dopo il tour mondiale e il doppio disco di platino portati a casa con il loro primo e omonimo album, i System Of A Down si confermano sulle scene mondiali piazzandosi direttamente in classifica nel 2001 con il loro secondo disco. Toxicity, con cui la band sfonda il muro della notorietà vendendo più di 6 milioni di copie in tutto il mondo e riuscendo a farsi conoscere anche oltre confine, scatenando subito una forte diatriba tra i fan sul genere di riferimento dell'album: per la maggior parte dei critici i System Of A Down rientrano infatti nelle tendenze nu-metal ma, a causa della frequente connotazione spregiativa che viene data al termine, alcuni fan si ribellano e spingono invece per far rientrare i System Of A Down nel novero dei gruppi progressive o quantomeno del metal alternativo. Toxicity li ha ormai catapultati tra le metal band, gruppo si “cattivo”, ma al tempo stesso in grado di utilizzare suoni energici e originali nello stesso momento, band “dura” che riesce ad essere anche impegnata socialmente, tanto da tirar fuori, dopo la notorietà  discussi video antibellici, campagne anti-bush e dichiarazioni di impegno militante. In confronto al primo album i suoni si fanno più “puliti”, leggermente più melodici, ma non per questo escono dalla scena metal, anzi, le forti influenze metal miscelate alle sonorità tipiche armene fanno sì che la musica dei System Of A Down si confermi particolarmente originale e riesca a catturare l'attenzione di milioni di fans.Un po’ paladini della giustizia, un po’ pure briganti. Con Toxicity (2001) il gruppo, l’anno seguente la sua uscita si ritrova come head-liners all’Ozzfest, dovendo prendere il posto di Ozzy Osbourne per qualche tappa, degna consacrazione di degno album. Così che chitarre distorte, sonorità originali che ricordano il medioriente, oscure melodie che ipnotizzano e testi di lotta politica sono la conferma della band, non sono più degli emergenti. L’album da amare quanto odiare, perché dopo questo difficile trovare, o sperare in un’uscita che lo superi, in cui ogni traccia è una traccia a se e bella per questo. Album che ha diviso la categoria nu-metal, genialata o solita solfa? A mio parere quest’album è uno di quei pochi da portarsi su un’isola deserta, uno di quegli album che non ti deludono dal primo minuto all’ultimo, non ti stufano per quanto tu possa premere “repeat” sullo stereo. Chi lo definisce nu-metal, chi hardcore, chi trash, chi rock, io non lo definirei proprio, è un genere a se che riesce a fondere perfettamente le sonorità dure e spigolose del metal con la fluidità dei ritmi ben più morbidi della tradizione armena. I giochi di voce di Serj Tankian ti stupiscono e ti incantano, gli assoli di chitarra Daron Malakian ti ipnotizzano, il basso di Shavo Odadjian ti entra nel cervello e la batteria di John Dolmaian la senti vibrare entro tale incastro perfetto. Ogni singola traccia è una canzone a se, ma al tempo stesso si miscela perfettamente con quella precedente e quella successiva. In ogni canzone c’è da emozionarsi, la senti partire da dentro, che esce fuori come una furia, un vulcano in eruzione, con la lava che ti scivola addosso, pur avendo quel non so che di piacevole, ma al tempo stesso lancinante. Ogni singola emozione data da questo disco è intensa come pochi riescono a darti: le sonorità originali, diverse dal solito contesto del nu-metal, la voce a più registri, con diverse tonalità in ogni traccia, i ritmi incostanti della loro musica riescono a farti immergere in una diversa realtà. Anche se considerata band statunitense d’adozione, non perdono occasione di ricordare al pubblico che la loro musica è una delle vie di sfogo e di denuncia per il genocidio subito dagli Armeni. La politica e le idee antimilitaristiche sono costanti in Toxicity (2001). Non li si può considerare solo una band nu-metal, non li si può considerare solo una delle tante band che usano la musica a scopo politico, i System Of A Down sono una delle poche band che utilizzando sempre le stesse sette note che utilizzano tutti i gruppi, tutti coloro che fanno musica, sono riusciti a tirar fuori qualcosa di originale, di intelligente, di socialmente utile, di idealmente e politicamente corretto (dal mio punto di vista) e spesso per gruppi del genere, o li ami o li odi, odiarli non fa per me.Un insieme complesso. Attacco subito al potere, attacco di chitarra violento con Prison Song, voce sussurrata e chitarra violenta, growl e testo veloce cantato da Serj Tankian e Daron Malakian che si alternano. « I buy my crack, I smack my bitch, right here in Hollywood »,  testo aggressivo, prepotente, rabbioso sul sistema carcerario degli Stati Uniti d’America, e sul sistema carcerario di ognuno di noi, le nostre vite, la nostra prigione – dal sociale al personale – un decrescendo di tono, fin quando il suono vocale sembra avvicinarsi a quello di una canzone d’amore che non è « They're trying to build a prison. For you and me. Oh baby, you and me » e poi di nuovo un crescendo in velocità, fino allo stridio finale della chitarra. Needles è lo stesso violenta, ma più costante nel sound. Il dolore interno di ognuno di noi viene scandito dalle parole rigettate a una velocità disarmante e al suono di una chitarra e un basso che ti entrano dentro, fin quando Daron Malakian con « I'm just sitting in my room. With a needle in my hand. Just waiting for the tomb. Of some old dying man. Sitting in my room. With a needle in my hand. Just waiting for the tomb. Of some old dying man? » ci pregia di questo suo momento vocale degno di nota, fuori dal contesto del suono, ma perfettamente incastonato nella canzone. Con Deer Dance compare gia il saltare di tono in tono, soprattutto vocale – la danza del cervo era una danza propiziatoria per la pace che usavano i nativi americani danzando in cerchio – come se fosse una cantilena, come se fosse un giro tondo, una denuncia della società americana, dei bambini che vivono abbindolati dal mondo di plastica, dell’america vendicativa del « andrà tutto bene noi siamo l’America », una denuncia sulle frottole raccontate, sulla vita del soldato arruolato senza nessun motivo: « A deer dance, invitation to peace, War staring you in the face, dressed in black. With a helmet, fiere. Trained and appropriate for the malcontents. For the disproportioned malcontents. The little boy smiled. It'll all be well ». Un urlo che a volte ricorda il sound e il ritmo dello ska, ma miscelato a un metal “cattivo”, col basso che scandisce il tempo, violento, veloce, melodico, triste e di nuovo prepotente, che ferisce. Cambia sound Jet Pilot, dura sin dall’inizio, con un ritornello costante, sempre uguale, che entra dentro, veloce come una lama, ed intervallato da quel soud “orientale” - « My, source, is the source of all creation. Her, discourse is that we all don't survey. The skies, right bifore. Right before they go gray. My source, and my remorse. Flying over a great bay » - che spezza la cantilena, cantilena spedita, ritmata, un rimorso che riaffiora alla mente e che con un attimo viene spazzato via. X è una canzone a se, doveva essere l’ultima del primo album, ma per vari motivi venne posticipata a questo. Il ritmo si fonde perfettamente con Jet Pilot, ma non è più una cantilena, è un lanciare immagini con la musica, con il basso e la chitarra che stride, con la batteria che colpisce dove sa che deve colpire, « Tell the people, tell the people that arrive. We don’t need to multiply. Die! ». La canzone è un grido contro la massificazione, « non abbiamo bisogno di annullarci », porta con se il suono meno fluido del primo album, del cambio di tono costante e rabbioso, ma anticipa il singolo che li porta sulle vette delle classifiche. Ecco Chop Suey!. Chi conosce i System Of A Down non può non conoscere Chop Suey!, è l’esempio portante del loro genere, della loro musica, della miscela di metal, sound orientaleggiante, ferocia, malinconia, ira, dove il titolo originale doveva essere “Suicide”, modificato dalla band in Chop Suey!, che ne ricorda per sonorità il titolo originale. « I die when angel deserve to die » è un grido disperato, a cui si aggiungono  richiami ai versi della bibbia - « Father, into your hands, I commend my spirit » (Luca 23,46) e « Why have you forsaken me » (Marco 15,34) - come se fosse un’ultima preghiera, una richiesta sconsolata, così come sono i versi, così come sembra la canzone stessa. Serj Tankian cambia tonalità almeno tre o quattro volte nello stesso testo, da melodico a growl, urla, scalpita, grida, canta e si dispera allo stesso tempo. Gli strumenti uniscono il tutto rendendolo un capolavoro, la prova la si ha ascoltando le ultime righe ad occhi chiusi « Trust in my self righteous suicide. I, cry, when angels deserve to die. In my self righteous suicide. I, cry, when angels deserve to die ». Con Bounce si ricambia suono. Nelle esibizioni dal vivo, Serj Tankian accompagna il suono della chitarra con « pogo pogo pogo » e un gesto della mano che sottolinea l’ambiguità del bastone a molla richiamato dalla canzone. Sembra una canzone senza senso, ma basta riflettere al doppio senso del « salta salta » ed ecco che esce fuori il significato vero e proprio della canzone stessa. Svelta, spezzata da una doppia voce di Serj Tankian e Daron Malakian, come se fossero il coro di sottofondo, la chitarra da senso alla canzone, da ritmo: « Oh, I like to spread you out. Touching whoever's behind », quest’ultimo verso sembra cantato da fantasmi, su un altra tonalità, su un altro ritmo, a riprendere l’introduzione della canzone nella stesura iniziale con un “dudek”, flauto armeno. Con Forest si torna al sociale, chi siamo, cosa stiamo diventando, cosa faranno le nuove generazioni: « You saw the forest, now come inside. You took the legend for its fall. You saw the product of it all. No televisions in the air. No circumcisions on the chair. You made the weapons for us all. Just look at us now ». Perché non riusciamo a vedere cosa siamo, e cosa stiamo facendo? Chitarra e batteria la fanno da padrona, l’estensione vocale di Serj Tankian si nota in tutta la canzone, in ogni strofa, in ogni singola parola. Si cambia di nuovo, chitarra strimpellata, lenta, e un “na-na-na-na” dolce come una “ninna-nanna”, suono tenero, lento, avvicinato con la seconda voce di Daron Malakian in sottofondo, spezzato da un grido, dalla chitarra, dalla rabbia. ATWA è questo, un intermezzo tra rabbia e dolcezza. ATWA (air, trees, water, animals) aria, alberi, acqua e animali. La terra, il nostro mondo, la natura e cosa ci accade intorno. Un mix di dolcezza e astio da far paura, completamente miscelato e fluido, indivisibile, come due volti della stessa medaglia: « You don't care about how I feel. I don't feel it anymore. I don't sleep, anymore. I don't eat, anymore. I don't live anymore. I don't feel », sembra come una domanda, insomma, ci stiamo annullando? ATWA è un acronimo della filosofia ambientale di Charles Mason che crede di poter preservare la terra eliminando interamente l’inquinamento umano e riportando all’equilibrio primordiale flora e fauna. I System Of A Down non sono sensibili solo al tema della guerra. Con Science si ritorna alle sonorità iniziali dell’album, il cocktail perfetto di metal e lontano oriente, dove però stavolta l’intermedio è suonato da un polistrumentalista armeno, Arto Tuncboyaciyan, che ritroveremo verso la fine dell’album. Scienza come progresso o come rovina per l’umanità? « Science has failed our world, Science has failed our Mother Earth ». Un richiamo a quella che viene chiamata fede, alla spiritualità della vita, un ricordarsi che non esiste solo il mondo materiale fatto di formule, progresso e studi, dove l’uomo si muove verso l’ “inesplorato” grazie alla fede, allo spirito e alla voglia di conoscenza. Shimmy riporta tutto allo stato iniziale, confusionale, parole apparentemente messe alla rinfusa, ma che hanno il loro significato. Ed ecco di nuovo quel crescendo ritmato dal basso, aiutato dalla batteria: « Don't be late for school again boy. Don't be late for school again girl ». Ritmo, preciso, costante, pressante, istruzione, educazione e voglia di uscire fuori dagli schemi. Proprio ciò che fanno i System Of A Down giocando col sound di questa canzone. Dodicesima canzone, secondo singolo, “tossicità” porta il titolo dell’album. Toxicity per quanto uno possa descriverla, raccontarla, recensirla è solo limitarla nella sua complessità. La chitarra iniziale ti fa saltare in piedi, te la fa riconoscere dalle prime note, ti fa partire di testa, ti fa tenere il ritmo col piede, con la mano simuli il suonare le corde. Un sussurro, la voce di Serj Tankian che si fa più presente, fino al lamento, all’urlo di « How do you own disorder, disorder. Now, somewhere between the sacred silence. Sacred silence and sleep. Somewhere, between the sacred silence and sleep. Disorder, disorder, disorder ». Disordine, disordine, ma la traccia è tutto tranne che disordinata, è un insieme di suoni, lenti, melodici, veloci, furiosi, eppure ha un suo preciso ordine, che delinea, non a caso, il disordine in cui viviamo, nella nostra tossicità, nel nostro veleno. L’assolo di chitarra finale, accompagnato all’urlo di Serj Tankian è degno di nota, indescrivibile. Con Psycho ci avviciniamo alla fine dell’album, altro sound, diverso atteggiamento, e diverso approccio alla canzone, dal disordine ordinato di Toxicity alla confusione totale della tredicesima traccia. Il basso ne segna la psicosi. Parole una dietro l’altra senza congiunzioni. Psicosi, cocaina, il non fermarsi e di nuovo ecco il suond orientale destreggiarsi tra le parole, le unisce, le spiega, rende fluida la canzone: « So you want the world to stop. Rushing to watch your spirit fully drop. From the time you were a psycho, groupie, cocaine, crazy ». La psicosi risulta essere descritta perfettamente in 3.44 minuti di canzone. Ultima traccia, terzo singolo dell’album, Serj Tankian nei live accompagna Daron Malakian alla chitarra quando suona questo pezzo. Aerials, i trapezisti, video circense particolare degno di una canzone particolarissima. Nuovamente, più domande riecheggiano. chi siamo, cosa diventiamo, cosa dobbiamo fare, cosa vogliamo: « And we are the ones that want to chose. Always want to play. But you never want to lose ». Ci copriamo di maschere, a tal punto da non sapere più quale sia la nostra realtà: « trapezisti nel cielo, quando abbandoni la chiusura mentale liberi la tua vita », soltanto che non tutti noi siamo in grado di farlo e finiamo per abbandonarci ad essa, da trapezisti a trapezi della propria vita (letteralmente aerials significa eterei, trapezisti, aerialists in inglese, è una semplice metafora). Una chicca per chi possiede l’album originale: la chiusura del disco non si ha con Aerials ma bensì con Arto, canzone fuori dagli schemi del disco, un’altra dimensione, un altro stato d’animo, altre immagini e altri disegni nella mente: la terra armena. Serj Tankian accompagna il percussionista armeno che ha gia lasciato segno in un paio di canzoni di questo album per ricordare una delle messe cantate armene, per la precisione è la messa scritta da Komitas, monaco e compositore armeno che impazzì alla vista degli orrori commessi dai Turchi durante il genocidio armeno. Con ciò si conclude degnamente un disco che credo faccia parte della storia non solo del metal ma della musica, si conclude ma nessun vieta di risentirlo.