DARK REALMS V2

Post N° 53


METALLICA: RIDE THE LIGHTNING (1984)Circa vent’anni fa, un gruppo californiano poco blasonato conosciuto con il nome di Metallica fu costretto a sfornare un'altro capolavoro in grado di raggiungere il precedente straordinario risultato. Dopo aver travolto l’audience mondiale col primo album, Kill ‘Em All (1983), dotato di una carica e di un energia tanto grezza quanto efficace, i Metallica ritornarono sulle scene con Ride The Lighting, un album dove il gruppo mostrava che nel thrash era possibile un evoluzione intelligente senza per questo snaturare lo stile di base, grazie ad una maturazione tecnico-compositiva davvero impressionante. Tecnicamente la band è davvero su ottimi livelli, per l’appunto, il mai troppo compianto Cliff Burton, spina dorsale sonora, riesce davvero ad imporsi per personalità e capacità tecniche sicuramente al di sopra della media. La nota sicuramente più positiva è il fatto che tutti i musicisti non cercano di dimostrare la loro bravura strumentale, ma mettono a disposizione delle canzoni le loro qualità. La produzione, affidata al ligio Flemming Rasmussen (Blind Guardian, Rainbow, Mercyful Fate) è ottima se rapportata ovviamente all’anno di uscita del disco, grezza al punto giusto per far risaltare l’aggressività dei pezzi e pulita quando serve. Con il disco in questione, i Metallica apportano una nuova, radicale e definitiva rivoluzione, per quanto sia una continuazione della precedente. Qui si accentua, oltre alla musica, l'epicità dei testi. Ne deriva un'ambientazione non più metropolitana, ma galattica. Un senso non più di morte o rottura, ma di eternità o martellamento su di uno stesso punto. Fondamentale, in quanto lo si può considerare un po’ come l'album della svolta stilistica della band. Un disco del genere non è nient’altro che la seconda delle tre perle create dal quartetto Cliff Burton, James Hetfield, Kirk Hammet e Lars Ulrich (senza dimenticare l'apporto di Dave Mustaine), dove si deve registrare soprattutto un suono maturo e ponderato. Cavalcate granitiche e mid-tempos oscuri si susseguono in un disco che non ha grossi punti deboli.Ride The Lightning inizia con un arpeggio agrodolce, un' arpeggio spaventoso che da vita a una sorta di apocalisse dove Lars Ulrich presenta un doppio pedale da urlo: Fight Fire With Fire, bellissima canzone che funge da anello di collegamento tra questo album e il precedente. È infatti presente la (buona) grossolanità di Kill 'Em All (1983). Ruvida e aggressiva, Fight Fire With Fire è una canzone che ha fatto scuola, infatti, i Metallica sono stati grandi nel riuscire ad innestare piano piano sulla matrice del thrash una base melodica unica e riconoscibile e nel riuscire a variare sempre di piu' gli schemi. Mai orecchio umano aveva sentito qualcosa di più estremo. Tutto ciò risulta essere solo il preludio ad uno dei più grandi dischi dei californiani e della scena thrash ottantiana in generale. Dall'uscita di questo album sono passati vent'anni e nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. Ride The Lightning, la title-track posta in seconda posizione, epopea alla The Four Horsemen, questa volta votata all'era del futuro, anziché a quella del passato. I Metallica continuano a inneggiare alla morte, tuttavia, d’ora in poi lo faranno pacificamente, per esorcizzarla, non più sadicamente: il gruppo passa da un nichilismo bruciante a uno "tutto interiore" e non a caso il tema qui trattato altro non è che il proselitismo contro la pena di morte, come da sedia elettrica campeggiante in copertina. << Someone help me! Oh please God help me! They are trying to take it all away, I don't want to die >>. La lezione dei Metallica ai posteri del metallo. La title-track  Ride The Lightning si apre con uno dei riff più "drammatici" mai sentiti, nel complesso risulta essere un classico brano in crescendo che dà il meglio di sé nel break centrale prima della liberatoria accelerazione finale. È giusto notare come assumano crescente importanza le parti di chitarra ritmica di James Hetfield, perfetto opposto agli assoli di Kirk Hammet che da questo disco in poi iniziò anche a collaborare alla stesura dei brani. Tuttavia, la perfezione di questo connubio la vedremo ancora tra un po'. Senza dubbio, con tale opera i Metallica hanno dimostrato di essere davvero in grado di salire di livello, grazie ad una fantasia notevole nello sviluppo di questa canzone, con dei riffs davvero spettacolari e piazzati sempre al momento giusto. Cavalca il fulmine. I classici si susseguono, è la volta di una “perla” come For Whom The Bell Tolls, il cui riff è diventato uno dei più famosi al mondo, almeno per quello che riguarda il metal; malgrado la disarmante banalità di fondo è una delle canzoni che sono state maggiormente soggette a cover da gruppi in erba. Quattro accordi o poco più, pochissime variazioni, il mid-tempo continuo, un Lars Ulrich da brividi, quanto basta per creare un capolavoro che sprigiona una carica emotiva unica. L’oscurità cade sui Metallica. L'inizio è singolarissimo: inquietanti campane a morto. Il primo riff è uno di quelli maligni che ti entrano dentro e ti rimangono nella testa per sempre, prima di far spazio alla chitarra di James Hetfield con un altro riff granitico e bastardo ed infine giunge quel terribile assolo infinito che crea un senso di attesa mostruoso. Un senso di attesa che non trova mai sfogo per uno dei più epidermici fraseggi chitarristici di sempre: da una parte la desolazione della chitarra ritmica, dall'altra la sublimità tra l'eroico e il ferito di quella solista. Per tutta la durata del brano si è in cocente attesa di un'accelerazione finale, oppure che la canzone dia spazio ad un ritmo più veloce ed energico, che riesca a far esplodere tutta la potenza qui generata, ma non lo fa. Continua imperterrita con il suo ritmo ossessivo e, quando ti aspetti il cambio di tempo, l'anelato sfogo, il brano si avvia, invece, ad un lungo finale sfumato. Quando le note ormai stanno finendo non riesci a credere che la canzone finisca così, che sia riuscita a mantenerti in bilico per i cinque minuti di durata. L’apoteosi dell’inquietudine. In ogni caso, è con Fade To Black che si arriva ad uno dei capolavori del disco. Giunti sin qui nessuno si sarebbe immaginato un pezzo come questo, una canzone dove l’indiscussa protagonista è una candida melodia, dove i ritmi si affievoliscono e la carica energetica sfuma, per lasciare spazio ad un lato dei Metallica fino a quel punto sconosciuto. Ballad struggente e maestosa nel suo incedere, sinonimo di grande band in grado di “comporre” senza il necessario bisogno di picchiare duro come dannati. È vero che la ballad è stata la croce e delizia di tutti i gruppi hard/metal. Ma è anche vero che questa sublima quella retorica perché è sincera. Ed è scritta da ventunenni. Non che ciò renda Fade To Black una canzone leggera da digerire, visto che il pezzo è totalmente pervaso da una tristezza unica e terribile da sopportare, supportato da un testo praticamente disperato. L'inizio del brano è fantasmagorico con uno stupendo arpeggio su cui si innesta la chitarra solista di Kirk Hammet che funge da apripista allo stupendo riff portante della canzone. A questo punto entra il cantato di James Hetfield, che mostra i primi significativi passi in avanti come cantante, infatti, nonostante sia ancora carente in alcuni punti, qui riesce a dare profondità alle sue linee vocali. Nonostante tutto, il vero particolarismo del brano risiede nel finale strumentale dove la già citata intesa tra James Hetfield e Kirk Hammet tocca importanti livelli di bravura, con uno splendido assolo sorretto da ulteriori e splendide linee di chitarra ritmica che formano un contrasto perfetto con quelle soliste. Di Fade To Black rimane inalterata, anche a distanza di tanti anni, e altrettanti ascolti, la sua bellezza e le emozioni che sa regalare. Dissolvenza strappalacrime nel nero. Entriamo ora in una fase delicata: la parte dell'album dove si trovano le canzoni più criticate d’anonimato: Trapped Under Ice ed Escape. Contestate e ritenute dai più solamente canzoni per fare numero, a mio avviso restano validissime, né tanto meno abbassano il livello qualitativo, rispetto a quanto i Metallica hanno combinato nei 90’s. Aborro! Dopo la "pausa" della traccia precedente non poteva non arrivare un'altra mazzata aggressiva ed è, quindi, il turno di Trapped Under Ice, un pezzo tirato, maligno ed inquietante. Il tutto per quattro minuti di violenza senza sosta con uno dei testi minacciosi mai letti. Trapped Under Ice è un tunnel nel glaciale flagello del calibro sonoro dell’opener. Escape rallenta i ritmi e smussa le asprezze per concedersi alla narrazione e all'allucinazione. Non riesco a capacitarmi del motivo per il quale i Metallica non l’abbiano mai suonato dal vivo con regolarità, dato che è un pezzo esaltante, sostenuto da un deciso riff portante che provoca costante e sfrenato headbanging e un melodico chorus tra i migliori mai partoriti dalla mente di James Hetfield e Lars Ulrich, per non parlare della “dissolta” parte finale ove la chitarra, delicatamente, riprende le melodie del refrain. Orecchiabile. Il disco non dà tregua, ecco la morte strisciante. Creeping Death è un tornado sabbatico senza requie o pause. L'alienazione e la violenza questa volta trovano un'ambientazione egizia vissuta con tanta ingenuità quanta radicalità. << Schiavi Ebrei nati per servire il Faraone, fate attenzione! Avete paura di ogni suo ordine. Abbiate fede nello straniero, è il salvatore. Aspettate! Bisogna fare qualcosa. Che sia scritto, che sia fatto. Mi manda l’eletto. Uccidere il primogenito del Faraone. Sono la morte, sto arrivando >>. Non c'e' molto da dire su Creeping death, uno dei grandi classici della band. Il monumentale riff portante ha fatto scuola, il pezzo è maledettamente epico ed energetico, il ritornello rappresenta in pratica l'ABC del metallo pesante... e poi è indimenticabile quel caotico ed assassino break finale con James Hetfield che urla ossessivamente "die"... storica. Da notare come per questo brano, e in particolare proprio per il concitato stacco centrale, i Metallica abbiano avuto parecchi problemi con i concittadini Exodus, ex band del riccioluto chitarrista Kirk Hammet, perché quel break faceva parte di un brano di quest’ultimi, intitolato Die By My Hand, presente sul loro primo demo. La conclusione del disco è affidata a The Call Of Ktulu, influenzata dall'ingegno creatore di H.P. Lovecraft, è in assoluto il maggiore brano dei Metallica e ultimo zampino lasciato da Dave Mustaine al vecchio gruppo: uno strumentale dove tutta la levatura armonica, melodica, compositiva ed esecutiva del gruppo viene fuori. Pagina che sorge delicata e poi via via, nel concitato crescendo, giunge alle spume più deflagranti e catastrofiche, tuttavia in qualche modo contenute da una superiore architettura ordinatrice. Nel finale, cui si giunge attraverso una selva di riffs dei più mesti della storia, campeggia un nugolo di distorsioni in cui paiono esservi rinchiusi tutti gli abissi delle generazioni universali. Scrivere pezzi strumentali non è cosa facile, per di più, scriverli così lunghi ancora meno: il rischio di annoiare a morte gli ascoltatori con interminabili girotondi sonori è costantemente dietro l'angolo. Invece, The Call Of Ktulu non annoia mai. In conclusione, ritengo che tale disco sia pervaso da un'atmosfera unica di tensione e malinconia, facendo sì che chiunque resti letteralmente incollato all'ascolto quasi fosse un film thriller ove l’assassino non è stato ancora smascherato. Creativo.