DARK REALMS V2

Post N° 58


OPETH: MORNINGRISE (1996)La gioia delle piccole cose, parte seconda. All’inizio, nel 1987, furono gli Eruption, una band formata dai giovanissimi Mikael Åkerfeldt e Anders Nordin, fan sfegatati di gruppi quali Death, Voivod, Morbid Angel e Bathory. Poi venne l’incontro con tale David Isberg e la decisione, nel 1990, di creare un gruppo totalmente nuovo. Presero come nuovo monicker un nome tratto da un libro di Wilbur Smith - "L’uccello del Sole" del 1990 - indicante la “città della luna”, aggiungendogli una “h” finale: fu così che nacquero gli Opeth. Dopo un breve periodo di assestamento e il reclutamento dei chitarristi Andreas Dimeo e Kim Pettersson scrivono le prime canzoni: Requiem Of Lost Souls and Mystique Of The Baphomet, in puro stile satanico. All’epoca infatti, i nostri volevano diventare una delle band più acclamate del pianeta, e pure il logo era in perfetto stile blasfemo. I ragazzi iniziarono ad avere un certo seguito nella scena death svedese, suonando con gente del calibro di Therion e At the Gates. A questo punto, però, David Isberg e Kim Pettersson lasciarono la band. Furono così precettati Peter Lindgren alle chitarre e Johan DeFarfalla al basso. Reclutati finalmente dalla Candlelight, gli Opeth sfornano un capolavoro di nome Orchid (1994). L’album non è puro death metal: alle parti chitarristiche e al cantato in growl furono affiancati degli intermezzi melodici col pianoforte che consentirono agli Opeth di creare delle atmosfere uniche, un po’ sulla falsariga dei My Dying Bride, soltanto più progressivi. Ciò costituirà la loro fortuna, perché da quest’album in poi non si può dire che abbiano mai sbagliato un colpo. Il grande successo, a detta dello stesso cantante Mikael Åkerfeldt, giunge con tale Morningrise (1996), paradossalmente, l’album più difficile da sentire della loro intera discografia. Cinque canzoni della durata media di 12 minuti non sono facili da assimilare, ma evidentemente il grande pubblico seppe mostrare grande apertura di mente ed orecchi, e i quattro svedesi, dalle impressionanti capacità compositive ed esecutive, ottennero un successo strameritato. L'anno era il 1996, la proposta musicale racchiudeva in se passato, presente e futuro. La ventata di freschezza portata da Morningrise era immensa, anche se, all’epoca, non lo si ammise. L'artwork è cupo e minimalista, ma capace di suscitare imprecisate emozioni: gli alberi, un lago in cui si riflettono le forme di una costruzione posta sull'acqua in totale solitudine, il colore pallido del cielo, praticamente un'opera d'arte. La musica: un urlo irruente alla disperazione, un dolce canto alla tristezza, una lunga melodia pescata dal passato e riletta in chiave moderna, suoni psichedelici intrecciati ad un growling malsano, chitarre dure ed abrasive che accompagnavano un dolce cantato pulito e triste. Opeth, un cubo dalle mille sfaccettature che si rincorrevano fra loro. Morningrise è arte fatta musica, un capolavoro inimitabile persino dagli Opeth stessi. L'amore viscerale verso il prog dei favolosi '70, l'amore verso le distorsioni acerbe del death metal, l'amore verso la leggerezza dei suoni di una chitarra acustica spinsero gli Opeth a comporre brani lunghi, poco digeribili, ma tanto affascinanti per la loro struttura "strana" e contorta, fuori dal comune, sostanzialmente distante anni luce dalle proposte dei gruppi contemporanei. Un sovrapporsi di note, un intreccio di stili musicali totalmente diversi, un'orgia musicale talmente perfetta da far rabbrividire.In un singolo brano si alternavano momenti di inaudita ferocia, accompagnati a momenti in cui le chitarre acustiche disegnavano delle melodie tenui e delicate che sfociavano in leggera malinconia grazie anche all'apporto della favolosa e versatile voce di Mikael Åkerfeldt, che riusciva ad alternare momenti di growling furioso al cantato pulito davvero toccante. Immenso anche l'apporto degli altri musicisti; la sezione ritmica è fantastica con un basso pulsante e la batteria di Anders Nordin sempre varia ed ispirata, il tutto conferendo un tono vintage, retrò, a buona parte dell'album. Sarebbe bene pensare a Morningrise come un unico lungo brano, una lunga poesia decadente dalle rime contorte, invece, che estrapolarne ogni singola nota per descriverla e mettere su "carta". Morningrise è una creatura che vive tutt’oggi di vita propria, che piange e si dispera, che urla del dolore, ciò nonostante, una creatura che riesce a cogliere i brevi momenti di felicità che la vita offre. Advent, The Night And The Silent Water, Nectar, Black Rose Immortal e To Bid Your Farewell sono dei capolavori di musica e di innovazione; nonostante lo scorrere degli anni, riescono ad affascinare ed ancora oggi, ad ogni ascolto, riesci a percepire un passaggio, una singola nota, prima rimasta all'oscuro, quasi per volere degli Opeth stessi. Brani da custodire con gelosia nel proprio cuore, brani da ascoltare al buio in una stanza, guardando fuori dalla finestra, magari in un giorno di pioggia battente, annusando il profumo della terra bagnata nell’aria e ascoltando simultaneamente il battito del cuore. Personalmente sono molto legato a quest'album, perché è quello con cui mi sono avvicinato agli Opeth per la prima volta: un'esperienza che consiglio a tutti di provare. Si parte con Advent, bellissima per il suo saper evocare atmosfere dolci e melancoliche allo stesso tempo, e per i suoi vaghi richiami al precedente Orchid (1994). Verso la fine emerge la vena più progressiva degli Opeth, quella votata un po' di più alla ricercatezza, senza trascurare tuttavia l’evocativa vena sonora. Sono qui portate avanti nuove proposte, nuove soluzioni, che anche da un punto meramente tecnico-compositivo non possono non essere ben valutate. Il finale della canzone è quasi del tutto dedicato alle chitarre, vere regine nel mondo degli Opeth, che con un misto di delicati arpeggi e arrangiamenti delicati chiudono il pezzo di una bellezza difficilmente descrivibile. La successiva The Night And The Silent Water, poi, è qualcosa di semplicemente strabiliante, decisamente fuori dal comune, nessun altro avrebbe potuto scriverla. Gli assoli distorti, le magnifiche ed avvolgenti aperture melodiche, gli stacchi acustici di un'intensità emozionale inconcepibile, le intense accelerazioni, senza dimenticare le due chitarre che si intrecciano l'un l'altra con un'armonia sbalorditiva, passaggi naturali dal growl al pulito, da suoni freddi ed aggressivi ad altri caldi, delicati ed avvolgenti. Una delle canzoni simbolo degli Opeth, a mio parere. Esaltante. La traccia centrale è Nectar, semplicemente splendida: il gruppo si incattivisce proponendo una carica ed un'intensità affascinante, con un'incantevole sensibilità drammatica di fondo. Tocca poi a Black Rose Immortal. La "canzone" per eccellenza: oltre 20 minuti uno più bello dell'altro. Gli Opeth racchiudono un'incommensurabile complessità in una compattezza talmente naturale da lasciare a dir poco a bocca aperta. Emozioni che si susseguono una dopo l'altra, ogni singola parte della canzone è viva di per sé e colpisce dritto al cuore: 20 minuti composti con una fantasia che definire sovrannaturale è come far ricorso ad un eufemismo, melodie diverse che si concatenano squisitamente l'un l'altra ed entusiasmano per la loro divagante bellezza. Sinceramente, non credo che qualcun altro sarebbe riuscito a scrivere Black Rose Immortal. Una canzone intensa, divina, inumana, non vorrei esagerare ma qui sembra di stare a contatto con un entità superiore. Signore e Signori, questa è musica che sa emozionare, è musica vera. E che dire poi del conclusivo pezzo semi-acustico, To Bid Your Farewell, concentrato puro di emozioni, che sembra vivere su esse. Niente growl animaleschi, ma solo clean vocals essenziali e struggenti. Chitarre che prendono le note e le trasformano in sentimento, note intimistiche che risvegliano in noi le sensazioni più nascoste. Incredibili, geniali, stupefacenti, ecco gli Opeth. Osereste mai ascoltarli?